Cosa sono le scienze sociali (III parte)

Gli sviluppi delle scienze sociali mostrano il loro stretto legame con le trasformazioni del capitalismo.


Cosa sono le scienze sociali (III parte)

Spesso l’espressione “scienze sociali” viene considerata analoga a quella “scienze umane”, mentre in realtà i due ambiti hanno un fondamento differente sia dal punto di vista epistemologico che ontologico. Tradizionalmente le scienze umane, a partire da Wilhelm Dilthey a Ernst Cassirer, tendono a ribadire la specificità dell’uomo rispetto alle altre specie animali; secondo quest’ultimo autore il carattere peculiare dell’essere umano consisterebbe nel suo essere un animale simbolico, aspetto da cui deriverebbe la sua inventività e superiorità. 

Pertanto, chi preferisce dedicarsi allo studio delle scienze umane ritiene che ci sia una netta antitesi tra l’evoluzione biologica e quella culturale, la prima di esclusiva pertinenza degli animali. Invece, dopo aver concluso la prima fase, gli esseri umani avrebbero intrapreso il complesso percorso della seconda. Secondo questa prospettiva, che oppone evoluzione biologica ed evoluzione culturale, elementi quali la cultura, il linguaggio, l’attività simbolica nel suo complesso, acquisiti nella vita collettiva e contrapposti alla dimensione istintuale, sono considerati esclusivamente propri della specie umana. Invece, le ricerche sul mondo animale hanno mostrato che gli animali non sono governati solo dall’istinto, dato che sono anche capaci di imparare, di trasmettere con i loro mezzi le informazioni e di sviluppare attività simboliche, come per esempio i rituali di corteggiamento tipici di tante specie.

In conclusione, dal punto di vista dei cosiddetti umanisti, la natura ontologica dell’uomo sarebbe profondamente diversa da quella degli animali; di conseguenza, dal punto di vista epistemologico ciò significa che i procedimenti esplicativi propri delle scienze umane debbono essere profondamente differenti da quelli propri delle scienze naturali e fondati sulle modalità della comprensione piuttosto che su quelle della spiegazione.

Coloro che, invece, adottano la prospettiva sociologica in senso generale vedono una relazione di continuità tra l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale, rimarcando che anche alcune specie animali sono dotate di una vita collettiva assai sofisticata.

Come scrive Pietro Rossi: “Al pari degli animali, anche l’uomo agisce sulla base di disposizioni «innate» e non soltanto di abitudini acquisite. Ciò ha condotto ad allargare l’ambito della cultura, riconoscendo l’esistenza di forme di cultura presso gli animali, o almeno presso varie specie animali. Neppure il linguaggio può più essere addotto come una peculiarità esclusiva dell’uomo: se per linguaggio s’intende un insieme di segni che deve rendere possibile la comunicazione tra gli individui appartenenti alla stessa specie… Proprio della specie umana è invece un linguaggio verbale reso possibile dalle caratteristiche fisiche dei suoi organi di fonazione”. 

Alla luce di queste considerazioni possiamo affermare che oggi sembra più ragionevole l’idea che nell’uomo le due forme di evoluzione siano tra loro strettamente intrecciate, come d’altra parte è sempre stato noto alla concezione dialettica della storia umana, secondo la quale noi siamo quelli che siamo e abbiamo il corpo che abbiamo perché viviamo in questo mondo così fatto, modificando il quale modifichiamo anche noi stessi. Nota è la dimostrazione del nesso tra evoluzione biologica e culturale fatta dal paletnologo francese André Leroi-Gourhan, per il quale lo sviluppo del cervello e delle abilità a esso connesse si è realizzato grazie al fatto che la mano si è gradualmente costituita come strumento peculiare dell’uomo, liberando la faccia dalle funzioni precedentemente avute.

In definitiva, a differenza delle scienze umane che puntano sulla categoria di interpretazione, si avvalgono dell’ermeneutica, non credono nelle possibilità di verifica, le scienze sociali, per le quali parteggio, pur sottolineando la loro differenza dai cosiddetti campi scientifici puri, non si autoescludono dalla scienza vera e propria. Infatti, ritengono possibile il raggiungimento di una “verità obiettiva”, sia pure condizionata dal punto di vista del ricercatore, e sono disponibili a sottoporre i loro risultati alla verifica e alla coerenza logica. Per queste ragioni, hanno evitato salutarmente di impegolarsi con la letteratura come i loro fratelli-nemici, senza escludere che un’opera scientifica possa avere anche un valore letterario.

Fatta questa premessa di ordine generale, torniamo ad analizzare le varie correnti in cui si dividono le scienze sociali, trattando nello specifico i contributi delle tendenze novecentesche, dalle quali sono sorte impostazioni assai problematiche, se non autodistruttive, che vanno sotto l’etichetta generale di postmodernismo [1].

In particolare, un’altra tendenza degli studi sociali, di impronta nomotetica ma antinaturalistica, è quella che si ispira allo strutturalismo linguistico e utilizza modelli altamente astratti per comprendere la vita sociale, giustificando tale applicazione con il principio che la cultura è comunicazione (parallelo lingua/cultura). Ovviamente mi sto riferendo agli studi antropologici di Claude Lévi-Strauss, il quale ha alimentato una forte corrente dominante tra gli anni Sessanta e Settanta, generando i suoi stessi oppositori definiti come post-strutturalisti o postmoderni. Lévi-Strauss si considera un continuatore di Marx, in quanto egli svilupperebbe l’indagine della dimensione sovrastrutturale incominciata da quest’ultimo, benché lo faccia seguendo una sua prospettiva peculiare non riconducibile all’individuazione del legame tra struttura e sovrastruttura, da cui scaturirebbe l’incielamento delle relazioni sociali in idee astratte e misteriose. Questa prospettiva si basa sulla ricerca di strutture logiche comuni a tutte le culture, di schemi costanti presenti nelle numerose forme in cui gli uomini pensano la loro relazione con la natura e la società.

L’antropologo francese, la cui riflessione ha segnato un’epoca, ha applicato la sua prospettiva a vari temi squisitamente antropologici come la parentela, il mito, il rito, il totemismo. Temi che non toccheremo, giacché credo sia più interessante per chi si occupa della società contemporanea analizzare la sua spiegazione del cosiddetto “pensiero concreto” che fa parte della nostra vita quotidiana. Si tratta di una forma di pensiero simbolico che si avvale di metafore concrete per dar forma a nozioni nei vari ambiti della vita sociale, in molti casi creando mistificazioni e confondendo le menti degli individui. 

Per fare un esempio, riferirò due metafore concrete ampiamente utilizzate nel linguaggio politico statunitense, che illustrano due linee politiche divergenti. L’esempio è tratto dal libro di George Lakoff e Mark Johnson (Metafora e vita quotidiana, 2004), in cui esaminano i discorsi politici dei democratici e dei repubblicani, quando ancora non si erano fusi nell’unico partito di Wall Street. Per spiegare il loro progetto di società, i primi sostengono che lo Stato debba comportarsi con i suoi cittadini come un padre benevolo, sempre preoccupato dei loro bisogni e per questo sviluppare all’uopo importanti politiche sociali; invece, i repubblicani sono convinti che tale scelta politica impigrisca i cittadini, i quali al contrario debbono sbrigarsela da soli e non aspettarsi tutto dalle istituzioni. Come vedete, con due metafore che sembrano alquanto innocue viene spiegata la differenza tra il welfare State e la politica di austerità, impostaci negli ultimi decenni.

Gli studi di Lévi-Strauss ci aiutano a capire come viene costruito questo tipo di pensiero, che impiega la dimensione concreta delle cose, per comunicare concetti e per presentare in modo familiare qualcosa che potrebbe suscitare almeno perplessità. 

Ora, dal punto di vista dell’antropologo francese, la capacità di esprimere pensieri attraverso metafore concrete costituisce una di quelle strutture profonde invarianti collocate in quello che definisce inconscio, ma che non deve essere inteso in senso freudiano. Lévi-Strauss è convinto che dietro alla variabilità dei fenomeni empirici, costituenti l’apparenza disordinata del reale, stiano regole e norme profonde, delle quali siamo inconsapevoli, le quali possono essere enucleate dai fenomeni stessi. 

Si staglia, dunque, nella riflessione di Lévi-Strauss, la nozione di inconscio, che non è ripiena di contenuti istintuali, ma di schemi logici che ci consentono di comprendere la realtà e di organizzarla, sia pure mediante le differenti modalità culturali. Nozione che di fatto, anche se non sempre viene esplicitata, assume un ruolo centrale nelle scienze sociali. 

Vorrei ricostruire brevemente i presupposti di Lévi-Strauss e il suo modo di procedere. In primo luogo, come Durkheim, egli ritiene che i fenomeni sociali siano sistemi obiettivati di idee, ossia istituzioni che si fondano su una costruzione del pensiero, il quale a sua volta è organizzato secondo schemi universali. Per questa ragione, noi possiamo comprenderli solo se ricostruiamo le strutture mentali elementari, la cui natura è inconscia, alle quali può essere ricondotta la complessità dei fenomeni sociali. Nel caso del pensiero concreto lo schema profondo è rappresentato dall’organizzazione del reale non in termini concettuali, ma in termini di segni concreti che vengono tra loro contrapposti secondo una logica binaria, come il padre benevolo a quello severo.

Distinguendo tra questi due livelli, come per Marx, per Lévi-Strauss la realtà si scinde in due: da un lato sta la dimensione empirica e apparente, che è varia, molteplice, discontinua, dall’altro la dimensione celata, inconscia e sistematica, che non si mostra mai direttamente.

A mio parere, è stato giustamente sottolineato che la concezione strutturale dell’inconscio qui illustrata presenta alcuni aspetti problematici: 1) consente solo allo studioso il recupero consapevole delle forme inconsce; 2) ne consegue che non esiste un soggetto politico, di cui il ricercatore può essere espressione, in grado di portare alla coscienza il progetto sociale incapsulato nelle pratiche storiche; 3) non esiste un soggetto che possa farsi carico di un progetto alternativo a quello che gli viene imposto; 4) infine, il dominio del sistema annulla le disfunzionalità e le contraddizioni, annientando così le possibilità di cambiamento e la storia. Come finì col sostenere successivamente Michel Foucault, non ci resta che la resistenza e il sabotaggio. In definitiva, nella prospettiva levistraussiana il soggetto si dissolve in schemi inconsci, che non è in grado di riconquistare.

Secondo Lucien Goldmann le tematiche strutturaliste, che hanno diffuso appunto l’idea della scomparsa del soggetto e della storia e hanno parlato di un sapere riservato esclusivamente alle élites, sarebbero il prodotto di quella certa fase capitalistica, definita capitalismo monopolistico o d’organizzazione. A suo parere, esso sarebbe caratterizzato dalla diminuzione progressiva del peso politico dei lavoratori, dallo sviluppo di una classe di specialisti ben pagati (i tecnocrati), che hanno un ruolo importante nella produzione e nel processo decisionale, mentre i subordinati sarebbero ridotti al rango di meri esecutori. 

 

Note:

[1] Si veda https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/197-il-radicamento-del-pensiero-antropologico-post-moderno-nella-societa-contemporanea

18/03/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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