Nella sua opera principale, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Keynes critica la legge di Say sostenendo che la coincidenza immediata fra atto di acquisto e atto di vendita, fra domanda e offerta, sussiste nelle economie basate sul baratto, non in quelle in cui lo scambio avviene attraverso la moneta. Balza subito agli occhi che questa critica è congruente con quella che molti decenni prima aveva formulato Marx, sia pure in maniera molto più brillante e polemica.
L'idea che fossero possibili le crisi quando non tutto il reddito viene speso non è quindi originale di Keynes. Oltre a Marx, ci erano arrivati anche diversi altri autori tra cui Thorton, Sismondi e Malthus.
Veniamo dunque alle cause di questa mancata spesa. I marginalisti, quando giungevano ad ammetterlo, davano la colpa ai salari troppo alti a causa di rigidità istituzionali, quali la contrattazione collettiva o legislazioni favorevoli ai lavoratori. Se invece si permettesse ai salari di scendere fino al livello di equilibrio, domanda e offerta di lavoro si uguaglierebbero.
Keynes al contrario addebita la disoccupazione all'insufficienza della domanda aggregata, cioè del totale delle merci domandate, rispetto all'offerta che il sistema economico sarebbe in grado di mettere in atto. Ne consegue che la produzione diviene inferiore rispetto al potenziale e non in grado di impiegare completamente i lavoratori e i mezzi di produzione disponibili.
Avevamo visto, trattando gli schemi di riproduzione di Marx, che la domanda aggregata uguaglia l'offerta se a fronte dei risparmi c'è un equivalente importo degli investimenti. Per i marginalisti questa condizione si verifica automaticamente tramite aggiustamenti del tasso di interesse che fa coincidere nel mercato finanziario la domanda di fondi per gli investimenti all'offerta di fondi da parte dei risparmiatori. Keynes mette in discussione questa funzione del tasso di interesse. Per lui detto saggio incide sulla decisione di tenere i risparmi in forma liquida piuttosto che impiegarli nel mercato finanziario. Esso non è giustificato dal sacrificio per l’“astinenza” dal consumo immediato, come sostenevano gli ortodossi, ma dalle aspettative degli agenti economici e dalla preferenza per la liquidità.
Il desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è anche in relazione al grado di sfiducia verso il debitore. Per esempio, lo spread sui tassi del debito pubblico dei vari paesi, è conseguente al differente grado di fiducia verso gli stati indebitati. Se gli operatori economici ritengono che il debito di uno Stato comporti il rischio di insolvenza, o comunque di provvedimenti svantaggiosi per i risparmiatori necessari per evitare il default, allora pretendono un tasso di interesse superiore per essere compensati di tale rischio. Emiliano Brancaccio ipotizza il caso di un paese dell'Eurozona con i conti con l'estero in forte disavanzo. Quel paese, al fine di essere più competitivo, potrebbe scegliere di uscire dall'euro per poter svalutare la moneta. In tali casi sovente si ricorre anche alla ridenominazione dei titoli del proprio debito pubblico, già emessi in euro, nella nuova valuta. Il creditore, visto che l'operazione ha senso se successivamente si svaluta la moneta, vedrebbe così deprezzarsi i titoli in possesso e a fronte di tale rischio pretenderebbe un tasso di interesse superiore [1].
Invece l'ammontare dei risparmi complessivi dipende dal reddito disponibile. Chiamando Y il reddito aggregato e S e s la quota del reddito che viene risparmiata, che Keynes denomina propensione al risparmio, si ha la relazione
S=sY
Gli investimenti invece dipendono dalle aspettative di profitto degli imprenditori, che Keynes denomina efficienza marginale del capitale. Se il saggio del profitto atteso supera il tasso di interesse, allora lo “spirito animale” dei capitalisti li induce a investire. Diversamente non lo faranno. Risparmi e investimenti derivano perciò da decisioni autonome e quindi possono divergere.
A lui viene attribuita un'importantissima scoperta, il moltiplicatore degli investimenti (meglio sarebbe dire della spesa). In realtà già Kalecki [2], a cui peraltro va il merito di un'elaborazione più completa, aveva esposto questo meccanismo e successivamente lo aveva fatto lo stretto collaboratore di Keynes Richard Ferdinand Kahn [3]. Il termine discende dal fatto che, in caso di sottoccupazione, un investimento aggiuntivo, ma in generale una qualsiasi spesa aggiuntiva indipendente dal reddito, determina un aumento della domanda, e con ciò il prodotto nazionale, in una misura multipla del suo importo. Tale moltiplicatore è tanto più grande quanto più lo è la quota dei redditi spesa in consumi (propensione al consumo=1-s).
Al contrario una riduzione della spesa innesca un effetto domino che conduce a una contrazione della domanda pari a un multiplo della diminuzione iniziale.
Anche in questo caso Marx aveva già descritto in maniera discorsiva un meccanismo simile, che poi Keynes, Kalecki e Kahn hanno formalizzato e quantificato. Si veda per esempio un passo delle Teorie sul plusvalore dedicato a Ricardo in cui si osservò che la carenza iniziale della domanda in un’industria possa innescare una serie di ripercussioni in tutto il sistema, determinando una generalizzata scarsità della domanda e una conseguente disoccupazione [4].
Se esistono mezzi di produzione e lavoratori inutilizzati a causa di una carenza di domanda, una spesa aggiuntiva costituisce immediatamente in una domanda aggiuntiva di pari importo. Però le imprese che producono le merci necessarie a soddisfare questa domanda devono a tal fine acquistare nuovi mezzi di produzione presso altre imprese e assumere nuovi lavoratori. Le imprese che producono i nuovi mezzi di produzione richiesti, a loro volta dovranno acquistare altri mezzi di produzione e assumere nuovi lavoratori. I nuovi assunti avranno a disposizione nuovo reddito, che spenderanno totalmente o in massima parte, incrementando la domanda di beni di consumo, cosicché anche le imprese produttrici di beni di consumo dovranno acquistare nuovi mezzi di produzione e forza-lavoro e così via.
Keynes formalizza la cosa a partire dalla condizione di equilibrio e dalla relazione fra risparmi e reddito. Denominando I gli investimenti, l’equilibrio macroeconomico, S=I è dato da sY=I, e quindi Y=I/s. Poiché s è minore di uno (non tutto il reddito viene risparmiato), ciò significa che il prodotto è un multiplo dell’investimento stesso.
Esemplificando, se per ipotesi l’80% dei redditi viene consumato, e quindi s è uguale a 0,2, allora un investimento aggiuntivo ΔI comporterà un aumento della domanda pari a ΔY=ΔI/0,2, cioè quintuplo.
A fronte di un investimento aggiuntivo anche i risparmi aumenteranno a seguito dell’aumento del reddito indotto dal moltiplicatore. Tale aumento, infatti, determina a sua volta un accrescimento dei risparmi, che sono proporzionali al reddito stesso. Gli economisti ortodossi avevano sostenuto che i risparmi, fornendo le risorse necessarie, determinano gli investimenti e che pertanto costituiscono un elemento virtuoso. Nel caso di piena occupazione, in effetti, è così. Ma se vi sono risorse produttive inoccupate, è vero il contrario; sono gli investimenti che, attraverso un aumento della domanda e quindi del reddito, determinano i risparmi. Anche questa osservazione è dovuta a Kalecki, prima che a Keynes.
L'incremento del reddito abbiamo visto che è inversamente proporzionale alla propensione al risparmio, si evidenzia pertanto che il risparmio è controproducente ai fini del raggiungimento della piena occupazione.
Keynes è consapevole tuttavia che il livello ottimale degli investimenti non sempre può avvenire attraverso le scelte razionali degli imprenditori i quali investono finché ne riscontrano la convenienza, finché l'efficienza marginale del capitale è superiore al tasso di interesse.
Conseguentemente Keynes, a differenza dei neoclassici che auspicavano alti tassi di interesse per invogliare i risparmi, caldeggia bassi tassi di interesse che incoraggiano gli investimenti. Fino a giungere all’auspicata eutanasia del rentier (la scomparsa di chi vive di rendita). Infatti, il tasso di interesse si spiega con la scarsezza di liquidità che rende costoso il ricorso al prestito, così come la rendita fondiaria si spiega con la scarsità della terra. Ma se la scarsità della terra è un fatto naturale, non lo è la scarsità di liquidità e pertanto sono auspicabili politiche monetarie che rendano meno costoso l’accesso al credito.
Keynes però vede il rischio che la sola espansione della liquidità, senza riguardo all’economia reale, possa tradursi nella trappola della liquidità, cioè in comportamenti dei privati volti a detenere questo denaro senza significativi ritorni nell’economia reale. Può avvenire, per esempio, quando il tasso di interesse è considerato eccessivamente basso e ci si aspetta che in futuro aumenti. In tal caso chi acquista titoli oggi potrebbe subire domani perdite in conto capitale, dato il rapporto inverso esistente fra valore dei titoli fruttiferi e tasso di interesse. In tal caso i possessori di denaro preferiscono tenerlo in forma liquida e nel complesso continueranno ad assorbire moneta per quanta ne venga immessa.
Marx, nel libro III del Capitale [5], pur nella sua incompiutezza, constata che anche i titoli del debito assorbono liquidità se vengono meno le opportunità di impiegare il denaro nel sistema produttivo. In presenza di tali difficoltà la liquidità rimane intrappolata nella finanza, temporaneamente più redditizia e comunque più “liquida” o liquidabile rispetto agli investimenti produttivi. Si creano così bolle finanziarie che consentono di rinviare crisi per renderla più violenta quando esploderanno.
Neppure l’adeguamento dei salari può assicurare per Keynes la piena occupazione dei lavoratori. Ovviamente tale domanda non è insensibile al costo della forza-lavoro ed è decrescente al crescere dei salari ma ha dei limiti. Essa non dipende solo dai salari ma anche dal livello dell’attività economica. Se il mercato non “tira” non si assume. Keynes inoltre afferma che una riduzione dei salari aumenterebbe l'occupazione se rimanessero ferme le altre circostanze, mentre invece determina anche la diminuzione della capacità di spesa dei lavoratori e quindi della domanda.
Molti autori keynesiani, inoltre, affermano che dal lato dell’offerta i salari monetari siano rigidi verso il basso in virtù dei contratti collettivi di lavoro, con i quali si negozia il salario monetario e non quello reale. Tale contrattazione infatti non risente, se non in ritardo, del fatto che una riduzione dei prezzi dovuta alla deflazione incrementi i salari reali e consenta quindi la loro diminuzione. L’andamento dell’offerta avrebbe un andamento piatto rispetto ai salari reali fintanto perdura la disoccupazione e solo in prossimità del pieno impiego i salari cresceranno al crescere della domanda. Se l'incrocio fra le curve di domanda e di offerta di forza-lavoro avviene nel tratto orizzontale di quest'ultima si avrà un equilibrio di sottoccupazione.
In situazioni di depressione, in cui gli investimenti privati non consentono di supplire alla scarsità dei consumi, è opportuno che sia lo Stato a mettere in campo una domanda aggiuntiva da abbinare alla politica monetaria espansiva. Anche la spesa pubblica, dovendo acquistare nel mercato le merci necessarie o fornendo ad altri soggetti i mezzi necessari per il loro acquisto, nel caso di spesa per trasferimenti, fa parte della domanda aggregata, producendo un risultato identico a quello di un qualsiasi altro aumento di spesa, e quindi produce un aumento indotto della domanda multiplo della spesa iniziale.
Crescerà così il reddito disponibile, generando sia il maggior gettito fiscale per coprire l’aumento di spesa pubblica, sia il maggior risparmio necessario a finanziare i maggiori investimenti privati occorrenti per supportare questa la crescita indotta. Pertanto la spesa pubblica non sottrae risorse per gli investimenti privati ma, in condizione di disoccupazione, provocando un aumento della domanda, comporta un aumento della produzione e l’impiego di forza-lavoro e mezzi di produzione. La riduzione dell’imposizione fiscale non è quindi una cosa provvidenziale. Perfino una spesa pubblica aggiuntiva interamente finanziata dal gettito fiscale attuale, attraverso una maggiorazione del prelievo fiscale, produce un beneficio netto, visto che quei redditi prelevati non sarebbero stati per intero spesi, ma in parte risparmiati. Pertanto la riduzione di imposte è un cavallo di battaglia delle destre ma una sciagura per i lavoratori, non solo per gli effetti negativi sull'occupazione, ma anche perché si affievolirebbe il ruolo dello Stato e della socialità in favore di quello del mercato, dove i più deboli regolarmente soccombono, e si realizzerebbe una società meno solidale. Ovviamente no se i soldi pubblici sono spesi per sviluppare questa socialità, cosa purtroppo non sempre vera.
Questa visione orientata tutta sulle politiche monetarie espansive e sul sostegno della domanda è del tutto coerente con l'ammirazione che Keynes aveva per Proudhon. Nei prossimi articoli vedremo infatti che la sua analisi è monca e che non può sostituire quella di Marx, nonostante alcune derivazioni, più o meno consapevoli, da quest'ultima.
Note:
[1] Cfr. E. Brancaccio, Deficit commerciale, crisi di bilancio e politica deflazionista, in Studi economici, n° 96 (3), 2008.
[2] Cfr. M. Kalechi, Theory of Economic Dynamics. An Essay on Cyclical and Long-run Changes in Capitalist Economy, A.M. Kelley Publishers, New York, 1969.
[3] Richard Ferdinand Kahn, The Relation of Home Investment to Unemployment, in Economic Journal, Giugno 1931.
[4] K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. II, ed. Einaudi, Torino, pp. 576-78.
[5] K. Marx, Capitale, Libro III, Sez, V, Editori Riuniti, Roma, quasi interamente dedicata al capitle fittizio e alla finanziarizzazione dell'economia, pp. 547-711.