Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su questo argomento.
Durante la Prima guerra mondiale vi era stato un massiccio intervento dello Stato in economia, tanto da far parlare di socialismo nazionale o di guerra, anche se nei fatti si trattava di un regime che sotto diversi punti di vista anticipava i sistemi totalitari che si affermeranno negli anni trenta. Del resto, nel primo dopoguerra il connubio fra Stato e grande capitale diviene una costante di tutti i paesi a capitalismo sviluppato, sino ai giorni nostri. Dopo le distruzioni della guerra l’economia dei paesi a capitalismo avanzato, prima bloccata dalla crisi di sovrapproduzione, riprende a crescere sfruttando la fase di ricostruzione, ultimata la quale già nel 1921 si ripresenta, nel paese più sviluppato in senso imperialista, la crisi di sovraccumulazione e di conseguenza una grande ondata di disoccupazione, in quanto le imprese più deboli falliscono e le più forti ne approfittano per ristrutturare e licenziare, sfruttando la debolezza dei sindacati, a causa della creazione di un crescente esercito industriale di riserva, in assenza di un partito comunista in grado di incidere.
L’ondata inflazionistica si abbatte su Ungheria, Austria e Germania
Al solito gli Stati più avanzati, in cui per prima si manifesta la crisi, tendono a scaricarla all’interno sui subalterni, all’esterno sui paesi capitalisti o da essi dipendenti maggiormente deboli. Inoltre, questo consueto scaricare i costi negativi della crisi sui più deboli, diviene una potente arma di ricatto nella mani, in questo caso, degli Stati uniti. Dinanzi ai forti movimenti sociali e alle spinte rivoluzionarie gli Stati uniti e i loro investitori ritirano i capitali investiti nelle economie dei paesi più deboli, in quanto usciti sconfitti dalla grande guerra: Ungheria, Austria e Germania, per paura di perderli in una possibile rivoluzione o come ricatto per prevenirla.
Le tre economie di questi paesi vengono letteralmente travolte da una spaventosa ondata inflazionistica, in quanto gli Stati stampano sempre più carta moneta per pagare il crescente debito pubblico e gli immensi debiti di guerra. Lo strumento inflattivo è uno dei metodi più efficaci, consueti e rodati per scaricare i costi negativi della crisi sulle classi subalterne che vivono di un reddito fisso. In effetti, i capitalisti reagiscono all’inflazione alzando i prezzi di tutte le merci, mentre i salari restano stabili ma perdono sempre più il loro potere d’acquisto. A essere colpiti sono innanzitutto i pensionati e i sottoproletari, che non hanno strumenti di difesa dal punto di vista sociale, in secondo luogo i ceti medi poco organizzati e abituati a mettere in campo forme di lotta in grado di incedere
Colpiti sono anche i lavoratori salariati, in quanto la crescente disoccupazione indebolisce i sindacati. Infine, oltre alle classi medie e ai pensionati sono pesantemente colpiti anche i risparmi della piccola e media borghesia, che vedono presto svanire i risparmi di una vita, visto che la moneta è sempre più svalutata. Dinanzi al crescere del costo della vita, aumenta sempre più il bisogno di cartamoneta, che si svaluta progressivamente, al punto che un kilo di burro in Germania arriva a costare 5.600 marchi, sostanzialmente l’equivalente in euro 5.000, che a quei tempi costituiva una cifra da capogiro. Mancando carta moneta di grande taglio, le persone che ancora se lo potevano permettere, erano costrette a fare provviste con valigie cariche di carta moneta che ormai non valeva più del suo costo reale.
Il piano Dawes
La ripresa produttiva degli Usa si ha già nel 1922, per la capacità di scaricare all’estero i costi della crisi e di rilanciare la domanda interna inventando la vendita rateale. Tale ripresa finisce con l’avere effetti benefici anche sui paesi capitalistici europei, che erano stati costretti a distruggere – in quanto più deboli – la maggior parte dei capitali e delle altre merci sovrapprodotte. Priva di sbocchi per le esportazioni (avendo perduto tutto l’impero coloniale a causa della sconfitta in guerra, che gli era costata la perdita di territori sia ovest che a est), e colpita da una paurosa inflazione – dovuta principalmente alla necessità di pagare i terribili costi di riparazioni della guerra – l’economia capitalista tedesca correva il serio rischio di tracollare, favorendo così la ripresa delle forze rivoluzionarie.
Per evitare ciò, gli Stati uniti – interessati a investire all’estero – finanziano la Germania con il piano Dawes del 1924. Con gli 800 milioni di marchi-oro investiti e prestati dai capitalisti statunitensi, la crisi di sovrapproduzione fu ulteriormente rinviata. Da parte sua l’economia capitalista tedesca fu in grado, anche sfruttando il prezzo bassissimo della forza di lavoro a causa della povertà e dell’alta disoccupazione, di rilanciare la produzione. Con la ripresa dei profitti, per paura di una nuova crisi di sovraccumulazione, diversi capitalisti investirono in titoli dello Stato essenziali per quest’ultimo per riprendere a pagare, oltre i crescenti interessi, le pesanti rate delle riparazioni di guerra a Inghilterra e Francia. Queste ultime potevano così ripagare gli enormi debiti contratti con gli Usa per poter vincere la guerra. In tal modo, con una partita di giro i soldi statunitensi investiti in Germania, ritornavano con gli interessi negli Usa. I legami profondi fra economia statunitense ed economia tedesca consentirono a quest’ultima di tornare a essere, in breve tempo, la prima potenza industriale del continente. D’altra parte, priva di sbocchi all’estero, lo spettro della crisi non poteva che tornare a turbare i capitalisti tedeschi, oltre che gli statunitensi, visto che gli interessi sul debito facevano affluire nel paese maggiori capitali di quelli che erano investiti all’estero.
La crisi del 1929
Del resto l’enorme bolla speculativa – che si era venuta a creare negli Usa dove le banche, non riuscendo più a investire in attività produttive, speculavano in borsa – non poteva che a un certo punto esplodere. In quanto i capitali investiti in scommesse sulle attività produttive finirono per essere troppo più grandi dei capitali reali, per cui i prezzi delle azioni che erano stati gonfiati ad arte dalle attività speculative non potevano che riprecipitare anche al di sotto del loro valore reale. Inoltre anche i prestiti sempre più rischiosi delle banche a subalterni statunitensi, sempre meno in grado di ripagarli, anche perché sempre più indebitati con gli acquisti a rate, illusi di poter mantenere lo stile di vita precedente, non potevano che portare questi ultimi all’impossibilità di continuare a pagare gli interessi su debiti, che divenivano sempre più inesigibili. Naturalmente i grandi investitori, che avevano molte più informazioni, potendo assumere degli esperti, per prevenire lo scoppio della bolla speculativa, riuscirono a vendere le azioni ultra-sopravvalutate e i debiti, ormai inesigibili, in tempo per intascarne gli interessi, scaricando sugli investitori più deboli il peso negativo del crack finanziario, espressione fenomenica della crisi di sovrapproduzione dell’economia reale.
La crisi, nei fatti già in preparazione da anni, esplode per i piccoli e medi risparmiatori e per i subalterni spinti a indebitarsi ben oltre le loro possibilità nel 1929. Come di consueto i costi negativi della crisi, oltre che sui subalterni, furono scaricati dagli Usa sui paesi capitalisti più deboli, che dipendevano dai loro prestiti e investimenti. Così quando improvvisamente, consapevoli che la crisi di sovrapproduzione in Germania non poteva più essere rinviata, i grandi investitori statunitensi ritirarono quasi all’unisono i loro investimenti, l’economia dipendente tedesca non poteva che subire un nuovo tracollo, visto che il valore delle sue azioni prima artificiosamente lievitato precipitò ben al di sotto del valore reale. Tutti i piccoli e medi risparmiatori non avvertiti per tempo videro precipitare il valore dei loro investimenti. Le imprese meno in grado di sopravvivere alla terribile lotta per la concorrenza che si sarebbe immediatamente scatenata, fallirono. Il numero dei disoccupati crebbe in modo esponenziale fino a raggiungere i 6 milioni. Più o meno il numero dei voti che consentirà al partito nazionalsocialista, ancora irrilevante sul piano elettorale prima della crisi, di conquistare la maggioranza relativa che lo porterà al governo. Da cui, dopo la conquista del potere, avrebbero avviato, per superare crisi e disoccupazione, una politica keynesiana di grandi investimenti pubblici in deficit, destinati soprattutto al riarmo e alla costruzione di infrastrutture utili per spostare rapidamente ai confini i nuovi spaventosi strumenti bellici. Il riarmo era per altro necessario a garantire gli investitori che la Germania avrebbe potuto continuare a pagare gli interessi sul debito ai danni degli Stati vicini, in un piano inclinato che avrebbe precipitato le potenze imperialiste, ben presto, in una Seconda e ancora più spaventosa guerra mondiale, per superare la crisi, senza mettere in discussione il modo di produzione capitalista.
La dinamica della crisi
La crisi del 1929 è la più grande, sino ad allora, nella storia del capitalismo, che del resto tende a provocare strutturalmente crisi sempre più ampie, in quanto per risolvere le precedenti si preparano le condizioni delle nuove crisi sempre più devastanti. La crisi dipende dalla logica stessa del modo di produzione capitalistico che porta alla concorrenza i capitalisti che, per imporsi, tendono ad aumentare sempre più i livelli di sfruttamento, ma in questo modo riducono tendenzialmente la domanda pagante. A ciò cercano vanamente di ovviare con la produzione di beni di lusso, destinati agli altri membri della classe dominante che sfruttando la crisi si arricchiscono, ma anche la spesa in beni di lusso ha dei limiti strutturali. Perciò i capitalisti per battere la concorrenza, in un mercato pagante che tende a restringersi, saranno spinti ad accentuare sempre più l’innovazione tecnologica. In tal modo aumenta la quota di capitale fisso, investito in macchine e materie prime, che tendono in media a riprodurre il loro costo, diminuendo di conseguenza la quota percentuale investita in capitale variabile, ovvero nell’unica merce, la forza-lavoro, in grado di produrre regolarmente e sensibilmente più di quanto è costata. Inizia così una caduta tendenziale del tasso del profitto, che è l’unico movente che spinge i capitalisti a investire in attività produttive.
Sotto un certo saggio di profitto, cercano di investire in attività improduttive come la speculazione in borsa. Si tratta di semplici scommesse su qualsiasi cosa, a partire dal valore delle azioni di imprese che vengono così, per aggirare la crisi, sempre più spesso quotate in borsa. Come in tutte le scommesse vince chi ha maggiori informazioni su dove conviene investire per guadagnare e dove disinvestire per non perdere. Evidentemente solo i grandi investitori possono assoldare una squadra di esperti. Così la borsa serve a trasferire i risparmi dei piccoli investitori – destinati al sacrificio tanto da essere definiti nel gergo della borsa il parco buoi (inconsapevolmente destinati al massimo di sfruttamento e poi al macello) – nelle mani dei grandi. Tutto ciò porta alla creazione di bolle speculative sempre più gonfiate ad arte che, però, inevitabilmente, sono destinate a esplodere. Tutto sta ad avere le informazioni giuste in tempo per non rimanere con il cerino in mano al momento della grande esplosione che avvenne nella principale borsa, quella di Wall Street a New York nell’ottobre del 1929, in quello che rimarrà noto come il giovedì nero, quando il valore dei titoli azionari precipitò al di sotto dei valori reali e i piccoli e medi investitori scoprirono improvvisamente di aver perduto i risparmi di una vita. Il valore di ogni cosa, che era stata quotata in borsa, tende a perdere di colpo in media la metà del suo valore, rispetto al valore gonfiato prima dell’esplosione. Visto che la crisi sarà presto deviata sui paesi più deboli, dipendenti dai più forti, gli investitori statunitensi ritirarono altrettanto improvvisamente i loro investimenti dai paesi più a rischio e dipendenti, come Germania e Austria, che subirono un tracollo. Gli scambi internazionali diminuirono altrettanto improvvisamente del 70% e la disoccupazione aumentò vertiginosamente in tutti i paesi capitalisti o da essi dipendenti.
Segue nel numero 259