Il libro Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo [1] si occupa di problemi oggi al centro dell'attenzione: la questione ambientale, il capitalismo della sorveglianza, la produzione immateriale, la finanziarizzazione, l'imperialismo e la guerra. All'interno di questi importanti “capitoli”, e alla meritoria scelta dei curatori di dare spazio a posizioni diverse fra di loro, consentendo un dibattito in campo aperto, Andrea Fumagalli, nel suo Valorizzazione e sussunzione nel capitalismo delle piattaforme: il nodo della distribuzione del reddito, come è suo costume, sostiene in maniera approfondita e documentata alcune tesi assai interessanti, che però mi permetto di commentare criticamente, come ho fatto in sede di presentazione del libro, anche perché l'Autore fa conseguire alla sua analisi concrete proposte di rivendicazione politica (e anche questa intenzione è senz'altro meritoria).
Dopo aver fornito un'analisi e alcuni dati sul ruolo del comparto dei servizi e della produzione immateriale nelle economie evolute e avere sottolineato l'importanza delle nuove tecnologie di punta, si sofferma sul “nuovo modello di organizzazione della produzione intangibile che oggi definiamo piattaforma”. Questo modello, in effetti, è “penetrato come modalità organizzativa in tutti i settori strategici dell’accumulazione”, anche in quelli “tradizionali e nella logistica”(p. 155) e fa bene Fumagalli a sottolineare quanto spesso questo lavoro sia sottopagato e privo di tutele e quanto la relativa retribuzione, quando c'è, non sia necessariamente legata al tempo di lavoro. Non possiamo che concordare con la denuncia di lavori super sfruttati o addirittura non retribuiti.
Sennonché l'Autore annovera fra questi lavori quello dell’utente “di un servizio fornito da una piattaforma tecnologica [il quale] fornisce una serie di informazioni e di dati, ceduti gratuitamente e poi utilizzati per le attività di profiling, sorveglianza, pubblicità. I nostri atti quotidiani inscatolati in una applicazione, diventano la base su cui innestare il processo di valorizzazione a vantaggio di pochi. La nostra vita individuale produce ricchezza ma questa ricchezza non ci appartiene” (p. 156). Che i padroni delle piattaforme sfruttino queste attività è verissimo, ma mi parrebbe necessaria una precisazione. Quello che viene ceduto gratuitamente è un valore d'uso, quindi certamente una ricchezza, un po' come la natura cede gratuitamente una serie di risorse utilizzabili nei processi produttivi. Ma né i beni ceduti gratuitamente dalla natura né quello ceduto gratuitamente dall'utente hanno un valore, perché non sono frutto di un lavoro prestato nel processo produttivo, a cui il lavoratore è condannato se vuole sopravvivere. Navigare per i propri scopi non è un lavoro prestato per il capitale. È un'attività che l'utente svolge non in quanto sussunto nel processo di produttivo, ma volontariamente, per soddisfare un bisogno proprio, perfino un bisogno evoluto, per quanto spesso contenente elementi di alienazione. Il valore e il plusvalore vengono invece creati dai lavoratori che quei dati selezionano, immagazzinano, elaborano, distribuiscono ecc. alle dipendenze – sostanziali anche quando non formali, come nel caso delle partite Iva – del capitale.
Questa precisazione è conveniente non solo per salvaguardare l'attualità della teoria marxiana del valore che si sta dimostrando utilissima, probabilmente indispensabile, per la comprensione delle leggi di movimento del modo di produzione capitalistico, ma anche per discutere di un altro rilevante aspetto della proposta fumagalliana. Egli infatti trae dal suo discorso sullo sfruttamento dell'utente delle piattaforme la conclusione che la rivendicazione di un reddito di base incondizionato si può giustificare come la ricompensa del suo lavoro gratuito che io invece ho obiettato non essere lavoro ma attività volta a soddisfare determinati bisogni – consumo – senza la costrizione a lavorare per il capitale data dal contratto di lavoro. Tale reddito a detta di Fumagalli, non deve essere concepito “come una forma assistenziale (come l’attuale reddito di cittadinanza in Italia) [... ma] deve invece essere pensato e instaurato come un reddito primario, vale a dire legato ad una contribuzione sociale produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta” (p. 157). Si tratterebbe pertanto di una vera e propria forma di remunerazione e non un fatto puramente redistributivo in quanto “i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro si attenuano” (p. 159).
È ovvio che se invece non riconosciamo come un lavoro il navigare in rete o comunicare nei social ecc. viene a cadere anche questa motivazione del reddito di base.
Un reddito non legato all'attività lavorativa può essere certamente rivendicato per affrontare emergenze, quale quella della pandemia che comportò la chiusura di molte attività produttive, o anche come espediente tattico per liberare il lavoratore dal ricatto della disoccupazione che lo costringe ad accettare lavori sottopagati. Ma strategicamente il problema della disoccupazione cronica, che lo sviluppo tecnologico sempre più determinerà, non può essere superato con le pezze di un reddito garantito per chi non lavora, ma con il riparto fra tutti di quel poco di tempo di lavoro necessario alla riproduzione sociale. In altri termini la soluzione alternativa è la riduzione drastica dell'orario di lavoro giornaliero, settimanale e nell'arco della vita – quest'ultima attraverso la riduzione dell'età pensionabile – di modo che tutti possano avere a disposizione una quantità crescente di tempo libero da dedicare ad attività non lavorative.
Non mi sembra congruo che ci sia chi vive, o meglio sopravvive con la miseria di un reddito di base, senza lavorare, e chi è costretto ad ammazzarsi di lavoro con carichi orari sempre più pesanti e per un periodo sempre più prolungato della sua vita. O che ci siano giovani che vivono del lavoro dei genitori anziani, quando dovrebbe essere, a livello di società nel suo complesso, l'esatto contrario.
Anche le successive mie considerazioni sulle riflessioni dell'autore, mi pare siano in qualche modo collegabili alla critica del “peccato originale” di considerare un lavoro non retribuito l'uso delle piattaforme. Per esempio egli parla di “capitale umano” inteso come “un’intellettualità diffusa o un’intelligenza collettiva. Questo significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si situa nei fattori collettivi della produttività e dell’innovazione collocati a monte del sistema delle imprese” (p. 158). Premetto che l'espressione “capitale umano”, abusata nella cultura manageriale, non mi piace perché tende a considerare capitale non solo la forza-lavoro acquistata per il suo sfruttamento, ma l'esistenza umana stessa, a considerare capitale ogni aspetto della vita sociale, anche extra capitalistica. Ma, al di là dell'aspetto nominalistico, questa ricchezza della società, formatasi grazie all'istruzione e al welfare, è raggiunta sostenendo un costo sociale che fa parte del costo di riproduzione della forza-lavoro, cioè è salario indiretto. Però è una ricchezza che diviene una componente del valore nella misura in cui diviene capitale variabile, viene impiegata nei processi produttivi più o meno immateriali. Altrimenti, dal punto di vista del capitale, è solo un costo improduttivo, almeno fintanto che i processi formativi siano “collocati a monte del sistema delle imprese”.
Se ci rifacciamo alla definizione marxiana di lavoro produttivo all’inizio della quinta sezione del libro I del Capitale intitolata Produzione del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo, “è produttivo solo quell’operaio [meglio sarebbe tradurre “quel lavoratore”] che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale […] Un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica di istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo [implica] un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale” [2]. Quindi, anticipando tutti i nuovismi alla moda, il lavoro cognitivo era già da Marx, a tutti gli effetti, incluso nel lavoro produttivo. Ma si tratti di questo o del lavoro manuale, rimane la sua materialità ed è dirimente la caratteristica di essere assoggettato al processo produttivo per creare plusvalore.
Fumagalli si sofferma anche sullo svincolo del contributo produttivo dal tempo di lavoro e sulla retribuzione in base al risultato. Se originariamente “il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa” allorquando il lavoro diviene “sempre più cognitivo e relazionale” la retribuzione cessa di essere legata a “un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il capitale […] deve ottenere una mobilitazione attiva della soggettività e dell’insieme dei tempi di vita dei lavoratori” (p. 160). In realtà la retribuzione svincolata dal tempo di lavoro è vecchia come la notte dei tempi e non si riferisce al solo lavoro cognitivo. Per esempio Marx, nel capitolo diciannovesimo del primo libro del Capitale a proposito del salario a cottimo, mostra che, pur prevedendo esso la retribuzione in base al risultato, costituisce (parole di Marx) “la forma mutata del valore della forza-lavoro” e, in quanto “rende superflua buona parte della sorveglianza del lavoro”, “è la forma di salario che più corrisponde al modo di produzione capitalistico” [3].
Tutto quanto fin qui obiettato si presta a una contro obiezione: Google e Facebook impiegano poche persone, che quindi dovrebbero prestare poco pluslavoro, e invece fanno tanti profitti. Ma un conto è considerare l'insieme del pluslavoro come unica fonte dell'insieme dei profitti (e degli interessi e delle rendite), altro conto è considerare i profitti delle singole imprese che, in virtù della redistribuzione che avviene nell'ambito della concorrenza fra capitali, differiscono dal plusvalore creato nelle medesime imprese. Google, Facebook, Twitter ecc. si appropriano di pluslavoro sociale prodotto altrove, in altri comparti produttivi, secondo le regole di redistribuzione del plusvalore sociale attraverso il mercato e profittando della loro posizione di monopolio, anche del monopolio della disponibilità di dati forniti gratuitamente. Ma non è da questi dati che scaturisce il plusvalore.
Nonostante queste mie considerazioni critiche credo che il lavoro di Fumagalli sia utile come invito a una riflessione sulle nuove tendenze del capitalismo e pertanto le pagine di questo settimanale sono aperte a una sua controreplica e a chi intenda intervenire costruttivamente sull'argomento.
Note:
[1] AA.VV., Sfruttamento e dominio nel capitalismo del XXI secolo (a cura di Toni Casano e Antonio Minaldi), I libri di Pressenza, International Press Agency, 2023.
[2] K. Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, 1964, p. 556. Sulla traduzione del termine Arbeiter in “lavoratore” e non in “operaio” si veda il glossario contenuto nella pregevole edizione del libro I del Capitale a cura di Roberto Fineschi, Ed, La Città del Sole, Napoli, 2011.
[3] Ivi pp. 603-8.