Segue da Brecht, Lenin e la critica al marxismo dottrinario
Link al video della lezione su argomenti analoghi tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci
Della morale e dell'etica
1. Dell'occuparsi di morale [1]
In questo breve apologo Brecht, come di consueto, polemizza con le concezioni dominanti della morale nel mondo borghese, per cui l’agire morale è inteso, sulla base della concezione di Kant e Fichte, come un dover essere in quanto tale contrapposto, implicitamente, all’essere. Da questo punto di vista Brecht, sviluppando la celebre critica di Hegel a tali concezioni moralistiche della morale, fa emergere il paradosso per cui in tal modo “ci sono poche occupazioni (…) che danneggiano la morale di un uomo tanto quanto l’occuparsi di morale” (98).
Lo sforzo che sembra richiedere l’amore per la verità, il mantenimento delle promesse, la lotta per il bene indica appunto che si tratta di un dover essere e, quindi, l’uomo che si pone questi obiettivi morali sarebbe in sé immorale, in quanto non portato ad amare la verità, mantenere le promesse o lottare per il bene. In tal modo, per altro, sviluppando un ragionamento già presente in sé nella riflessione anti-liberale di Rousseau, Brecht mostra che si tende a considerare l’uomo propenso per natura a non amare la verità, non propenso a mantenere la parola data o a battersi per il bene.
Così facendo si destoricizza e si considera in modo del tutto indipendente dalla struttura economica e sociale l’essenza dell’uomo, considerandola in modo mitologico-religioso cattiva per natura (ad esempio sulla base del mito del peccato originale). Si finisce così per sviluppare un’apologia indiretta della società capitalistica, considerando naturale tanto l’egoismo e la feroce concorrenza, che porta gli uomini a comportarsi fra loro come lupi, quanto il sottomettere anche i princìpi base dell’etica e della morale all’unico imperativo categorico vigente: la massimizzazione del profitto individuale.
Proprio, perciò, come non si stanca di sottolineare Brecht, è solo in una società profondamente corrotta come la borghese, in modo particolare nella sua fase di decadenza, a far sì che l’uomo per agire moralmente debba essere un eroe. Al punto che Kant giungeva alla conclusione che l’uomo non poteva mai essere realmente morale e, su questa base, finiva per recuperare la necessità di presupporre l’esistenza della divinità per convincere gli uomini a non agire in modo immorale, come sarebbero naturalmente portati a fare.
Al contrario, sviluppando la concezione dialettica hegeliana, Brecht mostra che in una società realmente razionale e giusta, come sarà quella comunista per la quale si batte, gli uomini saranno portati spontaneamente ad agire bene, senza particolari sforzi e senza dubbi, decisamente poco morali, sull’amare la verità, mantenere le promesse e battersi per il bene.
Dunque, per Brecht, è proprio la pretesa tipica dell’individualismo borghese di risolvere le questioni etiche collettive e dialetticamente connesse al blocco storico, sulla base di una morale puramente soggettiva, è qualcosa di fondamentalmente immorale, proprio perché in questa prospettiva asociale l’agire morale diviene impossibile, se non sul piano mitologico della religione, popolato da angeli e santi. Mentre gli uomini reali non potrebbero che essere immorali e, in tal modo, si finirebbe per giustificare la catastrofe etica prodotta dalla società capitalista, in un’ottica di apologia indiretta dell’ipocrita società borghese. Del resto, come notava già Hegel – autore sempre caro al Brecht marxista – in polemica con Kant, proprio il doversi costantemente domandarsi da parte della coscienza morale se agire bene o male, anzi lo sforzo tendenzialmente sovraumano per agire bene implicano, appunto, non solo individui destinati fondamentalmente a rimanere immorali, ma una società talmente irrazionale e ingiusta da devastare quella eticità che, al contrario, porta i cittadini di una società giusta e razionale ad agire in modo spontaneo in vista del bene e della verità.
2. Posson essere di danno coloro che lamentano certi mali senza nominare le loro cause eliminabili
A parere di Brecht bisogna evitare le cattive generalizzazioni tipiche, per dirla con Hegel, di chi pensa astrattamente. Perciò sostiene, in apparente contraddizione con il titolo dell’apologo, che “a nessuno mai si dovrebbe impedire di esternare la propria afflizione per mali inevitabili” (37). Per superare questa contrapposizione fra una tesi e la sua antitesi chiarisce che spesso tali mali “appaiono inevitabili solo a colui che si lamenta” e, quindi, con la propria protesta esternata con veemenza finisce, oggettivamente, per favorire coloro che sono in grado di eliminarli, conoscendone le cause. Le sue lamentele per mali apparentemente inevitabili non può che rafforzare, per quanto involontariamente, il prestigio e il credito di chi dimostra di conoscere il modo per poterli cessare.
Questa sintesi dialettica della prima tesi e dell’antitesi produce inevitabilmente, in quanto posizione di una nuova tesi, la propria antitesi, secondo il classico procedimento dialettico di matrice hegeliana. In effetti, se il lamento su mali ritenuti ineliminabili insiste in particolare su questa presunta immutabilità, non può, al contrario, che contribuire a far perdere lo stesso indispensabile principio speranza a chi è soggetto agli stessi mali. In tal modo, non solo non favorisce le forze che si battono per il loro superamento, ma in modo inconsapevole favorisce nei fatti le forze che traggono profitto da detti mali.
Più nel concreto se le sofferenze, come spesso avviene, sono il prodotto di uno storico modo di produzione e di determinati rapporti di proprietà lamentarne la natura inevitabile in “questa valle di lacrime”, secondo la concezione mitologico-religiosa tutt’ora dominante, non può che favorire le forze conservatrici che fanno di tutto per perpetuarle, naturalizzandole. In tal modo i proprietari tendenzialmente monopolistici dei mezzi di produzione e riproduzione della forza lavoro che, per mantenere i loro sempre più irrazionali e ingiusti privilegi, cagionano inenarrabili sofferenze al resto dell’umanità, non possono che essere favoriti dal venir considerati come se fossero delle “potenze di natura”, quali “la neve di chi gela di freddo, il terremoto di coloro su cui vacilla il terreno sotto i piedi” (37).
In tutti i casi citati, infatti, si presenterebbero come delle forze inevitabili, puramente oggettive alle quali non sarebbe che vano impedire soggettivamente di agire secondo il loro corso necessario in quanto naturale. Perciò, dialetticamente, Brecht intitola questo apologo “possono essere dannose” e non “sono dannose” dette lamentele su mali considerati, a torto, inevitabili. Discorso analogo vale – da un punto di vista marxista fatto proprio da Brecht – per le rappresentazioni religiose che, a seconda del contesto, possono avere una funzione progressiva in quanto protestano contro lo stato di cose esistenti, favorendo il principio speranza in un mondo migliore, o regressive nei casi in cui vengono presentate come necessarie e immodificabili per volere divino. Per cui chi intende sfuggire all’inquisizione su questa terra e nell’altro mondo dovrebbe limitarsi ad accettarle passivamente tali mali, ringraziando per altro il Signore per averglieli “donati”.
3. Condanna delle dottrine etiche
Brecht utilizza spesso e volentieri un linguaggio volutamente provocatorio, per catturare l’attenzione dello spettatore e mostrare, dialetticamente, che ciò che è noto non è perciò conosciuto. Questo accentuare il momento propriamente negativo della dialettica è funzionale alla critica radicale dell’ideologia dominante, seguendo l’esigenza indicata da Lenin per i rivoluzionari di dotarsi di una visione del mondo autonoma e antagonista a quella della classe dominante. Nel caso specifico in questione Brecht non intende certo sostenere una posizione anti-etica e morale, in qualche modo assimilabile a quella di Nietzsche. D’altra parte in quanto marxista considera le questioni etiche e morali non in modo metafisico o trascendente, ma sempre in una prospettiva storica, caratterizzata dal conflitto sociale. Da questo punto di vita, come del resto per lo stesso Nietzsche, non esistono valori etici e morali assoluti, ma si contrappongono sempre norme etiche e morali funzionali agli sfruttatori e norme etico-morali favorevoli alle forze rivoluzionarie.
Tutto ciò diviene chiaro già nel secondo capoverso dell’apologo, in cui Brecht osserva polemicamente: “ai lavoratori [salariati] i loro sfruttatori predicano sempre l’eticità”. Si tratta evidentemente dei costumi e delle istituzioni esistenti che sono funzionali al dominio di classe dei proprietari e al loro assoggettamento dei lavoratori, che dispongono per potersi riprodurre unicamente della propria forza lavoro. Le stesse norme etico-morali religiose sono considerate, come fanno tanto i marxisti che i pensatori reazionari come Nietzsche, dal punto di vista del conflitto sociale. Da questo punto di vista la stessa fondamentale massima morale della religione dominante, l’amore per il prossimo, è considerata criticamente da Brecht. In quanto se i proletari e, più in generale, gli oppressi e i subalterni conformassero le proprie azioni a questa massima non potrebbero mai superare un modo di produzione nel quale, paradossalmente, “si può amare il proprio prossimo se non si ama se stessi” (67). Questa polemica contro il fondamento del cristianesimo può apparentemente apparire analoga a quella di Nietzsche, ma in realtà la critica di Brecht all’opposto di quella nietzschiana è un critica in senso progressista e rivoluzionario. In effetti Brecht non intende, al contrario di Nietzsche, criticare in sé la massima del Cristo, ma piuttosto criticare una società così irrazionale dove bisogna essere dei martiri per seguire alla lettera la massima del cristianesimo. Evidentemente i lavoratoti nella società capitalista sono portati a vedere negli altri lavoratori, nei precari, nei disoccupati e negli immigrati in cerca di lavoro dei concorrenti. Da qui sorgono quelle attitudini che portano molti sfruttati a fare propria la concezione del razzismo indispensabile alla classe dominante per il suo divide et impera.
Inoltre, passando dall’apparenza all’essenza i lavoratori salariati hanno nella classe dei capitalisti, che godono di enormi privilegi grazie allo sfruttamento dei primi, degli oggettivi nemici di classe. Amare questi ultimi vorrebbe dire, nei fatti, naturalizzare e perpetuare questo stato di cose che consente a una minoranza sempre più ristretta di parassiti di prosperare nello sfruttamento sempre più spietato e distruttivo della forza lavoro e delle risorse naturali. Per questo per amare se stessi e lottare per una società giusta e razionale, dove non solo i martiri possono amare realmente il proprio prossimo, gli sfruttati non possono prendere alla lettera le norme etiche cristiane, altrimenti continuerebbero a subire passivamente la lotta di classe condotta dall’alto dai loro oppressori. In tal modo, si verrà a creare una società dove diviene sempre più impossibile seguire la norma etica fondamentale del cristianesimo, visto che i lavoratori non sono in grado di rispondere alla lotta di classe dall’alto, perché sono portati dall’ideologia dominante ad amare, o meglio a rimanere subordinati alla classe dominante e dirigente. Ciò finisce per favorire la spaventosa guerra fra poveri in atto, secondo la perversa logica del maschilismo, del corporativismo, del nonnismo e del razzismo.
Continua nel numero 252, on-line tra quattro settimane
Note:
[1] I brani che commenteremo e parafraseremo in questo articolo sono tratti da B. Brecht, Me-ti. Libro delle svolte [1934-37], tr. it. di C. Cases, Einaudi, Torino 1970. Tra parentesi tonde metteremo a fianco di ogni citazione il numero delle pagine del libro in questa sua traduzione italiana. Non segnaliamo i casi in cui giudichiamo necessario modificare la traduzione.