Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi
Segue da: La coscienza infelice
Il passaggio dal medioevo della coscienza infelice alla ragione rinascimentale
Il totale asservimento della coscienza infelice cristiana a una divinità lontana e destinata a restare sostanzialmente estranea alla soggettività della singola autocoscienza, forma, ovvero educa l’umanità – come la dura esperienza del servizio aveva educato il servo – a non cercare più la verità nella propria singola interiorità, ma in qualcosa di universale. In tal modo l’autocoscienza supera il proprio difetto di fondo, la propria unilateralità contraria ma speculare a quella della coscienza, che ricercava la verità al di fuori di sé. L’autocoscienza, in effetti, muoveva dal presupposto della certezza soggettiva di essere in se stessa la fonte di ogni verità. Ora questo duro servizio in funzione del divino insegna all’autocoscienza la necessità di ritrovare la verità nell’universale e non più nella singola soggettività. D’altra parte questo universale diverrà finalmente la ragione e non sarà più il prodotto feticistico dell’auto-alienazione e auto-estraniazione dell’autocoscienza solo alla fine di questo lungo percorso della coscienza infelice. Quest’ultima supererà se stessa e la propria costitutiva infelicità solo nel momento in cui l’universale non sarà più l’assolutamente altro da sé, ma verrà interiorizzato, divenendo appunto la ragione. In altri termini l’autocoscienza diverrà consapevole mediante la tragica esperienza della coscienza infelice, di avere in sé quell’universale che invano aveva ricercato fuori di sé, in una sfera trascendente il mondo reale. L’universale che l’autocoscienza riscopre nella propria interiorità e che realizza la sua certezza di essere la fonte di ogni verità è il suo partecipare all’universalità della ragione, l’universale immanentistico che sarà al centro della cultura Umanistica e Rinascimentale che si svilupperanno a partire dall’Italia fra il XV e il XVI secolo. In tal modo dal particolarismo tipico dell’età medioevale, dall’esperienza estrema della coscienza infelice che proiettava fuori di sé, nell’altro da sé, tutti gli aspetti sostanziali della propria essenza generica, siamo finalmente entrati in un’altra epoca decisiva della storia universale caratterizzata dalla transizione dall’autunno del medioevo all’alba dell’epoca moderna.
La ragione
Riconoscendo di avere in sé l’assoluto, l’autocoscienza ha la certezza di essere la fonte di ogni verità non più in quanto singolarità, ma nella dimensione universale e immanentistica della ragione. Essendo tale facoltà propria di ogni essere umano, o meglio di coloro che erano riconosciuti come tali, si supera il rapporto servo-padrone dominante ancora per tutto il medioevo e si afferma, quantomeno in modo astratto, l’eguaglianza fra gli uomini. Tale certezza della ragione è ancora una consapevolezza soggettiva e deve, dunque, dimostrare di essere al contempo una verità oggettiva e ciò è possibile unicamente se la ragione dell’autocoscienza umana si dimostra in grado di ritrovare sé stessa nel reale, ovvero di superare il pregiudizio cristiano-medievale che considerava il reale una valle di lacrime, in contrapposizione al regno divino. In tal modo l’autocoscienza, superatasi dialetticamente nella ragione, riprende a osservare direttamente la natura in modo sempre più scientifico. Dallo sviluppo della filosofia della natura sorgerà, in effetti, nell’epoca rinascimentale l’inizio della rivoluzione scientifica. Questo momento, della ragione osservativa, corrisponde all’osservazione diretta della natura del Rinascimento che porterà a una gnoseologia contrapposta a quella deduttiva medievale, in quanto ora fondata sull’esperienza, che si definirà empirista.
D’altra parte la ragione crede ancora ingenuamente, in questa sua prima fase di sviluppo, di cercare l’essenza delle cose stesse, del mondo naturale che osserva per scoprirne i segreti e per servirsene ai propri umanistici fini, ma in realtà sta – in modo non ancora consapevole – ricercando se stessa nelle cose che osserva, ossia ricerca la propria razionalità nell’altro da sé, la presenza della sua razionalità soggettiva anche nella realtà oggettiva. In effetti, per poter strappare alla natura i suoi segreti, per conoscere in modo sempre più scientifico la natura che la circonda, la ragione deve sì osservare i fenomeni naturali, ma con l’obiettivo di formulare teorie, leggi che – pur mostrando il modo di essere delle realtà naturali – non sono ricavabili induttivamente dall’esperienza, ma si avvicinano progressivamente alla forma razionale del concetto.
Il concetto, quale oggetto adeguato alla ragione, non è più considerato dalla autocoscienza come un qualcosa di apriori, come tende ancora a fare la coscienza comune, non ancora in grado di conquistare il sapere assoluto della visione scientifica del mondo
Il concetto non è più considerato qualcosa di apriori, di soggettivo, prodotto di un’astratta razionalità, che la ragione dopo averlo partorito proietta sulle cose, sulla realtà esterna oggettiva per dargli senso, Né tanto meno il concetto può ancora esser considerato, come tende a fare tutt’ora la coscienza comune, un mero strumento mediante cui il pensiero comprende una realtà a esso esterna e, dunque, non razionale. Al contrario il concetto si rivela essere, attraverso l’esperienza della ragione osservativa, l’anima della realtà stessa, il principio oggettivo del suo movimento. Da questo punto di vista decisivo è, attraverso lo sviluppo della filosofia della natura rinascimentale, il successivo sviluppo della biologia, ormai figlia della rivoluzione scientifica, che fa esperienza e con ciò comprende l’unità, in quanto totalità delle sue parti, dell’essere vivente organico che, quindi, esiste non come un dato, ma come un processo, ovvero come l’insieme di una serie di attività e di rapporti organici fra le varie membra del corpo, in funzione del tutto, che non si può esprimere con una legge intellettualistica e meccanicistica, ma unicamente attraverso un concetto in quanto tale razionale.
La critica alla fisiognomica e alla frenologia
L’intera seconda sezione della ragione osservativa è dedicata dalla radicale critica alla fisiognomica e alla frenologia che venivano presentate, dai loro studiosi, come delle scienze. Hegel al contrario intende dimostrare che si tratti in realtà di pseudoscienze intellettualistiche, ancora legate a una visione meccanicistica del mondo propria di un materialismo ancora rozzo che si era venuto sviluppando a partire da una scorretta interpretazione della ragione osservativa. In effetti, se la totalità organica di un essere vivente per essere intesa non può esser ridotta a pure leggi dell’intelletto, che pretendono di conoscere la realtà sezionandola pezzo per pezzo, ciò non può, dunque, che valere a maggior ragione per l’osservazione non della natura vivente, ma della stessa autocoscienza. Proprio perciò Hegel ritiene necessario polemizzare così a fondo con la fisiognomica e la frenologia che tendevano ad andare di moda nella psicologia del tempo, con l’assurda pretesa di poter fissare, stabilire una volta per tutte le leggi del pensiero. Così, ad esempio la fisiognomica elaborata da Lavater pretendeva di poter determinare il carattere di un individuo dalla sua fisionomia. In modo, altrettanto inaccettabile, la frenologia pretendeva di poter stabilire, fissandolo una volta per tutte il carattere di un individuo umano dalle forme del suo cranio. Si tratta apparentemente di una parte datata della Fenomenologia, che a una più attenta analisi si mostra al contrario, purtroppo, ancora oggi attuale, in quanto queste concezioni così diffusamente confutate da Hegel sono tornate di moda anche nelle epoche storiche successive, dal positivismo ottocentesco, al neopositivismo novecentesco, all’attuale filosofia della mente. Tali concezioni restano inoltre ancora forti nella stessa psicologia contemporanea, in particolare nei paesi anglosassoni e più in generale liberali, dove tende a dominare il behaviorismo.
La ragione attiva
L’unità fra ragione e realtà non può più, dunque, essere ancora ingenuamente considerata come un qualcosa di dato e di contemplabile come l’osso del cranio, oggetto d’indagine della frenologia, ma si tratta di qualcosa che deve sempre venir realizzato attraverso un rapporto dialettico nel quale la ragione tende a realizzarsi nella realtà, che a sua volta viene progressivamente razionalizzata. A questo scopo, però, la ragione non può più limitarsi alla pura e passiva osservazione della realtà, attitudine ancora più religiosa che realmente scientifica, ma deve apprendere a produrre consapevolmente se stessa mediante la propria attività in quanto ragione attiva, capace di divenire reale, contribuendo così attivamente a razionalizzare il mondo.
L’uomo del piacere e la necessità
Tuttavia sino a che si tratta ancora dell’aurorale sforzo della ragione individuale di affermarsi nella realtà, razionalizzandola, la ragione non raggiunge il suo obiettivo, va incontro a uno scacco, non dimostrandosi in grado di realizzarsi nella realtà, come si vede in modo esemplare nel tragico percorso delle prime tre figure della ragione attiva.
La prima di esse, che rappresenta ancora la forma primigenia di ragione attiva, dunque la meno elevata, è quella dell’uomo del piacere rappresentato in modo esemplare nella figura letteraria di Faust, prototipo del mago-scienziato, dell’uomo della ragione osservativa che divenuto vecchio ha l’impressione di non essere realmente vissuto, essendosi limitato a studiare i fenomeni della natura. Perciò abbandona la vita contemplativa e riflessiva dello scienziato della natura per realizzarsi in modo attivo, divenendo padrone e protagonista del proprio destino. La sua realizzazione individualistica lo porta a credere ingenuamente di poterla trovare nella ricerca della soddisfazione del proprio piacere, al quale ha sino ad allora rinunciato per vivere la vita essenzialmente monastica dell’uomo di scienza. In tal modo, tuttavia, non realizza mai se stesso, ma piuttosto fa costantemente esperienza del suo contrario, non incontrando altro che la necessità del destino che si è di volta in volta, per quanto inconsapevolmente, costruito. In tal modo, attraverso la tragica esperienza di questa prima figura esemplare della ragione attiva, l’uomo giunge alla comprensione che il destino del singolo in quanto tale è tragico, in quanto consiste dall’essere tolto nella sua ricerca di realizzazione edonistica nel suo opposto, ossia in una necessità che gli appare oscura e cieca, in quanto non è ancora in grado di riconoscerla come il proprio destino, di cui è, per quanto inconsapevolmente, l’artefice. Tale tragico destino è raffigurato in modo esemplare nel tentativo del vecchio Faust di sedurre e fare propria l’ingenua purezza giovanile di Gretchen (Margherita). Crede in tal modo di poter finalmente soddisfare il suo desiderio di realizzarsi nel piacere di riprendere possesso della propria innocenza per sempre perduta. In tal modo però, seducendo con espedienti diabolici l’ignorante giovinetta realizza il contrario di quello che pretendeva raggiungere. La giovane ignara finisce con il restare necessariamente incinta e la sua innocenza è per sempre perduta, la sua purezza e con essa la sua stessa vita è distrutta e disonorata, al punto che in preda alla disperazione affoga il figlioletto appena nato ed è condannata a morte. Ecco, dunque, che la ricerca di realizzare la propria ragione individuale nel soddisfacimento del piacere con una giovanissima ingenua, non può che portare a questa necessariamente tragica conclusione.
Continua sul numero 253