Snowpiercer, serie tv in 10 episodi, Usa 2020, voto: 8,5; come di consueto la serie appare nel primo episodio una brutta copia del film. L’aspetto essenziale del film, la lotta di classe, viene rappresentata come un progetto avventurista, tanto che il suo principale fautore è impersonato da un anarchico sottoproletario tanto violento quanto ritardato. L’eroe diviene un (ex) poliziotto, anche se il politically correct lo vuole nero, subalterno, tanto da sembrare Mumia Abu Jamal. Inizialmente assume posizioni più tattiche e attendiste, anche se pretende di condividere l’obiettivo rivoluzionario della rivolta. D’altra parte in quanto poliziotto non può che essere disoccupato sino a che è dalla parte dei subalterni e, così, chi detiene il potere cerca con le buone e le cattive di farlo passare al proprio servizio, per risolvere delle contraddizioni interne al blocco sociale dominante. Il nostro, dapprima rifiuta sdegnosamente, poi cerca di trattare una soluzione riformista per i subalterni, infine si vede costretto a collaborare, nel momento in cui la rivolta avventurista degli oppressi, nel frattempo scoppiata, rischia di provocare una durissima repressione da parte degli apparati repressivi. Abbiamo così la trasformazione dell’eroe – con cui il pubblico tende a identificarsi in modo incondizionato, essendo assente l’effetto di straniamento – dal rivoluzionario del film in un (ex) poliziotto, costretto con le buone e le cattive a collaborare con il potere costituito, anche se dà a intendere che lo fa come espediente tattico per favorire la conquista del potere. Abbiamo, infine, la sostituzione del grande capitalista proprietario del treno, antagonista nel film, con un’affascinante donna, che svolge al contempo la funzione di manager, responsabile della comunicazione, pilota del treno e infine anche quella del proprietario. In tal modo, lo scontro di classe contro classe del film appare molto più sfumato, i rivoluzionari appaiono rivoltosi avventuristi e violenti, mentre si mira a mostrare la superiore complessità e umanità del vertice della classe dirigente e dominante e dell’unico poliziotto esperto sopravvissuto. Non a caso si tratta di una produzione statunitense.
Il secondo episodio, pur ormai incentrato sulla ricerca dell’assassino da parte del detective, riprende costantemente il tema di fondo, ovvero il conflitto di classe. Da questo punto di vista è molto significativo il confronto verbale fra le posizioni del detective subalterno e della general-manager proprietaria sul concetto di ordine. Emergono le terribili contraddizioni di un sistema fondato su sfruttamento, oppressione e assurdi privilegi. Si manifestano anche le doti stoiche, da vero rivoluzionario, del protagonista. Resta però il dubbio di fondo, ossia se a guidare un processo rivoluzionario contro il grande capitale possa essere un poliziotto per quanto proletarizzato, che per altro rivendica in pieno la sua professionalità e l’orgoglio per la funzione che è chiamato a svolgere. In tal modo, con queste ambiguità, per altro caratteristiche del cinema americano, il rischio è che a contendere il potere al grande capitale sia sostanzialmente una nuova versione della rivoluzione fascista, per altro mai presentata come tale e di cui si mettono in evidenza, in modo del tutto acritico, gli aspetti positivi. Ancora una volta, dunque, gli intellettuali tradizionali statunitensi sembrano voler ritrovare un’alternativa progressista al capitale solo in una rivoluzione che ha molti tratti in comune con il fascismo. Detto questo la serie è ben fatta, godibile e interessante per i costanti rinvii alla questione sostanziale del conflitto sociale, oltre allo sfondo, per quanto ambiguo, del disastro ambientale.
Il terzo episodio sale ulteriormente di quota in quanto il classico noir diviene sempre più il pretesto per dei ragionamenti significativi sui conflitti sociali, sulla gestione del potere e le modalità con cui tenere a bada i subalterni: dal classico panem et circenses, alla possibilità molecolare di passare da una classe più bassa a una più elevata, assicurata principalmente a poliziotti, spie e collaborazionisti. D’altra parte si mostra come l’organizzazione dei subalterni, formando coloro che vengono assunti al servizio del gruppo dominante, possa fargli svolgere la funzione di infiltrati, in funzione dell’emancipazione degli umiliati e offesi. Significativi anche i rapporti dialettici mostrati fra i diversi gruppi sociali, che la metafora delle classi del treno rende particolarmente perspicui. Peraltro, il thriller, oltre a consentire di affrontare questioni del conflitto sociale, resta di per sé ben girato, congegnato e ideato. In tal modo la serie finisce con il garantire il necessario godimento estetico lasciando al contempo molto di sostanziale su cui riflettere allo spettatore. Molto interessante e realistico è, infine, lo squallore e la completa immoralità che caratterizzano le classi dominanti. Mentre si mostrano anche le doti di chi lavora al loro servizio, che in un’altra situazione potrebbero divenire utili alle classi subalterne, una volta portato a compimento il loro progetto di conquista per via rivoluzionaria del potere, politico ed economico.
Nel quarto episodio si conclude il noir utilizzato essenzialmente come pretesto per riprendere il filo del conflitto sociale. Anche nella soluzione del giallo emerge tutta la natura di classe del serial killer e la annoiata crudeltà della classe dominante. Altrettanto realisticamente il poliziotto, in cui ingenuamente parte dei subalterni vede una sorta di messia della liberazione dall’asservimento sociale, si fa ingannare dalla general manager svolgente funzione di proprietaria, che gli dà a bere di essere anche lei una lavoratrice, di aver fatto la gavetta e di voler che la giustizia faccia il suo corso, a prescindere dai rapporti di produzione. Così, accettando nel modo più ingenuo di brindare a una presunta vittoria contro il comune nemico, il poliziotto – convertitosi alla causa dell’emancipazione dei subalterni, dopo esser stato ridotto a sottoproletario – viene facilmente posto fuori combattimento. Dimostrando di essere un buon detective, ma, come era facilmente prevedibile, un mediocre rivoluzionario.
Nella quinta puntata appare purtroppo, evidente che negli Usa non è accettabile una prospettiva tendenzialmente insurrezionale dei subalterni se non capeggiata da un poliziotto, per quanto proletarizzato. D’altra parte le dinamiche del processo consentono nuove interessanti e sostanziali questioni sul carattere di classe della giustizia, della sua amministrazione e, più in generale, riflessioni significative sui rapporti fra le classi sociali, dai momenti di scontro aperto, alla guerra di posizione per l’egemonia. Interessante anche l’approfondita analisi della dinamiche, contraddittorie e dialettiche, interne al blocco sociale dominante. Abbiamo così la grande borghesia, i settori reazionari delle piccola borghesia e del ceto medio e i dirigenti degli apparati repressivi sempre pronti al colpo di Stato, per imporre una dittatura aperta, non democratica, nel momento in cui vedono messi in discussione i rapporti di produzione e i proprio assurdi e irrazionali privilegi. Da qui la complessa dialettica fra la classe dirigente politica – interessata alla mediazione per poter esercitare la propria funzione di dominio mediante la capacità di egemonia – e gli apparati repressivi pronti a realizzare i propositi golpisti dei settori più reazionari della classe dominante. In particolare, nel momento in cui il blocco sociale dominante comincia a scricchiolare, le condizioni di sfruttamento e proletarizzazione portano a una radicalizzazione in senso progressivo dei ceti medi e della piccola borghesia. Tanto che si apre la possibilità di un’alleanza fra i settori più avanzati di quest’ultima e i settori meno settari che dirigono i subalterni.
Nel sesto episodio emerge una problematica significativa del processo rivoluzionario, ossia che il suo successo – se non vuole produrre la reciproca distruzione della classi in lotta – deve essere in grado di costruire un sistema migliore, ossia più giusto, efficiente e razionale. Da qui la problematica dei tecnici e, più in generale, degli intellettuali, in primo luogo organici alle classi dominanti. Se non si sarà in grado di conquistarne una parte al funzionamento del nuovo sistema e non si formeranno al contempo gli intellettuali organici ai nuovi gruppi sociali giunti al potere, la rivoluzione rischia di avere esiti nichilistici e, di conseguenza, i rivoluzionari stessi si vedono costretti a rinviare la conquista del potere. Il problema di fondo della serie – che rende ambiguo e non realistico nel complesso tutti i pur significativi riferimenti al contesto sociale, è che nel caso specifico il padrone delle ferriere è divenuto solo un simbolo del potere dittatoriale che vige in ogni società classista, mentre la gestione del potere, sia dal punto di vista tecnico che politico, rimane completamente nelle mani di un tecnico, il quale crede profondamente nel suo mestiere e si ritiene responsabile della sopravvivenza stessa del genere umano, essendo privo di spirito dell’utopia e di principio speranza e non intendendo rinunciare ai propri privilegi, ossia la possibilità di esercizio di un potere per diversi aspetti autocratico. In tal modo, però, il super tecnico al comando del sistema con il suo senso di responsabilità per la comunità organica, finisce con il dominare anche da un punto di vista egemonico il principale esponente del fronte rivoluzionario, tanto più che è rappresentato da un (ex) poliziotto.
Nel settimo episodio, dopo le cadute della puntata precedente, vi è una significativa ripresa di una realistica rappresentazione della lotta di classe, in cui finalmente appare la morale e l’eticità dei reali rivoluzionari e il lato nazista della classe dirigente, per quanto rischi di essere estromessa dal proprio posto a causa di un colpo di Stato militare favorevole a un bonapartismo regressivo. Ancora una volta emerge che solo la lotta e la capacità di costruire rapporti di forza attraverso il conflitto per l’egemonia paga. Peccato che la dimensione di massa, comunque presente nel film, sia nella serie troppo sacrificata alla necessità di fare emergere grandi personalità, che finiscono per rappresentare intere classi sociali. Particolarmente interessante è poi la rappresentazione del confronto per stabilire un accordo, di portata decisiva per le sorti del conflitto sociale, fra il blocco sociale subalterno e i ceti sociali intermedi, ossia la piccola borghesia e il ceto medio. Infine, l’aspetto più notevole della serie è l’aver messo al centro dell’attenzione il conflitto sociale, rappresentato in termini alquanto realistici, come motore della storia in società divise in classi, che è il grande assente di tutti i prodotti dell’industria culturale e delle opere incapaci di esprimere una visione del mondo realmente alternativa all’ideologia dominante.
Nell’ottavo episodio arriva finalmente il momento a lungo atteso della insurrezione. I rivoluzionari giocano abilmente, come è necessario, sulle contraddizioni della classe dominante e dirigente e cercano di conquistare consenso o quanto meno la neutralità delle forze dei ceti medi. Tuttavia non hanno la prontezza di cogliere il momento decisivo, sono poco preparati alla lotta e, soprattutto, l’esercito in procinto di conquistare il potere per conto della destra è tutt’altro che allo sbando e disponibile a passare dalla parte del fronte rivoluzionario. Per cui la guerra di movimento sembra sfumare e al suo posto sembra profilarsi, nella migliore delle ipotesi, una guerra di logoramento lunga e penosa, che rischia di portare al reciproco distruggersi delle classi in lotta, anche perché il golpe della destra più estrema e ottusa rischia di togliere di mezzo tanto la classe dirigente, necessaria per l’egemonia, quanto i tecnici e intellettuali organici essenziali per la sopravvivenza dell’intera società.
Segue nel prossimo numero di questo giornale