Segue da “Snowpiercer, la serie”, pubblicato sul numero precedente di questo giornale
Nel nono e penultimo episodio della serie Snowpiercer le forze rivoluzionarie ritrovano la necessaria determinazione alla lotta, in quanto giunge l’inatteso aiuto dell’ala tecnica e politica della classe dirigente che, dinanzi al rischio di venire completamente spazzata via dal golpe militare ordito dall’estrema destra della classe dominante, decide di schierarsi con gli oppressi. In tal modo diviene finalmente possibile aggirare il problema della superiorità militare della classe dominante, che sembrava in grado di controllare quasi interamente gli apparati di sicurezza e repressione. Interessanti anche i ricatti morali orditi dalla classe dominante per costringere i rivoltosi alla resa e il sacrificio dei rivoluzionari prigionieri, indispensabile per la riuscita di una rivoluzione necessaria, non solo per difendere la civiltà umana, ma per salvaguardare la stessa sopravvivenza dell’uomo sulla terra, dal momento che i settori più oltranzisti della classe dominante, pur di non perdere il potere, avrebbero massacrato persino i lavoratori da cui dipende la loro stessa sopravvivenza.
Come prevedibile l’ultimo episodio è estremamente deludente. Come avevamo intuito una rivoluzione capeggiata da un (ex) poliziotto non può che limitarsi a ristabilire l’ordine democratico borghese. I tecnici restano al loro posto e anche le peggiori canaglie non vengono punite in nessun modo. La preoccupazione principale resta quella di ristabilire l’ordine, tanto che le prigioni tornano a riempirsi a causa dei piccoli furti degli oppressi. Infine, per lanciare la prossima serie e ristabilire l’ordine controrivoluzionario, caro all’industria culturale, le forze della reazione sembrano destinate a reimporre la dittatura oligarchica, tanto più che lasciando i tecnici a dirigere la cosa pubblica – senza commissari del popolo o proletari armati a controllarli – una parte di loro favorisce la restaurazione del precedente “ordine”.
Le nostre battaglie di Guillaume Senez, Belgio, Francia 2018, voto: 7; film realistico su una famiglia proletaria, dove il dramma famigliare si interseca con la lotta di classe nel luogo di lavoro. Il film ha il grande merito di riportare al centro il motore della storia, la lotta di classe e mostra come le problematiche personali e private non devono divenire un impedimento alla partecipazione attiva al conflitto sociale dalla parte degli sfruttati. Anzi, in qualche modo, rafforzano la decisione di schierarsi e prendere posizione. Per il resto il film affronta in modo realistico anche i rapporti personali all’interno di un milieu sociale decisivo, ovvero la componente in sé rivoluzionaria del blocco sociale dei subalterni. Il difetto principale del film è che manca un adeguato rapporto dialettico non solo fra lotta sindacale e lotta politica, ma fra ambito della vita etica familiare e ambito etico della società civile.
First cow di Kelly Reichardt, drammatico, USA 2020, voto: 6; film d’autore e impegnato statunitense, che purtroppo confonde il naturalismo con il realismo. Così, se certamente buone sono le intenzioni di denunciare il sogno americano, il risultato è un film scarsamente godibile dal punto di vista estetico. Inoltre il regista fa propria l’opinione dominante della tragedia senza catarsi e, così, mancando alla conclusione ogni prospettiva lascia lo spettatore con l’amaro in bocca per la mancata compiutezza dell’opera.
L’assistente della star di Nisha Ganatra, drammatico, sentimentale, USA 2020, voto 6-; commediola statunitense godibile e improntata al politically correct. Senza sbavature nè cadute o concessioni al postmoderno e, in maniera smaccata, all’ideologia dominante, il film non decolla in quanto i suoi protagonisti non riescono ad andare al di là delle piccole ambizioni del successo personale e non hanno nessuna intenzione di volersi battere per cambiare in meglio il mondo, favorendo la lotta per l’emancipazione del genere umano. In tal modo, il conflitto sociale, reale motore della storia, è completamente anestetizzato, come in ogni prodotto dell’industria culturale.
L'amore a domicilio di Emiliano Corapi, commedia, Italia 2019, voto: 5,5; merce ben confezionata, ma puramente gastronomica e di evasione dell’industria culturale, ha il pregio, per essere un film italiano, di non cadere nei soliti cliché del postmodernismo. Da ricordare la prova del giovane protagonista maschile. Nel film manca qualsiasi allusione al motore della storia, il conflitto sociale e anche la condizione di sfruttamento del lavoro salariato è presentata in forma del tutto edulcorata.
Dafne di Federico Bondi, drammatico, Italia 2019, voto: 5+; film sostanzialmente minimal-qualunquista anche se affronta una tematica significativa come l’integrazione dei diversamente abili. Il film resta troppo alla superficie delle problematiche affrontate. Assicura un mediocre godimento estetico e lascia troppo poco su cui riflettere allo spettatore. Manca del tutto la critica sociale, anche in relazione alla modalità di affrontare problematiche del genere.
Panico di Julien Duvivier, drammatico, Francia 1946, voto: 5+; soltanto l’imperante revisionismo poteva portare a riproporre nelle sale, restaurato, un film decisamente secondario come Panico. La storia, per altro facilmente prevedibile, se da una parte denuncia a ragione i pregiudizi e i comportamenti irrazionali di una folla ignorante, egemonizzata da malviventi e piccolo borghesi, dall’altra dimostra un’attitudine aristocratica priva di qualsiasi fiducia nelle masse, tipica dell’intellettuale parassitario borghese che non è in grado di riconoscersi in nessun modo nel suo stesso popolo.
Cosa resta della rivoluzione di Judith Davis, commedia, Francia 2018, voto: 3; almeno dalla versione sottotitolata in italiano, sembra un film senza capo né coda. In realtà, il film può piacere a un ex sessantottino pentito, ma non può che innervosire un militante politico che non si è arreso al riflusso e all’ideologia dominante postmoderna. Anche se inconsapevolmente – il ché non è detto che possa essere considerata un’attenuante – il film è nei fatti controrivoluzionario. Rispetto alla soggettivistica e romantica ironia verso la grande ambizione di voler cambiare il mondo, dimostrata dalla regista al suo esordio, verrebbe da ricordare l’antico adagio: scherza con i fanti, ma lascia stare i santi. In altri termini, con tutti gli aspetti contraddittori e paradossali della società imperialista nell’epoca della sua putrescenza, andare a fare della facile ironia sulla mancanza di valori rivoluzionari sostanziali nei figli dei sessantottini pentiti, non può che nei fatti essere un ossequio all’ideologia dominante del riflusso, del disimpegno, dell'abbandono delle grandi ambizioni di voler cambiare il mondo, in nome delle piccole ambizioni tipiche del regno animale dello spirito, del filisteo piccolo-borghese.
Gli anni amari di Andrea Adriatico, biografico, Italia 2019, voto: 3-; purtroppo si tratta di un film assolutamente insostenibile sia dal punto di vista della forma che del contenuto, sebbene il soggetto scelto, nella sua contraddittorietà, avrebbe potuto essere anche molto interessante e significativo. Naturalmente tutti gli aspetti più rivoluzionari della biografia di Mario Mieli sono del tutto omessi dal regista, che tende a ridurre una biografia potenzialmente interessante, dal punto di vista storico e sociale, agli aspetti meramente privati, fino ad arrivare a un’apologia del riflusso.
Fellini fine mai - 100 anni di Fellini, regia di Eugenio Cappuccio, documentario, Italia 2019, voto; 4-; documentario senza capo né coda, realizzato alla maniera di Pif, da parte di un suo epigono. Il documentario è del tutto privo di spirito critico, non è in grado di individuare i punti alti e le rovinose cadute nell’opera cinematografica di Fellini. Invece di mettere al centro del documentario la cosa stessa, per tutta la prima parte il regista mette costantemente al centro la sua singola esperienza, di nessunissimo interesse per lo spettatore. Il film è del tutto allineato con l’ideologia dominante post-moderna e irrazionalista.
Onward - Oltre la magia di Dan Scanlon, animazione, commedia, USA 2020, voto: 3-; film diseducativo per bambini, piatto e noioso, che dimostra ancora una volta come la Disney abbia acquistato la Pixar solo per eliminare un pericoloso competitore, che faceva film di animazione di qualità migliore. Passata sotto il controllo della più grande multinazionale dell’industria culturale del cinema anche la Pixar si è ridotta a produrre film senza qualità e con un contenuto decisamente reazionario e diseducativo, volto a favorire le credenze in un mondo occulto antico, che sarebbe stato colpevolmente eliminato dallo sviluppo scientifico-tecnologico, di cui si mettono in evidenza solo gli aspetti negativi, legati esclusivamente al loro utilizzo da parte del modo di produzione capitalistico nella sua epoca di crisi.
Liberté di Albert Serra, drammatico, storico, Spagna 2019, voto: 0; film assolutamente intollerabile, che spaccia come rivoluzionaria la forma più reazionaria e misogina di libertinismo. In tal modo, in maniera del tutto acritica, la gloriosa tradizione rivoluzionaria del libertinismo viene confusa, artatamente, con la sua deriva più reazionaria. Inoltre si spaccia tale posizione, in modo rovescista, come rivoluzionaria, dando al contempo a intendere che i rivoluzionari sarebbero portatori di posizioni tanto disgustose e inaccettabili anche per chi fosse dotato di sano buon senso umano. Il film, per altro, è noiosissimo e anche del punto formale è decisamente insopportabile. Veramente difficile trovare un film tanto scarso e a tal punto sopravvalutato da ricevere il premio speciale della giuria al festival di Cannes.