Per quanto Roma sia di rado sede di mostre davvero significative, e la situazione non è certo migliorata durante la gestione della giunta Raggi, le Scuderie del Quirinale restano certamente la sede di esposizione delle mostre maggiormente interessanti. Per questo le aspettative del visitatore sono piuttosto alte. Perciò la mostra Ovidio. Amori, miti e altre storie, curata da Francesca Ghedini e visitabile sino al 20 gennaio, lascia il visitatore con l’amaro in bocca. Non che l’idea alla base della mostra sia sbagliata, né si può lamentare una cattiva organizzazione, ma l’aspetto in ultima istanza decisivo, il valore estetico delle opere proposte lascia, con pochissime eccezioni, molto a desiderare.
Procediamo con ordine, l’idea di una mostra tematica sulle opere d’arte ispirate ai componimenti del grande poeta latino Ovidio che, con le sole Metamorfosi ha offerto una quasi infinita fonte di ispirazione a innumerevoli artisti del mondo antico e soprattutto moderno è non solo valida, ma anche originale. L’allestimento è certamente molto curato, il percorso della mostra è bene illustrato, la collocazione e illuminazione delle opere esposte più che sufficiente. Molto interessante risulta infine l’intreccio fra l’opera letteraria di Ovidio, il suo significato storico e politico, la sua influenza non solo estetica, ma ideologico-filosofica sulla cultura del tempo e, infine, il suo essere stata fonte diretta di ispirazione di opere di ogni genere artistico, in particolare fra il tardo quattrocento e la prima metà del settecento.
La cosa che più colpisce dall’esposizione è la libertà dei costumi nel mondo antico classico, rispetto non solo come è ovvio al medioevo cristiano, ma ai secoli di trapasso al mondo moderno e ai primi secoli di quest’ultimo sino a ridosso della Rivoluzione francese, vero ed essenziale spartiacque tra l’ancien régime e la compiuta modernità. Tanto che in tutti questi secoli di trapasso il processo di liberazione dei costumi e in primo luogo della sessualità passa per il richiamo iconografico a tematiche ben presenti nel mondo classico e del tutto, o quasi, cancellate dalla tradizione ebraico-cristiana dominante sino alle soglie della modernità.
Abbiamo così copie romane della grande statuaria greca classica che mostrano in modo non ancora malizioso degli splendidi corpi di divinità ignude, prototipi ideali della bellezza del corpo umano, per altro del tutto indipendenti dall’arte di Ovidio. Abbiamo poi significativi esempi di opere propriamente romane, anche di pittura, provenienti degli scavi di Ercolano e Pompei, dove si mostrano in modo decisamente più licenzioso e realistico rapporti sessuali, su tematiche in alcuni casi riconducibili alle opere di Ovidio. Se ne potrebbe dedurre che tale libera espressione dell’erotismo, che non scade mai o quasi nella pornografia fosse piuttosto diffusa anche indipendentemente dall’arte di Ovidio, che da questo punto di vista pare essere una delle più elevate espressioni dello spirito del proprio tempo. Uno spirito che sembra rivolto alla scoperta e al pieno godimento dei piaceri della vita individuale, privata, anche perché l’orizzonte della vita pubblica, la partecipazione alle grandi decisioni politiche è sempre più preclusa ai più dall’accentramento del potere.
Quest’ultima dinamica si è incarnata nella figura di Augusto che segna il passaggio dalla Repubblica all’Impero. Non è un caso che già Augusto colga tutti i rischi per la tenuta dello Stato di questo cercar rifugio dell’individuo nei godimenti della vita privata. Esso segna il venir meno dei valori tradizionali, dell’eticità costituita che garantiva la piena e immediata adesione dell’individuo, come cittadino, ai valori su cui si fonda la comunità sociale e politica alla base dello Stato. Non è un caso che proprio per preservare questa dimensione pubblica del cittadino, dinanzi all’affermazione sempre più incipiente dell’individuo privato, che siano stati proprio gli imperatori romani, ovvero la principale causa del disinteresse dei singoli alla vita pubblica dello Stato, a cercare di alimentarla ampliando i diritti di cittadinanza anche alle popolazioni che erano state soggiogate dall’Impero.
Allo stesso modo non è un caso che sarà proprio Augusto a porsi all’avanguardia in questa lotta di retroguardia e necessariamente destinata alla sconfitta volta impedire il prevalere di quelli che gli apparivano vizi privati in aperto contrasto alle pubbliche virtù. Di tutto ciò è testimone la rivoluzione sotto diversi aspetti conservatrice portata avanti a livello artistico-religioso su impulso dello stesso Augusto. Così alle copie delle statue elleniche ancora adorate come divinità dai greci e spesso raffigurate in modo discinto proprio in quanto non si coglieva nulla di malizioso o licenzioso nell’esaltazione della perfezione e della bellezza del corpo umano, per altro al centro della religiosità per molti aspetti ancora naturale del tempo, si affiancano e tendono a sostituirsi nuove statue che non rappresentano più la divinizzazione dell’ideale cittadino della polis, ma il ritratto del reale imperatore, che giustifica l’accentramento del suo potere mostrandosi prima come sommo sacerdote, poi come discendente diretto delle antiche divinità elleniche e, infine, come il nuovo e unico vero dio.
Ecco che allora la figura dell’imperatore e, persino quella della “first lady” del tempo, vengono rappresentati sempre più non come figure ideali, ma come ritratti reali, non più in vesti discinte, ma pesantemente abbigliate e pudicamente coperte dalla testa fino ai piedi. Tale metamorfosi investe le stesse divinità greche, che ora poste come antenate della stirpe imperiale debbono essere a loro volta morigerate e diserotizzate.
Tale tendenza a fondare una nuova civiltà, quella della Roma imperiale, non poteva che incontrare delle vivaci resistenze, in primo luogo in quei gruppi sociali, generalmente rappresentati dal senato, ma anche dai nuovi ceti sociali emergenti costituiti da grandi commercianti e appaltatori, che intendevano salvaguardare una forma di governo che negli ultimi tempi era divenuta nei fatti oligarchica. Tanto più che questi ultimi potevano in parte accettare di essere nuovamente estromessi dal potere, da poco parzialmente conquistato, solo in cambio di poter regnare liberamente nell’ambito della vita privata senza dover sottostare alle norme morigeratrici che intendeva imporre il nuovo potere imperiale.
In questo conflitto politico e sociale Ovidio appare senz’altro come un intellettuale di opposizione, che si differenzia e implicitamente si contrappone agli intellettuali organici al nuovo potere dominante che erano stati riuniti e foraggiati da Mecenate. Da questo punto di vista le opere di Ovidio si pongono agli antipodi di quelle moralizzanti di un Virgilio, che rappresenta nel modo più classico con le sue opere la nuova ideologia dominante che si affermava con la costituzione dell’impero.
Ovidio, le sue opere e le opere ispirate a queste ultime rappresentano uno dei più alti esempi della fronda intellettuale che si contrapponeva al nuovo potere accentratore. Tale fronda, tale opposizione interna artistico-culturale aveva aspetti contraddittori. In quanto da una parte si opponeva in nome della libertà dell’espressione artistica e di pensiero alle tendenze accentratrici e totalitarie del nuovo regime. Per cui al revisionismo augusteo volto a imporre una reinterpretazione morigerante delle divinità classiche greche, che dovevano divenire il presupposto posto del potere imperiale, Ovidio contrappone la loro completa disinibizione dal punto di vista sessuale e la loro completa estraneità se non aperta opposizione, alla loro reinterpretazione in chiave moraleggiante che cercava di imporre il nuovo potere imperiale.
D’altra parte proprio essendo espressione di una fronda composta principalmente da aristocratici e nuovi ricchi, che si contrapponevano al nuovo tiranno populista e demagogico, in quanto espressione del partito popolare, in nome del vecchio blocco sociale oligarchico l’arte di Ovidio e dei suoi imitatori ha anche caratteristiche decisamente reazionarie. Così nelle sue opere vi è tanto l’aspetto progressista e protoilluminista di un Senofane che mostra quanto umane, troppo umane fossero le divinità greche, ovvero ne mette in mostra tutte quelle attitudini immorali e asociali che generalmente condanniamo negli esseri umani. Da tale punto di vista l’opera di Ovidio demistificava i valori tradizionali dei conservatori e dei neoconservatori filo-imperiali.
D’altra parte, contro l’attitudine populista e demagogica di Augusto, contro la sua rivoluzione passiva, l’artista si fa espressione con la sua opera di quei settori sociali, presenti nella stessa famiglia dell’imperatore, che erano fautori di una reazione aperta, fondata sulla piena rivendicazione di quella che a ragione Nietzsche definirà la “morale dei signori” in contrapposizione alla “morale degli schiavi”, propugnata da moralisti e religiosi. Tale “morale” rivendica i valori del corpo, della volontà di potenza e di dominio dei bennati, eredi degli dèi, nei confronti dei malnati, figli di una progenie inferiore e destinati a essere sottoposti nel modo più aperto e violento all’arbitrio dei signori, rappresentati da divinità che hanno per diversi aspetti le fattezze dei superuomini teorizzati molti secoli dopo da Nietzsche.
Diversa ovviamente è la ricezione dell’opera di Ovidio nei secoli di transizione fra il mondo cristiano-medievale e il moderno mondo borghese. In questo caso prevalgono in modo più netto gli elementi progressisti dal punto di vista artistico e culturale. Ancora più forte è negli artisti che scelgono una iconografia e iconologia ispirata ai testi ovidiani la rottura con la tradizione artistica, religiosa e sociale dominante, volta alla preminenza assoluta dei valori religiosi e spirituali su quelli legati al corpo e alla libido, in quanto tali demonizzati. Perciò tali opere sono un vero e proprio manifesto della libertà dell’arte e della coscienza, in funzione della riscoperta e della rivalutazione del corpo umano; rappresentano la lotta in nome dei valori della vita, della natura, dell’altrettanto naturale ricerca del piacere contro l’oppressiva etica ascetica del medioevo cristiano. Purtroppo, in questo caso, le opere esposte non sono all’altezza dal punto di vista estetico – ad eccezione di un vero e proprio capolavoro di Botticelli e di due opere, per altro minori, di Ludovico Caracci e di Tiepolo. Per il resto si tratta di testimonianze che hanno un indubbio valore dal punto di vista storico e ideologico, ma scarso significato dal punto di vista propriamente artistico ed estetico.
Inoltre, in questo caso, il ruolo di opposizione dell’arte di ispirazione ovidiana, adeguatamente anche se unilateralmente – nei suoi soli tratti progressivi – messa in luce nella prima parte, è del tutto assente nella seconda parte, in cui bisognerebbe mettere in discussione il cristianesimo.
Infine, occorre sottolineare che anche nel caso delle opere di questa epoca di transizione, di più chiara ed evidente ispirazione ovidiana, si tratta sempre e comunque di opere che portano avanti una opposizione interna al sistema dominante, di una fronda, priva della carica rivoluzionaria che ha il realismo di un Caravaggio che pone al centro della scena esponenti delle masse popolari. Del resto, anche in queste opere, oltre al prevalente aspetto progressivo, restano presenti, nella loro ambiguità di fondo, quei tratti regressivi, neo-oligarchici ben descritti a proposito della cultura rinascimentale, anche se ovviamente in modo unilaterale, dal grande storico Jacob Burckhardt, non a caso sodale di Nietzsche.