Abbiamo aspettato fino all’ultimo per affrontare la visione dell’ultimo film di Matteo Garrone: Dogman. Dopo i davvero pessimi Il racconto dei raccontie Gomorra e dopo aver visto il trailer del film e letto alcune recensioni avevamo delle aspettative bassissime, tanto che se il film non fosse stato malauguratamente candidato italiano al premio Oscar per il miglior film straniero ce lo saremo ben volentieri risparmiato. Purtroppo il film non ha fatto che confermare le nostre infauste previsioni. Si tratta di un film davvero pessimo di cui ha senso parlare solo in quanto è stato esaltato da tanta critica, anche sedicente di estrema sinistra, al punto da esser proposto come miglior film del nostro paese al più importante concorso internazionale. Tale sciagurata candidatura ha un senso solo in quanto rivela il livello davvero sorprendente di decadenza della critica cinematografica in primo luogo italiana ed è una testimonianza, a suo modo esemplare, del degrado del cinema “d’autore” italiano degli ultimi anni. Vi è, dunque, una perfetta corrispondenza fra la rovinosa crisi della struttura economico-sociale del nostro paese e la penosa decadenza delle sue sovrastrutture, da quelle politiche, si pensi al livello di degrado raggiunto dall’attuale governo e dalla sedicente opposizione parlamentare, al livello putrescente della cultura dominante, naturalmente espressione della classe dominante.
Dogman, come del resto altri film “d’autore”, che ci è toccato sorbirci per poter meglio poter attaccare la critica cinematografica dominante, quali Lazzaro felice – di un’altra regista assurdamente osannata anche dalla a-sinistra – e La terra dell’abbastanza – altrettanto assurdamente spacciato come migliore opera prima italiana – ha tutti i peggiori stereotipi degli attuali film italiani che non si accontentano di essere meri prodotti di distrazione di massa dell’industria culturale, ma pretendono di venir considerati come opere d’arte. Il primo di questi stereotipi è il non aver nulla (di sostanziale) da dire. In secondo luogo il bearsi e l’autocompiacersi nel rimestare nei meandri più torbidi della plebe moderna italiana. Ecco dunque il solito repertorio di questa miseranda estetica del grottesco, dello squallido, del cinico che ci vengono presentati come le uniche caratteristiche delle classi subalterne italiane. L’attitudine naturalista e positivista con cui ci vengono presentati, la preventiva impossibilità di una qualsiasi forma di riscatto, la deterministica negazione di una qualche alternativa progressiva, tende a naturalizzare la condizione di abbrutimento del subalterno privo di qualsiasi barlume di coscienza di classe.
Si tratta, quindi, dell’ennesima e noiosissima ripresa delle tematiche di Cinico TV con la semplice aggiunta di un surplus di violenza gratuita e di gusto per il grottesco. Al solito i personaggi sono privi di spessore, di realismo, di vita, di complessità, sono mere maschere che rappresentano niente altro che la personificazione di diversi aspetti del degrado di ceti “naturalmente” subalterni e altrettanto “naturalmente” privi anche solo di un barlume di consapevolezza di classe.
Riducendo tutto il mondo subalterno al più squallido e grottesco degrado, si finisce con il riproporre un’apologia indiretta della società capitalista. Rispetto a delle masse popolari così degradate e disumanizzate, fiere della propria ignoranza, la loro irreggimentazione a opera del capitale non può che venir considerata il male minore, non fosse altro che per tenere a bada questi gruppi sociali pericolosi, in quanto non possono avere nessun interesse al mantenimento dell’attuale società di cui non possono che esperire gli aspetti più squallidi.
Ciò che più colpisce è la completa incapacità degli autori borghesi di riconoscersi in questi loro personaggi che dovrebbero rappresentare nel modo più fedele le masse dei diseredati. In essi gli autori non colgono mai nulla di umano. Quindi non solo non c’è nessuna forma di simpatia, nemmeno paternalistica, verso il mondo degli umiliati e offesi, ma si nega la stessa possibilità a chi è condannato a vivere nel mondo di sotto di appartenente allo stesso genere di chi vive nel mondo di sopra. Tale negazione dipende dalla completa incapacità di questi intellettuali cinici, snob e pieni di sé di mettersi anche solo per un momento nei panni dell’altro da sé, per poterne dare una rappresentazione più sfaccettata e non schiacciare il subalterno nella visione deformante prodotta dai propri pregiudizi classisti.
Si pensi all’abisso che separa queste figure di umiliati e offesi da quelle rappresentate dal Neorealismo italiano. L’abisso che separa il “canaro” e la sua vittima-carnefice dai protagonisti di Ladri di biciclette o Umberto D è lampante, come altrettanto evidente l’incolmabile distanza che separa Lazzaro felice dal protagonista di Miracolo a Milano al quale pure in qualche modo è ispirato. Tanta è l’umanità e la dignità che traspare dagli umiliati e offesi del cinema neorealista, quanto disumana è la grottesca rappresentazione stereotipata che ne danno i registi oggi alla moda. Tale distanza siderale ci dà anche il senso dello spaventoso abisso che si è venuto a creare tra intellettuali e masse popolari, ancora più spaventoso di quello esistente nel diciannovesimo secolo, se si pensa ai grandi romanzieri del tempo da Dickens a Tolstoj. Sembra di essere tornati agli anni più bui del seicento, tanto che sempre più spesso gli intellettuali che vanno per la maggiore – anche fra gli a-critici della a-sinistra – si rifanno a quel secentismo programmatico di cui parlava Gramsci per stigmatizzare i peggiori intellettuali del Ventennio. Ma mentre nel diciassettesimo secolo vi era l’attenuante del dominio oscurantista spagnolo e nel Ventennio del totalitarismo fascista, in assenza di tali attenuanti gli intellettuali snob oggi alla moda non possono che essere definiti come “complici” o come pronipoti di Padre Bresciani per servirci di un’espressione gramsciana rimasta anch’essa di allarmante attualità.
Per meglio far emergere i livelli di oggettiva complicità degli odierni intellettuali à la page, più che il paragone con intellettuali del Neorealismo, appartenenti a un altro mondo storico, è più utile mettere a confronto le loro opere con un film prodotto nel loro stesso mondo, a riprova che non ci sia nessuna necessità oggettiva che costringe la maggior parte degli intellettuali italiani odierni a essere o meri impiegati dell’industria culturale, o pronipoti di Padre Bresciani animati da secentismo programmatico. Il film in questione è Sulla mia pelle che descrive il calvario di un altro umiliato e offeso dei nostri tempi, privo anch’esso di coscienza di classe e di un ideale per cui lottare, tanto da divenire schiavo della droga. In questo caso, però, non è il regista a mostrare la sua incapacità di riconoscimento di questo piuttosto tipico esponente della plebe moderna, ma sono piuttosto le istituzioni del “nostro” Stato “democratico”.
In Sulla mia pelle, accettando di indagare con una certa serietà nella propria pur piccola storia ignobile, il regista riesce a liberarsi non solo della prospettiva dell’ideologia dominante, ma da ogni stereotipo degli attuali pronipoti di Padre Bresciani tanto amati e vezzeggiati dalla stessa critica della a-sinistra. Così, in primo luogo, Cremonini ha qualche cosa (di sostanziale) da dire, ovvero che tutte le principali istituzioni di uno Stato sedicente democratico non sono in grado di riconoscersi in un esponente disgraziato dei ceti subalterni, al punto che lo trucidano e si rendono in modo diretto o indiretto complici di tale barbaro omicidio, solo per difendere le istituzioni di un sistema sempre più disumano ed escludente. In secondo luogo, non c’è nel regista e nel film nessun compiacimento nel mostrare in modo realistico la condizione miserevole di questo tipico esponente degli attuali umiliati e offesi. Né c’è il gusto e il compiacimento nello spiattellare davanti allo spettatore scene di violenza e crudeltà gratuita, volte a stimolare i peggiori istinti, da voyeurista sado-masochista, di una parte del pubblico. Al contrario le scene più crude sono lasciate del tutto fuori campo e così al centro dell’attenzione si pone non il singolo e spropositato, dunque atipico, atto di violenza e crudeltà gratuito, ma la piena complicità di tutte le istituzioni dello Stato imperialista in uno spietato atto di repressione.
Tanto che alla fine a colpire e a essere oggetto di denuncia non sono tanto le singole presunte “mele marce”, da isolare per preservare la totalità di un sistema sano e democratico, né la copertura che la manovalanza criminale dello Stato imperialista ottiene da parte dei diretti colleghi e superiori. A colpire è non solo la naturalizzazione di tali orribili episodi che portano le vittime, che conoscono bene i micidiali meccanismi di autoprotezione del sistema, a preferire lasciarsi morire piuttosto che denunciarli, non tanto l’assoluta inconsapevole complicità di tutti gli impiegati degli apparati repressivi dello Stato, ormai completamente assuefatti dinanzi a tali gratuite violenze, ma il completo disinteresse che suscitano nel personale sanitario e giudiziario.
In tal modo non solo il caso Cucchi non viene naturalizzato, come i personaggi di Gomorra o la vicenda del “canaro” di Garrone, ma al contrario si mostra come si tratti di un caso tipico, e non di un’apparente piccola storia ignobile, proprio perché a naturalizzarlo e, dunque, a occultarlo in modo più o meno consapevole sono i rappresentanti delle diverse istituzioni dello Stato e la stessa ideologia dominante che porta lo stesso padre del malcapitato a non prendere nemmeno in considerazione un possibile abuso da parte delle forze dell’ordine, ma ad attribuire il pestaggio del figlio a qualche galeotto a ragione rinchiuso in carcere.
Il film mostra ancora che pur in questo contesto infernale è possibile una via d’uscita, ovvero che la notte più lunga eterna non è. Così la determinazione della sorella, con il sostegno del regista sono riusciti con la loro dedizione e forza di volontà a rompere il consueto muro di omertà, per cui il sistema tende in ogni modo ad autoassolversi. Così mentre film come Dogman non possono che disgustare la parte più sana dei ceti subalterni e al limite stuzzicare il voyerismo sado-maso della parte più corrotta, finendo con il naturalizzare la subalternità della plebe moderna, Sulla mia pelle suscita non solo la sacrosanta indignazione dello spettatore non in cattiva fede, ma la voglia di riscatto della parte più sana dei subalterni, che ha sottratto il film al meccanismo di distrazione di massa dell’industria culturale, appropriandosene e rendendolo uno strumento di sviluppo collettivo della coscienza di classe e di lotta contro gli apparati in sé totalitari del “nostro” Stato “democratico”.
Infine la storia raccontata da Garrone, pur essendo basata su un fatto di cronaca nera, è esposta in modo del tutto irrealistico tanto da apparire una fiaba nera, o un episodio particolarmente violento e grottesco da Cinico TV. Al contrario la storia di Cucchi è presentata in modo realistico, senza mai la necessità di andare sopra i toni per tenere desta l’attenzione dello spettatore e, perciò, il suo caso per quanto estremo diviene tipico dell’incapacità che ha lo Stato capitalista non solo di integrare, ma di riconoscere come un essere umano un tipico esponente di quella plebe moderna che l’attuale modo di produzione tende a riprodurre su scala allargata.