Le idee in Platone hanno un valore causale, sono dei paradigmi, dei criteri, dei modelli che permettono di discernere sul piano etico, politico, tecnico ed epistemologico-matematico. Solo conoscendo l’idea di buono possiamo discernere se un individuo, con una certa azione vi partecipa o meno; l’idea di una figura geometrica è il modello rispetto alle figure che tracciamo per dimostrare un qualche teorema; l’idea di buono è anche il paradigma in cielo su cui dovrà prendere le decisioni un uomo politico degno di questo nome; infine anche l’artigiano costruirà il suo manufatto sulla base del modello ideale che ha nella propria testa.
Si tratta ora di stabilire se questo nesso causale sia possibile stabilirlo anche fra le idee e gli esseri naturali e sia anche alla base dell’ordine del mondo. Una soluzione a questi complessi quesiti verrà da Aristotele, che considererà le idee di una specie necessarie per distinguere nel mondo empirico gli enti appartenenti a una certa specie piuttosto che a un’alta. Inoltre l’idea come forma, trasmessa mediante i processi generativi alla prole all’interno di una stessa specie, dimostrano la legalità presente “naturalmente” nel mondo.
Non poteva essere che diversa la risposta a questa fatidiche domande da parte di Platone, come di consueto decisamente più grandiosa e visionaria. Per provare a estendere la causalità delle idee sorta su basi epistemologiche ed etico-politiche alla natura e al mondo, il tardo Platone compose un dialogo, Il Timeo, con uno stile insolitamente enfatico, pieno di metafore barocche e di nozioni scientifiche riprese dai filosofi naturalisti, dai pitagorici a Empedocle, dalla medicina alla matematica. Protagonista del dialogo, al posto di Socrate, è il pitagorico Timeo di Locri.
D’altra parte anche le soluzioni ideate dal Timeo sono ispirate al modello artificialista, già adottato da Platone sul piano etico-politico, in cui il politico e il legislatore da valenti demiurghi offriranno valide leggi e istituzioni ispirandosi al paradigma in cielo della città ideale e anche i più umili demiurghi, i semplici artigiani, porteranno a termine i proprio lavori manuali sulla base di un modello ideale presente nella loro testa. Questo ruolo demiurgico, immagine mitica atta a spiegare la causalità delle idee anche sul piano del mondo e della natura, difficilmente dimostrabile sul piano scientifico filosofico, si serve del racconto-mito di un dio, subordinato al mondo delle idee, da cui trae i prototipi per realizzare una natura ordinata. Tali forme ideali debbono realizzarsi su una materia informe, che per questo può essere formata ma, al contempo, oppone una resistenza per la propria instabile natura.
Si trattava esplicitamente di un racconto, un mito, solo verosimile, in quanto descriveva come accaduto nel tempo il generarsi dell’universo, che in realtà è un processo atemporale che fonda il tempo. Inoltre si serve di grandiose immagini mitologiche, come quella del dio-artigiano o della causalità errante delle idee su una materia instabile per natura. Per altro è proprio questa naturale instabilità che impedisce una spiegazione scientifica e una fondazione filosofica, in quanto il piano delle idee dialettiche e matematiche si fonda proprio su quella stabilità che manca nel rapporto fra modelli ideali e fenomeni naturali.
Perciò Platone per spiegare questa razionalità insita, per quanto in modo instabile, anche nel reale naturale, introduce il mito teleologico di una provvidenza divina, che avrà grandissima fortuna nei secoli successivi. Tuttavia questa provvidenza è tutt’altro che onnipotente, il principio d’ordine di cui si fa latrice ha successo sempre e solo fino a un certo punto in un contesto in quanto tale instabile, come quello dello spazio-materia, esattamente come il grande politico può realizzare sempre solo fino a un certo punto i paradigmi celesti cui si ispira, avendo sempre a che fare con l’altro da sé, con quel regno del divenire, poco stabile e stabilizzabile, costituito dalla storia.
L’ordine presente nell’universo è spiegato con i modelli matematici cui si richiama il demiurgo nell’imprimere il proprio ordine provvidenziale a una natura, in quanto tale, recalcitrante. Platone immagina che alla base dei quattro elementi naturali di Empedocle, sulla base dei quali si formerebbero tutti gli enti naturali, vi siano dei paradigmi geometrici. “Il moto dei cieli era a sua volta organizzato secondo configurazioni matematico-astronomiche ancora più complesse” [1].
D’altra parte, “questa sorta di modello cristallografico del mondo – forse ispirato dal pitagorico Filolao – ne spiegava l’ordine materiale e i processi inerziali, non però propriamente la vita, cioè la coesione d’insieme e la finalizzazione al meglio desiderata dal suo artefice provvidenziale” (Ibidem). Quest’ultimo dotava, perciò, il mondo e tutti gli esseri viventi di un’anima, che proseguiva il suo processo di iniziale formazione.
Dunque Platone per far valere anche nel mondo naturale il principio genetico e causale del piano noetico-ideale è costretto a introdurre la figura mitologica di questo artigiano divino, che plasmava il mondo sulla base di forme geometriche, dai cui modelli era possibile sviluppare una sorta di fisica dialettica, che spiegasse i processi naturali sulla base delle proprietà delle figure geometriche poste allo loro base. Inoltre il demiurgo animava il mondo, in tal modo introduceva negli organismi viventi, per quanto possibile, un finalismo per cui le parti rispondevano al tutto.
Per quanto quella di Platone fosse un ritorno alla cosmogonia essa ha avuto – anche per questo – un eccezionale successo, nonostante sia stata quasi immediatamente investita dalla radicale critica aristotelica che considerava una metafora puramente poetica la potenza genetica e causale delle idee e tornava nel De Caelo a una cosmologia in cui non vi era più posto per l’anima e l’universo era eterno e ingenerato. Ciò nonostante già la scuola stoica riprenderà il modello platonico di un universo immaginato come un enorme animale guidato dalla divina provvidenza. Prendendo alla lettera la metafora del demiurgo, il cristianesimo ci poteva ritrovare la sua concezione creazionistica, declassando le idee – sulla strada aperta dai neoplatonici – a idee divine. Al contrario per Platone e l’Accademia quello del Timeo era un mito, anche se decisamente produttivo in quanto apriva la strada tanto alla matematizzazione del mondo, quanto a una psicofisiologia.
Le Leggi segnano un ritorno in grande stile alla politica dell’ultimissimo Platone che muore lavorando a quest’opera e a una revisione de La Repubblica. L’opera oltre che di Platone è ascrivibile all’Accademia e in particolare al suo assistente e scolaro pitagorico Filippo di Opunte che l’ha portata a termine. Perciò non possiamo dire con certezza quanto quest’opera possa considerarsi di Platone.
L’opera va contestualizzata storicamente, considerando che al tempo molti membri dell’accademia erano impegnati politicamente come legislatori in diversi contesti, in cui avevano bisogno di un riferimento meno utopistico e radicale de La Repubblica. Inoltre, proprio perché svolgevano una funzione politica così delicata dovevano distanziarsi dagli aspetti più radicali e comunistici de La Repubblica, pesantemente sotto attacco non solo da parte dei poeti comici, ma dallo stesso Aristotele.
L’influenza dell’Accademia spiega le notevoli anomalie del dialogo, non più ambientato ad Atene, ma nella dorica Creta, come protagonista Socrate è del tutto sostituito da un anonimo ateniese che dialoga con due dorici. Il dialogo è costituito da un sostanziale monologo assertivo, del protagonista interrogato sulla costituzione da dare a un a nuova colonia cretese.
L’occasione era ottima per prendere le distanze storicamente da La Repubblica, la quale presentava certo il programma politico più avanzato e migliore, ma ormai, purtroppo, sarebbe potuto essere realizzato solo da esseri divini, data la decadenza dei greci. Si accentua così il pessimismo antropologico e si perde la fiducia in una radicale modificazione per mezzo dell’educazione degli uomini. Perciò invece di delineare il contesto generale all’interno del quale si sarebbe dovuto svolgere l’autoformazione degli uomini, erano le leggi a supplire, divenendo estremamente minuziose, sempre pronte a sorvegliare, premiare e punire i cittadini. Anche perché non si ha più la fiducia che la ragione possa porre al proprio servizio gli istinti irrazionali, ma tuttalpiù si ritiene possibile che essa possa esercitare un relativo controllo su di essi.
Le Leggi non mirano alla realizzazione pratica dell’utopia de La Repubblica, in quanto sono anch’esse un’utopia, sebbene meno radicale, che a sua volta deve adattarsi alle circostanze storiche e sociali per potersi realizzare. La soluzione meno radicale dipende dall’aver constatato un regresso antropologico, in quanto la ricerca del piacere – legata alla proprietà privata e alla famiglia – sembrano ormai un dato irrinunciabile, come avrebbe sostenuto lo stesso Aristotele. Perciò diviene necessario restaurare la proprietà privata e la famiglia.
Se appariva necessario in quella fase rinunciare al comunismo, non si intendeva riprodurre una società spaccata dalla contrapposizione di ricchi e poveri. Perciò era richiesto un controllo sociale delle ricchezze, affinché fossero distribuite in modo, per quanto possibile egualitario. Le attività economiche dovevano essere radicalmente separate da ogni attività al servizio della società.
Proprio perché si considerava naturalmente l’uomo schiavo delle sue passioni, bisognava addestrarlo sin dalla più tenera età a mantenerle sotto il controllo della ragione. Nonostante ciò, gli aspetti irrazionali dell’uomo dovevano essere sottoposti al controllo della ragione oggettivatasi nelle leggi che doveva pianificare nel modo più razionale l’intera esistenza dell’individuo. Da questo punto di vista un ruolo essenziale avevano le feste pubbliche, in cui si rappresentava l’unificazione del corpo sociale e si glorificavano non più gli atleti, ma chi si era dimostrato in grado di sottoporsi in modo maggiormente costante all’imperio della ragione e del suo estrinsecarsi nelle leggi.
L’obiettivo era lo stesso de La Repubblica ossia una società giusta, coesa e funzionale ad accrescere nei suoi cittadini la razionalità e i valori. A tale scopo, però, non c’erano più norme ideali cui richiamarsi, ma vi era la stessa volontà divina – in contrapposizione alla volontà umana sostenuta da Protagora – di cui il legislatore non era che l’interprete e alla quale gli uomini dovevano sottoporsi seguendo le leggi, il cui significato era chiarito nei preamboli.
La vita doveva essere guidata da tre punti fermi, l’esistenza delle divinità, della divina provvidenza e la non modificabilità della volontà divina mediante riti o sacrifici. Perciò, il crimine peggiore era considerata la posizione atea dei materialisti e la posizione agnostica dei sofisti che, facendo venir meno la certezza del fondamento divino della legge, facevano prevalere la legge della giungla, ossia l’arbitrio del più forte.
A governare sarebbe stato il consiglio notturno dei membri anziani più saggi della comunità, che avrebbero dovuto guidare i cittadini non sulla base di idee, ma su una teologia astrale, che avrebbe rivelato la volontà divina.
Al di là di questa teocrazia che doveva guidare secondo leggi pervasive e immutabili i cittadini – sul modello egiziano e forse pitagoreo – la grandezza dell’opera è data dalla “immensa ricchezza di sapere legislativo, che derivava da una revisione critica di tutta l’esperienza storica greca, di Atene in primo luogo ma anche dell’ambiente dorico di Sparta, di Creta e della Magna Grecia” (242). Tale sapere sarà la base dei successivi sviluppi aristotelici e guiderà i membri dell’Accademia impegnati nell’attività di legislatori.
Note:
[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 235. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera, indicando in parentesi tonde il numero della pagina.