Platone riprende da Cratilo la concezione che tutto è in un costante divenire. Perciò del mondo sensibile si ha una conoscenza solo soggettiva e momentanea. In tal modo la sua posizione rischiava di non distinguersi da quella di sofisti come Gorgia e Protagora. Inoltre nulla sembra vero in assoluto, ma solo in modo relativo.
D’altra parte il linguaggio stesso (logos) e la geometria indicavano a Platone la via di accesso a realtà non empiriche, delle quali era possibile una conoscenza scientifica. Gli oggetti della matematica danno luogo a una verità universale e necessaria, cioè scientifica, in quanto non si tratta degli oggetti empirici sempre relativi e soggetti, in costante mutamento.
Nel linguaggio noi predichiamo di molteplici soggetti differenti uno stesso predicato, che resta uguale a sé stesso e ci permette di valutare oggettivamente i singoli soggetti [1]. Affinché i predicati siano oggettivi debbono avere come correlato oggettivo l’idea a cui si addice immutabilmente quel predicato, mentre a tutti gli altri soggetti può essere attribuito solo in determinati casi e in modo relativo e, in qualche modo, soggettivo. Come chiarisce Mario Vegetti: “l’esistenza di enti ideali invarianti come referenza primaria dei predicati usati nel linguaggio descrittivo e valutativo era per Platone un presupposto necessario alla stabilizzazione non relativistica dei significati di questo linguaggio, e dunque della stessa conoscenza del mondo cui esso si riferisce. Prendeva forma qui uno degli assiomi fondamentali del platonismo: la stabilità dei discorsi e delle conoscenze dipende da quella degli oggetti su cui essi vertono” [2]. Altrimenti detto, “il modo d’essere – lo statuto ontologico – degli oggetti su cui vertono discorsi e conoscenze ne determina il grado di stabilità, universalità e verità – insomma, lo statuto epistemologico” [152].
L’idea platonica riassume in sé tutte quelle caratteristiche peculiari che consentono di distinguere oggettivamente un ente da un altro. L’idea è la causa per cui a un soggetto viene attribuito un determinato predicato, tale attribuzione è corretta se l’oggetto in questione partecipa dell’idea di cui viene predicato. Per quanto problematica la concezione per cui l’idea sarebbe il modello della relativa cosa o azione, risultava utile a valutare e a descrivere secondo verità gli oggetti e le azioni corrispondenti.
Inizialmente per Platone vi erano tre tipologie di idee, in primo luogo le idee-valori, essenziali per giudicare in modo oggettivo in ambito etico-politico. In secondo luogo abbiamo gli enti matematici, che svolgeranno la funzione di idee intermedie. Infine vi sono le idee relative di coppie dimensionali tipo “grande e piccolo”, cui si aggiungevano, in un primo momento, le idee modello degli oggetti artificiali, come il “letto” che aveva in testa l’artigiano prima di realizzarne la singola copia.
In tal modo si rischiava un’estensione indefinita delle idee, che mediante il mito del demiurgo finivano con estendersi agli esseri naturali. Ciò favorirà la critica di Aristotele per cui sarebbe antieconomico raddoppiare gli enti per poterli spiegare. Sarebbe quindi, almeno secondo Vegetti, preferibile limitare le idee agli ambiti etico-politico ed epistemologico a partire dai quali era sorta la teoria delle idee.
Complessa è anche la questione della conoscenza delle idee. Da un certo punto di vista sembra una forma di intuizione intellettuale, ma da un altro è il prodotto argomentativo della dialettica. Per cui nel dialogo Socrate, dopo aver confutato le concezioni non universabili dei suoi interlocutori, sarebbe dovuto giungere a una definizione. D’altra parte tale soluzione “dogmatica” non poteva che risultare indigesta a Platone. Da qui la ripresa del dialogo per differenziare e delimitare le idee e porle al contempo in relazione con le idee affini, che ci consentono una migliore definizione. Ne conclude, con la consueta acutezza Vegetti, “se la comprensione dell’unità dell’idea manteneva probabilmente una ineliminabile componente intuitiva, l’esito principale della conoscenza dialettica, la descrizione discorsiva del significato di ogni singola essenza ideale (…) comportava dunque la sua delimitazione per differenza e affinità e il suo inserimento in una rete di relazioni significative in grado di circoscriverla” (162). Originariamente la teoria delle idee rispondeva alla necessità di superare il relativismo sofistico, dando un fondamento oggettivo all’ambito etico-politico ed epistemologico, senza un intento sistematico. Soltanto alla fine del suo percorso Platone azzarderà “una sorta di «grammatica generale» del mondo noetico-ideale” (ibidem).
Per Platone la conoscenza è relativa al proprio oggetto. Di ciò che è immutabile ed eterno si può avere una conoscenza noetico-ideale, di ciò che non è non si può avere conoscenza, di ciò che è e non è, ossia del mondo empirico del divenire si ha una conoscenza parziale, d’opinione. In tal modo, però, si negavano le scienze empiriche e si tendeva a ritenere vera scienza la sola matematica.
La conoscenza delle immagini degli enti empirici (come quella offerta dalle opere d’arte) è l’immaginazione. Credenza è la forma di conoscenza del mondo empirico. La conoscenza delle rappresentazioni sensibili degli ideali sarà la conoscenza ipotetico-deduttiva, dianoetica, della matematica. Mentre la conoscenza degli ideali richiede una conoscenza noetica, filosofico-dialettica. In tal modo la teoria delle idee sembrava “dar luogo a una concezione di due diversi mondi – quello dell’essere e della scienza, quello del divenire e dell’opinione – articolati al loro interno ma rigorosamente separati e non comunicabili. Le conseguenze di questo esito erano però di una portata tale da mettere in questione l’asse portante della filosofia platonica, nella quale l’introduzione delle idee aveva risposto a una esigenza di fondazione critica, non di negazione o di alternativa epistemica e persino esistenziale, rispetto alla comprensione intellettuale e all’azione etico-politica che hanno come proprio teatro il campo del tempo e della storia” (167-68). Si arrivava così al paradosso che la vera conoscenza si avrà solo dopo la morte, quanto l’anima si libererà dal corpo.
Per superare questo vicolo cieco, Platone elabora il mito della caverna, in cui vi è un unico mondo e si passa da una conoscenza fondata su credenza e opinione, a una conoscenza scientifica e filosofica attraverso un processo educativo. Dunque, come chiarisce Vegetti: “«Liberazione» e «ascesa» significano dunque non uno spostamento nello spazio ma una conversione dello sguardo intellettuale, che lo libera dai vincoli della credenza acritica nell’immediatezza dei sensi e nelle opinioni trasmesse dall’ambiente sociale, e lo orienta – attraverso l’interrogazione filosofica – verso una forma di pensiero più elevata e verso gli oggetti che le sono propri. Ma l’allegoria comportava una conseguenza anche più importante. La conversione dello sguardo non può significare una fuga mentale dal mondo degli uomini che vivono nella caverna (…). I filosofi «liberati» dovevano tornare a rivolgere il loro sguardo verso il «basso», verso i saperi e la politica di questi uomini. Si trattava anzitutto di un dovere morale nei riguardi di quei vecchi compagni di prigionia che avevano consentito, nel contesto della città, la liberazione educativa dei filosofi” (170). In tal modo, “emergeva ora con chiarezza che la conoscenza relativa al livello ontologico superiore non è alternativa bensì fondativa rispetto a quella del mondo del divenire. Se di questo mondo si può avere solo opinione e non scienza, esistono però «opinioni vere» in grado di orientare «correttamente» il nostro pensiero e la nostra prassi anche nel suo ambito. La conoscenza epistemica degli enti noetico-ideali (in questo caso di idee-valore come quelle di giustizia, bellezza e bontà) svolge quindi un ruolo di fondazione rispetto a queste «opinioni vere», le garantisce razionalmente e legittima perciò il ruolo di governo nella «caverna» di coloro che la possiedono, i veri filosofi” (170-71).
Inoltre, come le matematiche avranno un ruolo fondativo verso i saperi empirici – dimodoché quelli più matematizzati avranno un grado superiore di “scientificità” – la filosofia assume un ruolo epistemologicamente fondativo rispetto alle matematiche, studiandone i presupposti e mettendole in relazione fra loro. Inoltre, il piano ideale funge da principio d’ordine, delimitante, all’interno del mondo empirico del molteplice e del divenire. Arrivando a porsi – anticipando il successivo sviluppo teoretico di Aristotele – come fine cui tende il piano del divenire. Così negli ultimi dialoghi, “le relazioni interne al mondo eidetico venivano usate come una sorta di «rete» concettuale capace di catturare i nessi costitutivi del campo empirico e di verificare il significato degli enunciati che lo descrivevano” (172). Ne conclude Vegetti, che mentre Aristotele sostenendo la superiorità della vita contemplativa, tendeva a riprendere la separazione del filosofo dall’impegno nel suo mondo pratico-storico, “c’è una tendenza prevalente nel platonismo di Platone, che va nel senso, come si è visto, di un rapporto di fondazione, e non di opposizione o alternativa, fra i «due mondi»” (173).
Note:
[1] Al contrario, Aristotele rovescerà questo modo di pensare, dando la priorità al soggetto, alla sostanza individuale, l’unica che realmente è, mente predicati e idee esistono solo come qualità della sostanza.
[2] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 152. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera indicando in parentesi tonde il numero della pagina. Sempre fra parentesi tonde indicheremo le pagine delle opere di Platone che citeremo.