La comunità, la morte, l’occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra” [1991], di Domenico Losurdo [1], resta un essenziale studio per comprendere la filosofia tedesca reazionaria fra la Prima e la Seconda guerra mondiale e, in particolare, la filosofia del più grande pensatore reazionario del tempo: M. Heidegger. Il libro è di importanza essenziale per comprendere le implicazioni politiche della filosofia di tali pensatori reazionari e, in particolare, di Heidegger, generalmente occultate dagli studiosi della (a)-sinistra, per giustificare la loro infatuazione per intellettuali decisamente reazionari, quando non a destra del nazionalsocialismo, come nel caso di Heidegger e C. Schmitt. Presentiamo, perciò, i temi fondamentali di quest’opera per stimolarne la lettura, per ricordare il suo grande autore a poco più di un anno dalla sua morte e per presentare il corso con cui riprenderà l’anno accademico dell’Università popolare Antonio Gramsci, il 4 settembre, dal titolo: “La distruzione della ragione” a cura dell’autore di questa recensione.
1. Una guerra “grande e meravigliosa”
1.1. La comunità e il “socialismo di guerra”
Lo scoppio della Prima guerra mondiale viene sfruttato dalla maggioranza degli intellettuali europei borghesi come una crisi irreversibile del materialismo storico. La grande diffusione dello spirito patriottico, che aveva finito per travolgere la stessa II Internazionale, è sfruttata dagli ideologi della classe dominante per sostenere che la guerra non può essere interpretata dal punto di vista economico e materiale, secondo le categorie del marxismo, ma piuttosto – come faranno la maggioranza degli intellettuali tradizionali – come uno scontro tra contrapposti ideali e visioni del mondo, un vera e propria guerra di civiltà (3).
Anche per Max Weber, per citare uno degli intellettuali borghesi più equilibrato e meno sciovinista, non si poteva ridurre la guerra alle cause economiche e sociali o alla politica di potenza; ben altri valori erano in gioco in una guerra che il grande sociologo non esitava a definire “grande e meravigliosa”. Weber pone in particolare l’accento sull’esperienza straordinaria che aveva coinvolto l’intera nazione tedesca e la avrebbe rifondata in una sorta di collettivo corpo mistico (4). D’altra parte, con una sola eccezione, anche i socialdemocratici avevano votato i crediti di guerra. Stessi accenti fondamentalmente mistici e incentrati sul pathos della comunità nazionale quale totalità, che ricomprendeva compiutamente in sé le proprie parti, li troviamo anche in pensatori generalmente pacati ed equilibrati come E. Husserl. Del resto, in questo drammatico frangente storico, temi analoghi tendono a diffondersi anche fra gli intellettuali borghesi di altri paesi, non a caso quasi tutti interventisti (5).
Dunque, la guerra era presentata dagli intellettuali borghesi come trionfo della comunità nazionale e dei valori spirituali peculiari del proprio paese di contro al materialismo storico. Proprio questi sono gli elementi caratteristici di quella che T. Mann definirà Kriegsideologie, ovvero ideologia della guerra. Mann in Considerazioni di un impolitico contrapporrà la comunità (Gemeinschaft) nazionale alla “idea di società (Gesellschaft)” del marxismo. Tale contrapposizione avrà grande successo, e diversi intellettuali identificheranno la Germania come la vera comunità, contro le società dei suoi nemici. (6)
Il trionfo della comunità viene così presentato dall’ideologia dominante come il definitivo tramonto non solo del marxismo, ma anche delle idee del 1789, cui ora vengono contrapposte quelle del 1914. La guerra totale richiede Stati totalitari che vengono presentati dagli intellettuali tradizionali come socialismo di Stato o nazionale, secondo il mito lassalliano, che sembra dover trionfare non solo sul socialismo marxista, ma anche su liberalismo e democrazia (6-7).
1.2. La “ideologia della guerra” fuori della Germania
Tale ideologia si afferma anche negli altri paesi belligeranti, a cominciare da Francia, Inghilterra e Italia. La mobilitazione totale, in effetti, favorisce il ricorso a un’ideologia comunitarista, in grado di esigere o di giustificare il sacrificio incondizionato di milioni di vite umane. Così anche B. Croce non è immune dalla Kriegsideologie – anche se il tema è molto più presente in G. Gentile – al punto da esaltare la guerra come fusione degli individui nel tutto e dall’accusare di pacifismo i socialisti, rimasti estranei al tripudio per la presa di Gorizia. Certo, la sua formazione idealistica lo immunizza dall’ideologia del sangue e del suolo, dalla tendenza a naturalizzare la storia, anche se A. Gramsci lo accusa nel 1916 di avere un’idea territoriale della patria (7-10).
1.3. Guerra e meditatio mortis
Soprattutto in Germania, oltre alla celebrazione della volontà di potenza e all’affermazione dell’onore e dell’autonomia nazionale, è presente un altro tema essenziale: la trasfigurazione in chiave spiritualistica della guerra – quasi si trattasse di un esercizio spirituale – e della vicinanza alla morte (il campo di battaglia come luogo privilegiato per cogliere il senso autentico della vita) vista in contrapposizione alla banalità e povertà spirituale della vita quotidiana. Tale tema è presente persino in Weber, che insiste sull’efficacia formativa e pedagogica della vicinanza con la morte, che sembra parte integrante di un’autentica Bildung. Queste tematiche sono del resto testimoniate anche in Husserl (novembre 1917), in Simmel (la guerra come situazione assoluta) in Scheler (10-13) e non ne è immune neanche Freud, che per quanto distante dalla Kriegsideologie, loda la guerra come il momento della distruzione dell’ artificioso e del ritorno all’autentico (la guerra, quindi, esaltata come un’esperienza autenticamente erotica), e Wittgenstein che, partito volontario sostiene che la morte svolga una funzione purificatrice e pedagogica.
Il tema della guerra come elemento della formazione si trova anche in T. Mann, accanto al tema della simpatia per la morte, considerata come l’essenza del romanticismo e un qualcosa di estraneo alla Zivilisation occidentale fondata sulla fede nel progresso, sulla ragione, sulla felicità e sulla rimozione del negativo dall’esistenza. Si tratta di un tema presente anche negli altri autori sopracitati, mediante cui si finisce per contrapporre la Germania al materialismo e al naturalismo, alla superficialità priva di profondità spirituale, metafisica e religiosa dei suoi nemici. Ad esempio Sombart contrappone gli “eroi” tedeschi ai “mercanti” soprattutto inglesi, anche se il tema è, comunque, presente anche se in forma rovesciata fra gli intellettuali borghesi dell’Intesa. Tuttavia anche fra gli intellettuali borghesi c’è chi ne resta immune: quasi subito Wittgenstein e immediatamente E. Bloch e Lukács che, riprendendo una formula di Fichte, bolla la guerra come l’epoca della “compiuta peccaminosità”, sebbene anche tale antitesi sia formulata in un linguaggio spiritualistico (14-16).
1.4. Il sacrificio, la morte e la Gemeinschaft
La morte come sacrificio, come rito sacro la cui partecipazione è indispensabile per far parte di un’autentica comunità, è un altro tema chiave della ideologia della guerra presente in modo esemplare E. Jünger, per cui l’autentica comunità è tenuta a battesimo dal sangue versato in guerra. Naturale la ripresa di questi temi da parte del nazismo, la cui conquista al potere è vissuta da non pochi come riedizione dell’esperienza comunitaria del ’14 (si rivive il rifiuto del marxismo, del volgare materialismo positivista e della razionalità), In tal modo la “comunità del popolo” si identifica ormai, scansata ogni ambiguità e possibile equivoco, con il cameratismo (16-20).
1.5. La fine della sicurezza borghese
Gli ideologi della guerra tedeschi contrappongono la comunità alla società, considerata come incentrata sulla banale ricerca della sicurezza e della tranquillità propria del mondo borghese. Tale tema si lega alla condanna dello “stato ombrello” (il sedicente Stato sociale) che pretenderebbe bandire il terribile dalla vita. Si esalta perciò il guerriero di contro al bottegaio, tema presente tra gli altri in Jünger, che arriva ad asserire che sia meglio essere criminale piuttosto che borghese e in O. Spengler, per essere anch’esso ereditato dal nazismo. Al contrario T. Mann prenderà le distanze dalla Kriegsideologie durante l’epoca della Repubblica di Weimar, sino a criticare la retorica irrazionalistica del vitalismo, la corrente principale della filosofia tedesca, che farà da trait d’union fra l’ideologia della guerra e il nazionalsocialismo (20-21).
1.6. Obbedire al destino
Altro tema dell’ideologia della guerra è la contrapposizione fra il destino (Schicksal) – che non si lascia definire, che può essere solo vissuto ed è inaccessibile all’indagine scientifica – e la razionalità (fondata sulla causalità, sul pensiero meccanico e calcolante). In tal modo si intendeva mettere in contrasto due opposte visioni del mondo, quella tedesca e quella francese. Tale tema è presente soprattutto in Spengler (che considera il destino come sinonimo della visione tragica della vita contrapponendolo alla Zivilisation, che ha fatto prevalere la città sulla campagna, perdendo il contatto con il suolo e divenendo priva di radici), ma lo si ritrova anche in T. Mann, Weber, Sombart e Jünger. Anche questo tema verrà ereditato dal nazismo che ne fornirà la versione più brutale (21-23).
2. La guerra, la comunità e la morte: Jaspers e Heidegger
2.1. Jaspers e la Kriegsideologie
Ben presenti anche in K. Jaspers, negli scritti degli anni ‘20 e ’30, sono i grandi temi della Kriegsideologie, in particolare vi ritroviamo: la celebrazione del cameratismo, la fedeltà alle origini e alla propria comunità (contrapposta alla società), il destino, la celebrazione della storicità di una nazione che è sempre concreta e relativa a un popolo determinato ed esclude l’universalità dei valori (ovviamente l’obiettivo polemico è la rivoluzione francese, che avrebbe condotto alla rovina dell’autentica comunità, sostituita da un’astorica comunanza del destino. Da questo punto di vista la critica di Jaspers si estende ovviamente all’Internazionalismo, ma anche all’internazionale cattolica e al cristianesimo per il suo universalismo. Allo stesso modo Jaspers critica il pacifismo contrapponendovi la celebrazione della lotta, del duello e della guerra per la conquista dell’autenticità (24-28).
2.2. Jaspers e l’avvento del nazismo
In Jaspers i temi della Kriegsideologie non sono rivolti soltanto a contrastare i nemici della Germania, ma a criticare la stessa liberal-democrazia della Repubblica di Weimar. Jaspers, tuttavia, a differenza di altre autori come lui sostenitori della ideologia della guerra, non aderirà al nazismo. D’altra parte il suo postumo tentativo di retrodatare l’inizio della sua opposizione al regime già all’epoca dell’avvento di Hitler al potere è, quantomeno, maldestro, come appare evidente dall’analisi di Losurdo di alcuni suoi saggi del ’32 e del ’33, in cui ad esempio approverà il discorso rettorale di Heidegger, di piena adesione al nazismo, perciò criticato, ad esempio, da Croce e da Marcuse. Così Jasper sembra condividere la prospettiva di Heidegger cje vedeva nel nazismo la forza in grado tradurre nella realtà il pensiero (ultra-reazionario) di Nietzsche (28-33).
2.3. Jaspers e la comunità del suolo
Tuttavia anche i testi posteriori al ’34 non sono esenti da ambiguità. Torna ad esempio il tema della comunità del suolo, transitato dall’ideologia della guerra al nazionalsocialismo, anche che non è presente il tema del sangue e, più in generale, tematiche razziste, dal momento che Jaspers è sposato a una ebrea. Più in generale la questione è che, essendo Jasper legato ai motivi della Kriegsideologie, non può procedere a una rottura con il Terzo reich che tale ideologia aveva ereditato.
Note:
[1] Per comodità del lettore ci limiteremo a rinviare alle pagine dell’opera di Losurdo indicandone il numero direttamente nel testo fra parentesi tonde.