Segue da Le contraddizioni ideologiche del Terzo Reich
6.3. L’imperium, il Reich e la grecità originaria
Rispetto agli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale, nella valutazione heideggeriana del pensiero di Nietzsche tende ad ampliarsi la distanza che separa tale pensatore dal nuovo autentico inizio (quale ritorno alla grecità originaria) e più problematico diviene il percorso che deve condurre al superamento del nichilismo. Nelle fasi iniziali della guerra, sia il pensiero di Nietzsche che le trionfali vittorie della Germania nazista, all’insegna della volontà di potenza, sono interpretate da Heidegger come fine e nuovo cominciamento che è, a sua volta, il primo passo verso l’autentico nuovo inizio, da intendersi come nuovo inizio greco-tedesco. In seguito, già al culmine dell’affermazione del Terzo Reich Heidegger inizia ad assimilarlo – insieme alla volontà di potenza di Nietzsche – con la romanità, considerata quale sinonimo di impero. Gli studiosi – che hanno interpretato il pensiero di Heidegger come critico, dopo un iniziale entusiasmo, del nazismo – hanno visto in questa assimilazione del nazismo all’imperialismo romano una rottura con Hitler. Mentre quest’ultimo amava atteggiarsi a imperatore romano, Heidegger vede nell’impero romano un momento di decadenza rispetto alla grecità. Ma non bisogna confondere questo progressivo mutamento del giudizio di Heidegger nei confronti del nazismo con una presunta rottura con il regime (che, del resto, come è noto, non ci sarà mai). In realtà, come mostra Losurdo, anche gli ideologi nazisti (Baeumler, Böhm, Heyse) esprimono un giudizio egualmente negativo sulla romanità. Persino il più importante giurista del nazionalsocialismo: C. Schmitt contrappone l’Imperium romano al Reich tedesco, in quanto il primo avrebbe la tendenza universalista a riconoscere anche agli stranieri la cittadinanza e a considerare ogni individuo una persona giuridica, mentre il secondo avrebbe un fondamento etnico. Del resto il tema della grecità contrapposta alla romanità di Heidegger non è altro che un ennesimo debito del suo pensiero nei riguardi della ideologia della guerra (146-50) [1].
6.4. Heidegger e Spengler: cultura e civilizzazione
Anche per O. Spengler, alle soglie della Prima guerra mondiale, la cultura (Kultur) è rappresentata dalla Grecia, mentre la civilizzazione (Zivilisation) da Roma ed egli naturalmente è a favorevole dell’opzione greca. Tuttavia, sul piano politico concreto, nel corso della guerra, si schiera con la civilizzazione, ora sinonimo d’imperialismo, al quale non vede alternative se veramente si vuole vincere la guerra. Stessa posizione assume Heidegger nel 1939-40 – anche se prende più sul serio la possibilità di realizzazione dell’opzione greca rispetto a Spengler. L’imperialismo alias la romanità nel conflitto mondiale è certamente la posizione più funzionale al regime, anche perché la civilizzazione esclude l’ideologia della terra e del suolo e le vittorie del Terzo Reich possono essere ancora considerate da Heidegger come premessa per un nuovo inizio, ossia la ripresa dell’autentica grecità. D’altra parte prendendo troppo sul serio l’opzione ultrareazionaria greca, Heidegger non riesce a identificarsi del tutto, a differenza del più realista Spengler con l’opzione romana-imperialista e, quindi, con le folgoranti vittorie del Terzo Reich. Del resto, svanita l’illusione della guerra lampo, è sempre più evidente, nel corso degli ultimi anni di guerra, l’insofferenza di Heidegger nei confronti dell’accentuarsi del biologismo razzista, che rende impossibile interpretare la Germania quale erede della Grecia, anche se fino all’ultimo il pensatore si identificherà con le sorti della patria in guerra (150-55).
6.5. Difesa della storicità e reinterpretazione della guerra
Dopo la svolta nella guerra costituita dalla battaglia di Stalingrado, la Germania nazista non è più agli occhi di Heidegger la rappresentante del nichilismo attivo, ma viene trasfigurata nel paese che combatte e si sacrifica per la verità dell’essere (la Germania rappresenta la Grecia alle Termopili che lotta in difesa della civiltà, mentre l’Urss rappresenterebbe la Persia, ovvero la barbarie) (158). “Il tema dell’esistenza autentica e decisa, che non conosce la paura e sa prendere consapevolezza di sé come essere-per-la-morte, questo tema che Essere e tempo, riprendeva… dalla Kriegsideologie, nella fase finale del secondo conflitto… si configura come ‘disponibilità alla morte’, in nome della ‘verità dell’essere’ e del rifiuto, sino all’estremo, della modernità” (160).
6.6. La Germania, “la colpa” e il bilancio planetario della volontà di potenza
Dopo la disfatta della Germania, Heidegger aggiusta il tiro: la guerra e la volontà di potenza sono esse stesse sinonimo di massificazione tecnica, caratteristica peculiare dell’aborrito mondo moderno. Ciò consente a Heidegger di mettere – in linea con la nuova ideologia reazionaria che si affermerà nei paesi imperialisti – sullo stesso piano Nietzsche e Marx, nazismo e comunismo, tutte espressione del nichilismo estremo, che ora Heidegger non esalta più. Del resto, nella nuova fase che si è aperta, come Schmitt anche Heidegger si vede costretto a cercare di giustificarsi nel dibattito sulla colpa. Mentre dopo la Prima guerra mondiale questo tema aveva avuto poco spazio, al contrario ampio rilievo assume nel secondo dopo guerra: T. Mann, K. Jaspers e H. Marcuse sostengono in pieno la tesi della colpa della Germania, mentre Heidegger risponde cercando di porre sullo stesso piano la colpa della shoah con quella della meccanizzazione dell’agricoltura in Urss, aspetti assimilabili di un’unica catastrofe planetaria all’insegna della volontà di potenza, quale culmine del mondo moderno (160-66).
6.7. Heidegger, Junger, Schmitt
Heidegger, Junger e Schmitt sono stati favorevoli tanto al crollo della Repubblica di Weimar, quanto all’avvento del nazismo, hanno partecipato nel 1933 alla furibonda polemica contro democrazia, socialismo e rivoluzione, infine, anche se in modi diversi, alla fine della guerra hanno tentato di riassorbire la critica al nazismo in un bilancio storico più vasto, che mette sotto accusa soprattutto la tradizione politica rivoluzionaria. È proprio in questo contesto che va collocata la storiografia revisionista dei nostri giorni, non a caso lo storico Ernst Nolte, discepolo di Heidegger, mette i crimini del nazismo e, persino, la shoah sul conto della barbarie asiatica, ovvero della Rivoluzione d’ottobre. A questo punto appare chiaro che l’occidente, quello autentico, non contaminato da influenze asiatiche, può riconquistare la sua buona coscienza. Sul finire della Prima guerra mondiale aveva conosciuto enorme fortuna il tema del tramonto dell’occidente; il tramonto dell’occidente si rovescia ora nella sua finale e accecante trasfigurazione (170).
7. Heidegger, la seconda guerra dei trent’anni e la critica alla modernità
7.1. Un filosofo impolitico?
Losurdo dimostra tutta la debolezza delle interpretazioni che hanno preteso di espungere dal pensiero del filosofo il rapporto con il nazionalsocialismo, fornendo una del tutto improbabile lettura dell’opera di Heidegger come se si trattasse di una filosofia impolitica (172-8).
7.2. Due contrapposte critiche alla modernità
AL contrario, non si può certo considerare impolitico un pensatore che sin dalle sue prime opere è costantemente impegnato a denunciare la modernità. La critica della modernità è portata avanti nel modo più conseguente da Heidegger da una prospettiva reazionaria, in senso opposto, quindi, alla critica di un Rosenzweig (178-181).
7.3. Horkheimer, Adorno e la dialettica dell’Illuminismo
Nonostante in Horkheimer e Adorno è presente una critica alla modernità, questa non è assimilabile, (nonostante alcune contraddizioni), a quella di Heidegger. Innanzitutto non c’è la tesi della parabola rovinosa dell’occidente a partire da Platone e la liquidazione dell’Illuminismo. Quella condotta dalla Dialettica dell’illuminismo andrebbe piuttosto considerata, secondo Losurdo, come un’auto-critica che intende criticare gli aspetti regressivi dell’illuminismo, assimilabile all’autocritica che hanno mosso Las Casas e Marx alla loro civiltà. In Heidegger, invece, il tema della crisi dell’occidente non diventa mai occasione per un’autocritica della violenza dell’occidente e del dominio che ha imposto agli altri continenti. In conclusione occorre, quindi, sottolineare come la modernità può essere criticata in modo progressista o in modo reazionario, come fa esemplarmente Heidegger (181-86).
7.4. Husserl, la modernità e l’Illuminismo
La condanna dell’obiettivismo moderno non comporta mai in Husserl, che in ciò si differenzia da Heidegger, la condanna della modernità politica dell’illuminismo. Anche l’interpretazione della grecità e della storicità da parte di Husserl, sono sostanzialmente distanti da quella di Heidegger (186-88).
7.5. Heidegger, Croce, Gentile e il liberalismo
In Croce e Gentile non è presente la critica radicale al mondo post-ellenico che in Heidegger coinvolge millenni di storia. I filosofi italiani, su posizioni più moderate, cercano in modi diversi di salvare il liberalismo (189-90).
7.6. Tradizione liberale e critica della modernità
Di contro allo schema neoliberale che pretende contrapporre occidente liberale e democratico da una parte e Germania, con la sua critica alla modernità dall’altra – mettendo sullo stesso piano autori diversi quali Heidegger, Husserl, Lukács, Horkheimer e Adorno – Losurdo mette in luce il legame tra la critica alla modernità e la tradizione liberale (citando, in particolare, Burke, Hayek, Gadamer e Leo Strauss) (190-95).
7.7. Antimodernismo radicale e inattualità: Nietzsche e Heidegger
La denuncia della modernità politica non si ferma in Heidegger alla democrazia e al socialismo, ma investe anche la tradizione liberale. Questa denuncia non è un’inerte nostalgia, ma mira in avanti. L’ultima tappa dell’evoluzione di Heidegger denuncia sotto la categoria della modernità anche Nietzsche e, dopo il crollo, il Terzo Reich. L’incontro con il nazismo non va, dunque, considerato come un qualcosa di accidentale, anche se era destinato a incrinarsi a causa del radicalismo estremo dell’antimodernismo di Heidegger che, come quello di Nietzsche, va considerato un sorta di radicalismo aristocratico. Questa inattualità rispetto all’evoluzione politica reale, porta facilmente a un rilettura dei due filosofi, pur se chiaramente schierati a destra, in senso impolitico. Sorvolando, ad esempio, rispetto a Nietzsche, sul fatto che insiste sempre sulla tesi che non potrebbe esserci civiltà senza schiavitù, in quanto solo la classe dominante deve essere libera dalla divisione del lavoro. Basta omettere la evidente connotazione di classe della posizione di Nietzsche per mistificane il pensiero facendolo apparire un teorico dell’emancipazione. Discorso analogo vale per la critica del cristianesimo, denunciato da Nietzsche come origine della rivolta degli schiavi, della democrazia e del socialismo. Basta omettere che Nietzsche ritiene, comunque, indispensabile il cristianesimo per tenere a bada gli schiavi e lo si può trasfigurare in un sorta di illuminista. In tal modo il pensiero di Nietzsche viene a tal punto mistificato, da poterlo presentare come il filosofo critico dei falsi universali, demistificatore di ogni filosofia della storia, profeta del postmoderno tollerante e, persino, liberale.
Discorso analogo vale per la mistificazione del pensiero di Heidegger, il quale addirittura finisce con il criticare il nazismo perché troppo intriso di modernità: la sua conclamata inattualità diventa sinonimo di atteggiamento impolitico. A questo punto diviene facile considerare l’incontro con il nazismo come un incidente di percorso. La sua critica alla modernità viene limitata alla critica del pensiero calcolante e si tace sul fatto che pone quale alternativa la volontà di potenza. A questo punto anche Heidegger può assurgere a profeta del postmoderno e dell’ecologia, del rispetto delle differenze nella realtà naturale e umana (anche se si sorvola sul fatto che la categoria di differenza viene usata da Heidegger come sinonimo di lotta e di antagonismo). In generale si tende a salvare i filosofi dall’accusa di fascismo sostenendo che cultura e fascismo sono termini contraddittori, in quanto chi uccide non pensa (196-202).
7.8. Heidegger e il suo tempo
Della generazione degli intellettuali che aderiscono alla ideologia della guerra, alcuni riescono a staccarsene e a criticarla, come ad esempio T. Mann, altri non varcheranno la soglia dell’adesione al nazismo, come Jaspers, diversamente Heidegger resterà legato alla Germania nazista fino al suo crollo, anche se in modo tormentato e contraddittorio e in una incessante reinterpretazione soggettiva di tale rapporto (202-03).
Note:
[1] I numeri fra parentesi tonde si riferiscono alle pagine del testo qui recensito: La comunità, la morte, l’occidente. Heidegger e l’“ideologia della guerra”, di Domenico Losurdo, Bollati Boringhieri, Torino 1991.