The Loudest Voice – Sesso e potere è una miniserie televisiva americana in sette puntate del 2019, tratta dall'omonimo romanzo di Gabriel Sherman. È stata trasmessa su Sky Atlantic, voto: 9+; molto efficace rappresentazione della nascita di Fox tv, il programma di notizie apertamente schierato a destra che ha spianato la strada al trumpismo. La rappresentazione sembra improntata al massimo realismo, anche se, riflettendoci sopra, il protagonista – non utilizzando l’attore che lo interpreta l’effetto di straniamento – pare un vero e proprio gigante del male, con il quale, nonostante tutto, lo spettatore è portato a identificarsi. Anche perché tutti gli altri personaggi appaiono dinanzi a lui delle figure di secondo piano, incapaci di tenere minimamente testa al protagonista, che fra tanti nani non può che apparire, appunto, un gigante. Inoltre la completa mancanza di un qualunque personaggio anche minimamente positivo indica la mancanza di prospettiva e la consueta assenza di un minimo di spirito dell’utopia e di principio speranza.
Il secondo episodio rappresenta, come avviene generalmente, un deciso arretramento rispetto all’episodio pilota su cui si impegnano molto più tempo e risorse. In particolare, la prima parte della puntata dedicata agli attentati dell’11 settembre lascia davvero a desiderare. Del resto, si tratta di un momento davvero tabù della storia statunitense, sul quale nemmeno Oliver Stone è riuscito a introdurre un minimo di sguardo critico. Decisamente più interessante la seconda parte dell’episodio, in cui emerge la fabbrica del falso e di Fake news che, in diretta collaborazione con Dick Cheney, sfrutta gli attentati per l’aggressione imperialista all’Iraq, pur essendo tutti pienamente consapevoli che non solo non esisteva alcuna connessione fra Al Qaeda e Saddam Hussein, ma che non vi era nessuna traccia di armi di distruzione di massa in quel paese.
Con il terzo episodio la serie riprende quota, anche perché emerge così evidentemente la spaventosa malvagità del protagonista che diviene davvero difficile riuscire a impersonarsi con lui. Ciò che colpisce è come un personaggio del genere abbia potuto influire in maniera determinante sull’ideologia dominante. Qualche segnale giunge dalla situazione disperata e disperante della ex classe operaia statunitense che – dopo aver per anni potuto giovarsi, in quanto aristocrazia operaia, dei sovrapprofitti conquistati all’estero dall’imperialismo – ora in tempi di crisi non solo deve rinunziare ai suoi miserabili privilegi, ma spesso perde la possibilità stessa di farsi sfruttare per sopravvivere. Dinanzi a questa cieca disperazione riescono a fare breccia il populismo e la demagogia della destra più estrema, di contro all’ennesimo tradimento delle aspettativa popolari da parte dei politicanti sedicenti di sinistra.
Con il quarto episodio, la serie sale ancora più di livello e diviene una netta e coraggiosa denuncia di una televisione e, in particolare, del suo principale dirigente, che hanno fatto di tutto per imbarbarire ulteriormente l’ideologia politica del paese. Il film mostra adeguatamente anche come le malefatte sul piano della scena pubblica abbiano poi serie conseguenze anche nella vita privata, cioè chi teorizza la superiorità della volontà di potenza sulla verità tende a mettere in pratica tale principio anche nella vita quotidiana.
La quinta puntata cresce ancora nella denuncia delle malefatte dell’architetto della Fox News e della candidatura di Trump. Si intravede anche, finalmente, una prospettiva nell’intrepido giornalista intento a scrivere un libro verità su questa televisione che ha contribuito a cambiare non solo l’ideologia dominante, ma a sdoganare gli aspetti più irrazionali dei propri ceti sociali di riferimento. Resta il dubbio che, al solito, si tende a dare uno spazio troppo ampio all’individuo, senza considerare in nessun modo i motivi strutturali che vi sono dietro e che costituiscono il reale fondamento di quanto avviene.
Di grande interesse anche la sesta puntata, realizzata peraltro da un importante regista come Stephen Frears. Abbiamo finalmente una vittima che si ribella, che non diviene, in qualche modo, complice del suo aguzzino. Finalmente appare la possibilità di un’alternativa, anche il potere apparentemente più ferreo può essere piegato. Certo c’è bisogno che qualcuno, coraggiosamente, dia il via, assumendosene stoicamente le conseguenze. Per quanto essenziale il coraggio del singolo non è però sufficiente a cambiare realmente le cose, vi sarà bisogno di un movimento di massa reale che, nel caso specifico, prenderà il nome di Me too.
Nell’ultima puntata, diretta anch’essa da un valido regista, si arriva alla resa dei conti finale, le dighe poste a difesa del predatore sessuale crollano nel momento in cui molte delle donne molestate e stuprate da decenni trovano il coraggio di denunciarlo. Questa reazione a catena sarà seguita, circa un anno più tardi, dal grande movimento: Me too. Sicuramente l’oppressione della donna ha subito una parziale battuta d’arresto ma, d’altronde, se non si abbatte la sua causa reale – un sistema classista fondato sullo sfruttamento come il capitalismo – anche questa forma di oppressione, per quanto arcaica, non cesserà. Tanto più che Trump, nonostante si fosse da par suo schierato spudoratamente dalla parte del predatore sessuale, vincerà le elezioni e la Fox, divenuta sotto la direzione del predatore sessuale per 14 anni di fila la più importante rete di news cablata, ha mantenuto tale primato anche dopo lo scandalo. A ulteriore dimostrazione che se non si sconfiggeranno i modi di produzione classisti che si fondano sullo sfruttamento dell’uomo le lotte parziali di un certo settore vessato non potranno mai portare a una reale e definitiva emancipazione. Naturalmente, tutte queste considerazione conclusive non sono neanche sfiorate dalla serie.
Snowpiercer seconda serie in 8 episodi, voto: 8,5; il primo, L’epoca dei due motori, riapre il conflitto di classe non più interno – in quanto i rivoluzionari hanno conquistato il potere – ma rivolto all’esterno, dove ancora domina l’autocrazia del grande capitale. Quest’ultimo, in effetti, per conservare il proprio dominio ha la necessità di mantenere il controllo sui tecnici-intellettuali. Questi ultimi, però, sono ancora fortemente influenzati dal processo rivoluzionario e fanno in modo che i due mondi contrapposti debbano rimanere uniti per poter sopravvivere. Inizia dunque la guerra fredda, una lunga guerra di posizione, quando i due campi si rendono conto che il tentativo di risolvere il conflitto con una guerra lampo di movimento non ha possibilità di aver successo. La nuova situazione di guerra di logoramento mette subito in seria difficoltà il campo rivoluzionario, in quanto la tanto agognata democrazia non può affermarsi, poiché lo stato di guerra impone il mantenimento dello stato di emergenza e, di conseguenza, la legge marziale. Inoltre le differenze di classe in teoria sparite, rischiano di riprodursi con il leader della rivoluzione che è convinto dall’intellettuale tradizionale e dalla compagna a installarsi in prima classe, per poter meglio gestire il processo rivoluzionario. Inoltre, l’intellettuale tradizionale, da sempre controrivoluzionario, ha facile gioco nel convincere le masse – estenuate dopo il massacrante conflitto di classe, che sia necessario un compromesso e che il padrone non sarà poi così cattivo. Inoltre vi è il sottoproletariato, anarcoide ed estremista, che cade facilmente nell’inganno del campo nemico che, per meglio fare breccia, vi comincia a diffondere il cancro della droga.
Una fiamma pronta a divampare, secondo episodio della seconda serie di Snowpiercer, si mantiene all’altezza delle aspettative. Emerge la necessità di superare la lotta di classe a livello internazionale, fra le due parti del treno, metafore del sistema capitalista e del sistema socialista, per preservare la vita sulla terra dalla catastrofe ambientale, in modo da poter uscire dallo stato d’eccezione reso permanente, indispensabile al dominio sempre più irrazionale e ingiusto del capitale. Come si vede chiaramente la politica di distensione viene sfruttata dal capitale, per cercare di colpire al cuore il socialismo. Tanto più che l’universo socialista è infiltrato da fascisti volti a terrorizzare le classi popolari. Inoltre è ancora forte la capacità di egemonia del grande capitale non solo sui residui dell’alta borghesia, ma anche della media e piccola borghesia all’interno del mondo socialista. Un ruolo importante è svolto dagli intellettuali scienziati che si illudono idealisticamente che sia possibile superare le divisioni di classe sulla base del bene comune.
Una grande odissea, terzo episodio della seconda serie di Snowpiercer, si conferma all’altezza di questa eccellente serie. In particolare emerge la contraddizione fra i settori più radicali e disposti al sacrificio del fronte rivoluzionario e i tecnici-intellettuali con i quali è necessario stabilire un’alleanza sebbene siano residui della vecchia classe dominante. Ciò significherà mantenerli in alcuni vitali posti direttivi, consentirgli di mantenere parte dei loro privilegi e scendere a patti con le loro posizioni necessariamente più moderate e portate al compromesso con gli intellettuali del fronte nemico. Il problema è che una volta sacrificata l’avanguardia al necessario compromesso con i tecnici-intellettuali, mancherà la spinta propulsiva rivoluzionaria ed emergeranno sempre di più opportunisti e potenziali quinte colonne del nemico nel proprio campo.
Un solo scambio, quarto episodio alquanto interlocutorio, è costruito quasi esclusivamente sul rapporto fra il padrone, che vorrebbe ristabilire il suo potere autocratico sul treno, e la sua ex, in realtà una escort di lusso. Come di consueto il padrone vorrebbe semplicemente rientrare nel pieno possesso della sua “proprietà”, tanto che intenderebbe costringerla al suicidio dietro suo ordine, come aveva fatto con un altro suo sottoposto. Per il resto permane una tesissima coesistenza pacifica fra i due campi, in attesa che lo schieramento imperialista rompa la tregua e cerchi di reimporre il proprio dominio autocratico sull’intero treno, sfruttando le contraddizioni di classe presenti all’interno del campo postrivoluzionario.
Tenere viva la speranza, quinto episodio, recupera anche quanto era andato perduto nei momenti precedenti, ossia la necessità di una speranza palingenetica per tenere insieme gli oppressi nella seconda fase del processo rivoluzionario, quella più complessa in cui occorre mantenere il potere nella lotta con l’imperialismo sul piano universale. D’altra parte emerge l’altra faccia, altrettanto necessaria, ma impronunciabile del terrore indispensabile a eliminare quella quinta colonna interna, mediante cui il giovane processo rivoluzionario può essere facilmente rovesciato. Si tratta di spazzare via – innanzitutto – il nemico interno, fascisti e malavita organizzata: non vi sono alternative. Si tratta allo stesso modo di infiltrare il fronte nemico, in modo di aprire le contraddizione anche dall’altra parte della barricata. C’è bisogno dei più decisi rivoluzionari che siano pronti a sacrificarsi per poter conoscere i piani del nemico. Infine è necessario saper sfruttare al servizio della rivoluzione anche personaggi infidi, ma necessari, come il sottoproletario o l’intellettuale tradizionale ultraconservatore.
Lontano dallo Snowpiercer, sesto episodio della serie, è incentrato interamente su un detour sullo scienziato che tenta da solo l’impresa di individuare una possibile ripresa del pianeta Terra dopo la catastrofe. Naturalmente, in tal modo, resta escluso l’aspetto fondamentale della lotta di classe che qui si riduce alla lotta fra il padrone e il suo ingegnere che, in modo alquanto inverosimile, prende il potere in nome del bene dell’umanità e contro le attitudini autocratiche del capitalista. Ciò non impedirà che, sotto il domino dei tecnici, non si imponga egualmente un regime classista e autoritario, tanto più che per mantenere la direzione i tecnici affermeranno di agire sempre alle dipendenze del “legittimo” padrone.
La nostra risposta a ogni problema, settimo episodio che ci riporta in medias res. L’apparente terrore si rivela ben presto essere frutto di una sorta di strategia della tensione, che vede a capo non a caso il prete e residui della prima classe, per scatenare i ceti medi contro i proletari e chiedere un governo autoritario, ovvero la restaurazione neoliberista dell’autocrazia del grande capitale. I proletari si ritrovano privi di una vera guida, anche perché avevano come leader un ex poliziotto, e non sembrano in grado di reagire. La situazione si fa estremamente difficile, anche se le forze rivoluzionarie cominciano ad avere infiltrati in posizioni significative nel campo nemico e sono, comunque, riusciti a scoprire la rete che ha ideato e praticato la strategia della tensione. A questo punto tutto dipenderà dalla capacità dei due blocchi sociali opposti e inconciliabili di avere l’egemonia sui ceti intermedi.
L’eterno architetto, ottavo episodio all’altezza dei migliori, torna a essere un’ottima metafora della lotta di classe. Le forze rivoluzionarie non volendo e forse non potendo instaurare una reale dittatura di classe, lasciano scoperto il fianco al contrattacco delle forze della reazione, che sabotano con la violenza il tentativo di costruire un mondo che mira a superare il classismo. Al contempo si afferma egemonicamente la controrivoluzione, in quanto chi fa per primo la rivoluzione, deve subire i costanti attacchi delle forze rivoluzionarie e, quindi, nell’immediato le cose sembrano andare peggio, soprattutto per chi ha perso i propri piccoli privilegi di classe e vuole tornare a essere alleato in funzione subordinata alla grande borghesia. In tutto ciò gioca un ruolo importante il fatto che il proletariato non appare in grado di autogestire il nuovo mondo e riemerge la superiorità nelle competenze tecnico-scientifiche della vecchia classe dirigente.
Lo spettacolo deve continuare, nono episodio della serie in cui emerge nel modo più realistico il terribile terrore bianco della controrivoluzione. Domina di nuovo il servilismo, il classismo, l’autocrazia e il rapporto servo-padrone. Il sistema sempre più irrazionale e arbitrario deve impedire che si affermi il principio speranza e lo spirito dell’utopia e – a questo scopo – sfrutta nel modo migliore il disastro climatico, da lui stesso prodotto, sabotando ogni tentativo di porvi rimedio. Un assetto sociale così regressivo può mantenersi in piedi solo grazie a uno stato di eccezione che è reso permanente.
Nelle terre ghiacciate, decimo e ultimo episodio, come quasi sempre alquanto deludente. Le forze rivoluzionarie riassumono la capacità di reagire, quando scoprono che il principio speranza in un mondo migliore è ancora vivo. Nasce così la volontà di riscatto e la determinazione a utilizzare qualsiasi mezzo necessario, anche la violenza, perché il sistema dominante prosegue eliminando tutti coloro che non sono funzionali al proprio mantenimento. Purtroppo la ripresa delle forze rivoluzionarie è piuttosto debole, inefficace e inverosimile in quanto sparisce l’aspetto centrale, dominante nel film, ovvero il ruolo determinante, nei momenti topici, dei movimenti di massa. Predomina l’impostazione americana che tende a individualizzare il conflitto per cui anche lo sfondo di classe passa del tutto in secondo piano. Tutto ciò non lascia ben sperare per una eventuale terza serie.
The Good Lord Bird – La storia di John Brown miniserie televisiva statunitense in sette episodi creata da Ethan Hawke e Mark Richard, voto: 8+; molto bello il primo episodio che ci porta a conoscere le incredibili lotte guerrigliere condotte da John Brown contro lo schiavismo, dal punto di vista decisamente straniante di un giovane schiavo liberato. Da tale prospettiva lo spettatore può considerare in modo critico le grandiose azioni e i tratti di follia di John Brown. In lui, infatti, l’ardore della lotta armata rivoluzionaria contro lo schiavismo si univa a un integralismo religioso altrettanto estremo. La fede religiosa gli dava un incredibile coraggio, una sicurezza e la netta convinzione di essere dalla parte del giusto, ma lo rendeva al contempo avventurista, del tutto intransigente e spietato. Tutti questi contraddittori aspetti sono rappresentati in modo decisamente realistico e al contempo con una punta di ironia verso il fondamentalismo del personaggio o gli aspetti irrazionali degli uomini con cui si batte o collabora. Ironia che favorisce una lettura critica degli eventi e impedisce – insieme allo sguardo straniato del giovane afroamericano, che coglie tutti i limiti di John Brown – di non impersonarsi mai acriticamente nel protagonista, ma di comprendere in modo dialettico il mondo storico in cui si sviluppa la sua lotta.
Il secondo episodio, dove la figura centrale di John Brown scompare, è decisamente penoso. Il giovane afroamericano, che nel primo episodio aveva l’importante ruolo di consentire uno sguardo straniato sul protagonista, ora appare piuttosto portatore della prospettiva del cameriere, ovvero il punto di vista storico meno attendibile. Peraltro l’insistenza sul ruolo sanguinario della lotta per l’emancipazione degli afroamericani, cui non fanno nemmeno da contrappunto scene in cui si denuncia la brutalità dello schiavismo, è quanto meno discutibile.
Il terzo episodio lascia anche alquanto a desiderare. Il controcanto ironico, che svolgeva una funzione decisamente progressiva nel primo episodio, diviene il punto di vista dell’uomo senza qualità caro al postmodernismo, che pensa esclusivamente a mettersi in salvo, considerando chi si batte per l’emancipazione dell’umanità dei pericolosi mentecatti. Di John Brown emergono, così, essenzialmente gli aspetti negativi e lo stesso discorso vale per l’afroamericano che guida la lotta per l’emancipazione. Entrambi finiscono così per apparire – anche in questo caso con un procedimento caro al postmodernismo – degli antieroi, mentre va completamente perduto il pathos epico e tragico di grandi protagonisti della lotta per l’emancipazione del genere umano.
Il quarto episodio inizia nel peggiore dei modi, in quanto sembra affermarsi il punto di vista del cameriere del narratore, che pare dar credito a tutte le leggende nere per cui nel tempo dello schiavismo i caucasici non trattavano peggio gli afroamericani di come si trattavano fra di loro. Perciò sembra che John Brown sia un folle che ha portato guerra e morte e, anche, un despota nei riguardi del giovane afroamericano che ha liberato. D’altra parte non appena quest’ultimo finalmente rivendica la libertà, Brown gliela accorda subito e anzi si scusa di averlo considerato come un figlio.
D’altra parte, riacquistata la libertà, il giovane finisce per impiegarla proprio seguendo la conferenza organizzata da Brown per arruolare combattenti per l’emancipazione dell’umanità. A tale scopo decisivo è l’intervento della eroina afroamericana per la liberazione dalla schiavitù, Harriet, che prontamente accorda il suo aiuto e la sua fiducia al piano di Brown. In tal modo quest’ultimo ricostruisce il suo esercito deciso a portare avanti una grande lotta di liberazione degli schiavi, che ha come modelli Spartaco, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione haitiana e i movimenti rivoluzionari dagli anni Venti al Quarantotto. Il suo progetto è di condurre una guerra di guerriglia che serva da denotatore alla guerra civile che porterà, infine, all’emancipazione degli afroamericani. Finendo, infine, per convincere anche lo scettico narratore, che pare abbandonare finalmente la sua prospettiva da cameriere.
Il quinto episodio narra le difficoltà del piccolo gruppo di rivoluzionari di portare a termine il loro imponente piano. La temerarietà della sfida ricorda quella di Che Guevara in Bolivia. Interessante anche l’osservazione che gli afroamericani, ridotti in uno Stato di schiavitù, sono molto meno pronti a combattere per la loro liberazione, rispetto agli afroamericani che sono lavoratori salariati e hanno un minimo di cultura. Molto significativo è anche il rapporto che si stabilisce fra il narratore e la figlia di John Brown, un ottimo modello di giovane emancipata formatasi con un padre rivoluzionario.
Il sesto episodio è incentrato sull’azione rivoluzionaria che si rivela decisamente catastrofica, per la disorganizzazione e anche per la fede cieca nella religione che porta, in primis John Brown, a non usare la testa e ad assumere posizioni avventuriste.
L’ultimo episodio porta a formulare un giudizio storico decisamente positivo, nonostante tutte le contraddizioni, su John Brown. In effetti, al di là del suo fondamentalismo religioso, ha dato un importante contributo alla sconfitta, su scala internazionale, della schiavitù contribuendo a innescare quella spaventosa guerra civile che solo poteva portare alla liberazione degli afroamericani nel Sud degli Stati Uniti. Anche il bilancio del film è positivo, con il narratore che ha portato a termine il suo processo di formazione, riconoscendo come la lotta condotta da Brown per la liberazione degli schiavi non era un progetto folle, come poteva inizialmente apparire.
Il settimo episodio assicura un discreto godimento estetico, è piuttosto piacevole e lascia non poco su cui riflettere allo spettatore. In particolare il duo costituito dalla super nazista e da Patriota sviluppano le parole d’ordine care alla destra così detta sovranista, da Trump, a Salvini e alla Meloni, insistendo soprattutto sulla necessità di fermare l’immigrazione, perché al suo interno possono facilmente inserirsi terroristi. Tali ripetute tesi complottistiche contro le “razze inferiori” che rischiano di soffocare gli autoctoni fanno facilmente breccia negli individui più sfigati e celebrolesi, che passano ai fatti uccidendo presunti invasori immigrati.
Perry Mason 1x8 è una serie televisiva statunitense del 2020 creata da Ron Fitzgerald e Rolin Jones, voto: 8+. La serie reinventa completamente la figura di Perry Mason, narrando la sua storia giovanile, prima di diventare l’avvocato protagonista dei diversi gialli a lui dedicati da Erle Stanley Gardner e di diversi film e serie televisive. Nata come miniserie, è ambientata a Los Angeles nel 1932, negli anni della grande depressione. Perry Mason è un giovane detective che ricorda per diversi aspetti Philip Marlowe il detective privato nato dalla penna del celebre scrittore di noir Raymond Chandler. Così la serie si presenta come una ripresa dei primi grandi classici del noir. In più si aggiunge a rendere più problematico il protagonista un passato da militare nella Prima guerra mondiale e da allevatore messo in ginocchio dalla crisi. Nel primo episodio come tratti significativi emergono il ruolo oscuro di una setta religiosa e la corruzione della polizia.
Nel secondo capitolo-episodio della serie emergono due figure importanti, il procuratore distrettuale, destinato a divenire l’antagonista di Mason quando diverrà un avvocato dedito alla difesa di innocenti che rischiano di essere ingiustamente condannati. Alla base vi è il sistema statunitense – che la classe dominante sta facendo di tutto per introdurre in Italia – in cui il procuratore distrettuale, del tutto disinteressato a collaborare nella scoperta della verità, cerca unicamente il sospettato “mostro” da sbattere in prima pagina. Emerge inoltre il futuro detective collaboratore del Mason avvocato, un poliziotto afroamericano che non può collaborare a far emergere la verità in quanto ingiustamente penalizzato dalle irrazionali norme razziste.
Nel terzo capitolo-episodio la serie finalmente sembra decollare. Le tematiche sostanziali che facevano da contorno emergono sempre più in primo piano. Emerge, innanzitutto, come il procuratore distrettuale mirando alla carica di sindaco cerchi di imporsi come massimo garante della legge e dell’ordine, puntando a condannare alla pena di morte ogni sospetto, grazie anche alla eco dei mezzi di comunicazione di massa. La polizia svela sempre più il suo vero volto, ossia la sua essenza oscura, che la pone ai più alti livelli della criminalità organizzata. Emerge inoltre la spaventosa discriminazione di donne e afroamericani, che non a caso rappresentano generalmente le classi più sfruttate. Significativo è anche il tentativo di tali settori di ribellarsi, stabilendo momenti di solidarietà fra di loro. Infine, emerge la strumentalizzazione del fenomeno religioso da parte di avventurieri e magnati senza scrupoli. Infine, mai come in questo episodio, la serie fonde mirabilmente un noir avvincente e significative riflessioni sostanziali sul piano sociale.
Il quarto e il quinto capitolo-episodio sono leggermente sottotono rispetto al vertice raggiunto nel terzo. Gli aspetti del noir, sempre più processuale, tendono a prendere il sopravvento sulle questioni sostanziali, sociali e razziali che tendono a passare sullo sfondo. D’altra parte si approfondisce, in relazione alle discriminazioni razziali e di classe che subiscono, lo sviluppo di posizioni radicali che criticano efficacemente le prospettive moderate.
Il sesto capitolo si mantiene sulla linea dei due precedenti, si approfondisce la questione dello stato di apartheid in cui vivevano di fatto gli afroamericani, i pregiudizi verso le donne con una loro vita sessuale, il livello spaventoso di corruzione della polizia e dei procuratori forcaioli e, infine, viene denunciato come i ricchi anziani delle sette religiose costituiscono un vero e proprio comitato d’affari per truffare i bigotti bifolchi e siano pronti a utilizzare anche i mezzi più sporchi per salvaguardare e accrescere i propri sempre più inaccettabili privilegi.
Nel settimo capitolo la serie riprende quota, mostrando come dietro la violenza criminale degli apparati di sicurezza vi sia da una parte il pubblico ministero sempre pronto a sbattere il mostro in prima pagina, per fare carriera politica, dall’altra i grandi mezzi di comunicazione – che fanno da cassa di risonanza e creano l’opinione pubblica fautrice del fanatico giustizialismo tutto legge e ordine – e, infine, vi siano i ricchi che controllano la religione e sono interessati solo al profitto. Inoltre funziona molto bene la dialettica che si riesce a costruire fra film d’azione, noir, giallo e film processuale. Resta, al solito, il difetto che si possa risolvere i problemi dell’attuale società grazie all’impegno eroico di un pugno di individui, che non si pongono mai realmente il problema di mobilitare le masse, ma al limite di condurre nel caso specifico una lotta per l’egemonia su di esse. Certo resta l’essenziale elemento catartico per cui anche pochi individui – impegnati in prima linea, anche inconsapevolmente, nella lotta per l’emancipazione del genere umano – possano fare la differenza.
Nell’ottavo episodio si chiude, almeno per il momento, il processo divenuto il centro della serie, ma al contempo si aprono diversi nuovi enigmi atti a lanciare la prossima serie. Nella conclusione purtroppo la questione delle peggiori nefandezze compiute dai ricchi alla guida della chiesa restano troppo sullo sfondo, anche se si annunciano approfondimenti per la prossima serie. Ritornano i grandi temi della discriminazione delle donne, degli afroamericani a cui si aggiunge quella che subiscono i latinos di recenti immigrati, soprattutto se donne. Peraltro emerge che i futuri responsabili del rapimento avevano lavorato come squadristi al servizio del padronato per reprimere le lotte dei lavoratori. Riemerge – inoltre – tutto il puritanesimo caratteristico degli Stati Uniti, per cui il procuratore inquirente riesce quasi a far condannare a morte la vittima, cui è stato ucciso il figlio, in quanto colpevole di avere una relazione extraconiugale, peraltro in parte comprensibile per la completa mancanza di amore con il marito. Infine emerge la tragica condizioni delle donne orientali rinchiuse in un bordello, costrette a ricorrere all’eroina per poter sopravvivere alle costanti violenze sessuali che erano costrette a subire.
The Boys è una serie televisiva statunitense ideata da Eric Kripke per Amazon, basata sull’omonimo fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson. La prima stagione di 8 episodi è andata in onda nel 2019, voto 8-. Al solito l’episodio pilota promette molto bene: sembra finalmente di assistere non più a una autocritica tutta interna al mondo dei supereroi, ossia una sorta di rivoluzione passiva mediante cui, con alcune concessioni dall’alto, si rilancia tale prodotto fra i più venduti dell’industria culturale. Al contrario, nel primo episodio, vi è una profonda critica di come i supereroi sono gestiti da una multinazionale che mira unicamente a fare profitti. I supereroi partecipano dei profitti della multinazionale e dietro le apparenze di eroi senza macchia e senza paura, ultra moralisti e bigotti religiosi, danno completo sfogo da veri superuomini alla loro lurida volontà di potenza. Anche il Patriota – l’unico che difende fra i supereroi criminali quanto meno le apparenze – si rivela uno spietato assassino.
Resta, però, il dubbio sull’alternativa, in grado di contrastare la multinazionale e i supereroi, dal momento che ricorda, al solito, la sporca dozzina, vale a dire uomini pronti a tutto, capaci delle peggiori nefandezze per far fronte al nuovo impero del male. Si riaffaccia, così, la solita soluzione fascistoide ai mali della società capitalista, per cui l’alternativa alla multinazionale sarebbero collaboratori privati della stessa Cia, talmente scorretti, da dover agire in proprio. Così la sacrosanta denuncia della corruzione delle multinazionali della lotta al crimine, diviene funzionale a restituire credibilità a una alternativa fascistoide e apertamente brutale. Alle grandi imprese corrotte e attente al politically correct si contrappone il mito della sana piccola impresa che non le manda a dire e non rispetta – spudoratamente – nessuna regola, pur di tenere il passo della concorrenza.
Il secondo episodio, come di consueto, mostra l’altra faccia di queste serie americane, ossia l’essere merci dell’industria culturale, efficaci strumenti di distrazione di massa e di egemonia della classe dominante. Certo rimane una significativa critica dei supereroi-superuomini, della grande multinazionale che li sfrutta per i propri profitti e degli stessi membri del Congresso facilmente ricattabili. Resta, d’altra parte, il pessimo processo di formazione del protagonista che – da essere un subalterno pronto a subire più o meno tutto – per spirito di vendetta personale e volontà di potenza, si trasforma rapidamente in un criminale, pronto a entrare a far parte del famigerato gruppo dei boys.
Nel terzo episodio convince la caratterizzazione estremamente negativa del supereroe più fascistoide, Il Patriota, che svela il vero volto oscuro di Capitan America. Mentre decisamente inquietante è l’involuzione del protagonista bonaccione in un esponente a tutti gli effetti della sporca dozzina. Colpisce inoltre la rappresentazione delle masse prive di coscienza di classe, ridotte a facili pedine d’azione delle operazioni più sporche delle multinazionali, che le egemonizzano. Stupisce, invece, la totale assenza di un qualsiasi personaggio positivo, espediente per normalizzare il fascismo quotidiano.
Nel quarto episodio assistiamo a un altro modello esemplare di mistificazione della realtà, da parte di Patriota che – dopo esser intervenuto su direttiva del general manager, per far passare l’inserimento dei supereoi nell’esercito – nasconde il fatto di essere stato la causa efficiente del disastro aereo, dando a credere che i passeggeri si sarebbero salvati se i supereroi fossero stati liberi di agire all’interno delle forze armate. Emerge anche quanto sia pericoloso quest’ultimo progetto, in quanto darebbe agli Stati Uniti un potenziale micidiale e incontrollabile che potrebbe provocare, per esempio, una strage di cinesi. Resta il problema, non minimamente preso in considerazione, che ad affrontare i supereroi sono un gruppo egualmente disposto a tutto, guidato da un losco individuo soprannominato “il macellaio”, che agiscono sovvenzionati segretamente dalla Cia, per puri motivi di vendetta personale. Dunque i “buoni” sono in realtà, al di là della mistificazione ideologica dell’industria culturale, di fatto speculari ai cattivi che combattono. Lasciando lo spettatore dotato anche di un briciolo di autonomia di pensiero nell’impossibile scelta fra peste e colera, dal momento che la possibilità stessa di un’alternativa reale non pare contemplata.
Il quinto episodio segna un netto salto di qualità della serie, soprattutto per la critica davvero radicale ai fondamentalisti religiosi cristiani, base di massa del trumpismo. Vediamo, innanzitutto, la profonda ipocrisia dei vertici che, con la scusa di attività caritatevoli, coprono i traffici più sporchi. Inoltre, pur essendo omosessuali decisamente pervertiti, sostengono che tutti i rapporti non finalizzati alla riproduzione sarebbero peccaminosi. Naturalmente, in tale ambiente ultrareazionario, ha grandissimo successo il più cinico, spietato e fascistoide superuomo-supereroe: Il patriota. Quest’ultimo arriva a non pronunciare il discorso bipartisan della multinazionale da cui dipende, per pronunciarne un altro decisamente più reazionario che unisce l’aggressività a livello internazionale dell’amministrazione Bush Junior con le posizioni di destra radicale del trumpismo. Mentre si scopre che i supereroi sono in realtà dei superdopati dalla nascita, vediamo finalmente una maturazione in senso progressista della protagonista femminile, che si congeda dal mondo fondamentalista in cui è cresciuta, comprendendone tutta l’ipocrisia, e lo denuncia pubblicamente. A dimostrazione che anche chi ricopre i ruoli più nefasti all’interno della società imperialista ha ancora una sua libertà, che in casi, per quanto rari, può essere utilizzata a fin di bene.
Nel sesto episodio riemergono i consueti assurdi paradossi del cinema e forse, più in generale, della cultura, statunitense, ovvero una totale incoscienza di classe che porta a non essere in grado nemmeno di distinguere le forze del progresso da quelle della reazione. Per cui insieme a un’ottima denuncia della società dello spettacolo e di come la grande impresa rafforzi persino le organizzazioni terroriste, per assumere il controllo dell’apparato militare, vediamo che chi mira a contrastare tali tendenze coltiva come massima ambizione l’essere internalizzato nella Cia.
Nel settimo episodio la serie comincia a divenire più complessa. Presumibilmente si sarà dimostrato necessario preparare la strada a una nuova stagione. Il cattivo assoluto, il Patriota, non sembra l’autore dello stupro della moglie del “macellaio” e non sembra proprio essere il responsabile della sua morte. Indagando, viene a sapere che la sua cattiveria è legata al modo nazista in cui è stato fatto crescere. Tanto più che il medico che lo ha allevato in laboratorio sembra proprio uno degli scienziati nazisti arruolati dagli Stati Uniti in funzione antisovietica. Peraltro il macellaio, in teoria il capo dei buoni, si comporta in modo irrazionalmente brutale ed emerge anche come la sua fissazione personale contro il Patriota abbia impedito la collaborazione con la Cia. Quest’ultima non vuole eliminare i supereroi, ma semplicemente intende evitare che la multinazionale che li gestisce si inserisca nell’esercito. D’altra parte, avendo la multinazionale creato supereroi anche fra i terroristi, pure i piani della Cia rischiano di sfumare.
La prima stagione si chiude a regola d’arte rimettendo, almeno in parte, in questione i punti fissi e criticabili della prima serie. Innanzitutto viene meno l’opzione di una Cia buona e di una multinazionale cattiva, in quanto sono in realtà essenzialmente due facce della stessa medaglia; vi è fra loro concorrenza, ma sono fratelli nemici, ossia pronti a far blocco contro il comune nemico: in primo luogo il terrorismo internazionale. Questo – al solito – è l’unico punto fermo e indubitabile, vale a dire la difesa assolutamente bipartisan della politica di grande potenza statunitense. Mentre i ruoli del buono e del cattivo si dialettizzano, acquistano sfumature, divengono più complessi. Allo stesso modo viene finalmente colto il lato oscuro della vendetta, che sembrava giustificare tutto.
The boys 2x8 serie televisiva statunitense pluripremiata, ideata da Eric Kripke per conto di Amazon, voto: 8-; la seconda stagione riparte con un episodio al livello della prima, tanto nel bene quanto nel male. Nel bene: prosegue nella più radicale decostruzione del mito americano, facendo emergere come il fondamento del diabolico potere dell’imperialismo statunitense sia, in realtà, da ricercare nell’arruolamento dei criminali nazisti, che avevano iniziato gli esperimenti genetici sugli esseri umani nei campi di concentramento. Sono proprio loro alla base di quelle multinazionali di Big pharma, che sono ormai più potenti persino della Cia, e che possono trattare persino il leader dei supereroi come un semplice lavoratore salariato da sfruttare. In negativo manca del tutto – come di consueto nei prodotti dell’industria culturale a stelle strisce – una alternativa di massa in grado di mettere in discussione realmente i poteri forti. Si media così al pubblico l’illusione che sia possibile tenere testa al sistema – all’interno del quale sono perfettamente allineati i mezzi di disinformazione di massa – semplicemente con un supereroe che per amore, utilizzerebbe a fin di bene i suoi superpoteri, naturalmente usando dei mezzi inaccettabili.
Il secondo episodio della seconda stagione segna, come di consueto, un calo di tono. Si tendono ad aprire diverse problematiche significative, anche se in modo un po’ confusionario. Vi è la significativa denuncia dei bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile da parte del “supereroe” statunitense, che giustamente è presentato come il tipico esponente dell’imperialismo ultra sciovinista a stelle e strisce e del superuomo che si pone al di là del bene e del male.
Nel terzo e quarto episodio la serie riprende quota. In particolare perché la multinazionale, produttrice di superuomini, cerca di rifarsi un’immagine politically correct assumendo una nuova “eroina” apparentemente molto alternativa. Quest’ultima, al di là dell’apparenza di contestatrice, è in realtà altrettanto spietata, cinica e omicida degli altri. Tanto che, dopo aver a parole affermato di voler contestare la multinazionale, che peraltro sfrutta gli stessi “supereroi”, nei fatti diviene lo strumento della grande impresa per occultare lo scandalo dei suoi crimini, nello specifico di aver prodotto i superuomini assoldando i genetisti tedeschi che avevano iniziato tali diabolici esperimenti nei campi di sterminio. Inoltre, emerge come i superterroristi siano in tutto e per tutto una invenzione della multinazionale e siano sfruttati cinicamente per istituzionalizzare i metodi da terrorismo preventivo utilizzato dai loro superuomini. A questo scopo, facendo una strage spaventosa del tutto evitabile fra la popolazione civile afroamericana proletaria, l’eroina “contestatrice” uccidendo un presunto “supercattivo” – in realtà l’ennesima vittima della diabolica spirale: aggressione imperialista e reazione terrorista – consente alla multinazionale di distogliere l’attenzione dalle sue malefatte. Tanto più che i mass media compiacenti stanno naturalmente tutti al gioco di addebitare i “danni collaterali” ai superterroristi, esaltando così i supereroi che li contrasterebbero. Peraltro, emerge tutto il razzismo anche delle supereroine “alternative”, che non hanno scrupoli di confessare alle proprie vittime innocenti, che il loro status di superuomini dipende proprio dal fatto che uccidono senza pietà membri delle classi-etnie subalterne. Fra i tanti altri temi significativi che vengono affrontati, occorre sottolineare la precisa denuncia del ruolo subdolo e ipocrita dei fondamentalisti religiosi cristiani, così potenti negli Stati uniti, e l’omosessualità repressa di Patriota, alias Capitan America, che si trasforma in spietata omofobia. Mentre per quanto concerne i limiti, resta la solita visione adialettica delle forze antimperialiste straniere, che vengono senza sfumature considerate come organizzazioni terroristiche senza scrupoli, peraltro strumentalizzate dalle stesse multinazionali. Ciò è, inoltre, funzionale a giustificare i metodi terroristici della resistenza nazionale statunitense e il suo cooperare con la stessa Cia, che viene addirittura riabilitata dinanzi al male radicale della onnipotente multinazionale fabbricatrice di “supereroi”.
Nel quinto e nel sesto episodio la serie sale ulteriormente di quota con la piena congiunzione della tradizione del nazismo storico tedesco con l’imperialismo sciovinista statunitense impersonato da Patriota. La multinazionale mira a creare decine di migliaia di supereroi/superuomini, per impedire l’emancipazione delle altre “razze”. Per quest’ultime, in piena linea con la tradizione nietzschiana, le opzioni sono o il genocidio, sul modello degli amerindi del Nordamerica, o la schiavizzazione. Per quanto avanzata possa apparire sotto diversi punti di vista la serie, restano le consuete cadute dei prodotti dell’industria culturale statunitense, con la solita apparentemente irrazionale russofobia. Per cui abbiamo, del tutto gratuitamente, una strage di russi, rappresentati al solito come dei rozzi mafiosi maschilisti.
Il settimo episodio assicura un discreto godimento estetico, è piuttosto piacevole e lascia non poco su cui riflettere allo spettatore. In particolare il duo costituito dalla super nazista e da Patriota sviluppano le parole d’ordine care alla destra così detta sovranista, da Trump, a Salvini e alla Meloni, insistendo soprattutto sulla necessità di fermare l’immigrazione, perché al suo interno possono facilmente inserirsi terroristi. Tali ripetute tesi complottistiche contro le “razze inferiori” che rischiano di soffocare gli autoctoni fanno facilmente breccia negli individui più sfigati e cerebrolesi, che passano ai fatti uccidendo presunti invasori immigrati.
Nell’ultimo episodio la serie porta alle estreme conseguenze tanto i suoi aspetti positivi, quanto i suoi aspetti negativi. Vediamo così il pieno esplicitarsi del progetto nazi-imperialista, xenofobo, ovvero creare un movimento di massa intorno all’idea che le “razze” subalterne siano invidiose dei privilegi della “razza” bianca e mirino perciò al suo genocidio. Dunque ci sarebbe una guerra per la vita e per la morte, in cui i bianchi, a prescindere dalle differenze di classe, dovrebbero proteggersi vicendevolmente conducendo una guerra preventiva contro le “razze” subalterne che mirano all’emancipazione.
Tali concezioni vanno benissimo alle multinazionali che sfruttano la crisi del capitalismo, facendogli comprare le armi sempre più di distruzione di massa che producono per aggirare la crisi di sovrapproduzione. Le idee naziste, con il loro fondamento nietzschiano, hanno presa sulle masse prive di coscienza di classe e attratte dal mito reazionario dell’aristocrazia operaia. Il problema è che questa piena continuità fra le idee della destra statunitense e il loro fondamento nazista, non deve emergere. In quanto l’opinione pubblica non è pronta ad accettare un compiuto sdoganamento del nazismo. Peraltro il razzismo di quest’ultimo rischia di mettere in questione l’egemonia del neoliberismo sull’aristocrazia operaia degli afroamericani, per esempio. Infine il programma esplicitamente nazista porta gli oppressi delle diverse “razze” a cooperare fra di loro fino a sconfiggere il comune nemico. Una volta eliminato, il nazista diviene l’infiltrato da utilizzare come capro espiatorio, attribuendogli tutti gli aspetti negativi del rilancio su larga scala della politica imperialista statunitense, funzionale a salvaguardare i privilegi dei grandi capitalisti. I fondamentalisti cristiani sfruttano le contraddizioni della attuale società per rafforzare il proprio proselitismo gesuitico, cercando di imporre i propri interessi, ponendosi al servizio della classe dirigente. Mirano così, come di consueto, a essere esentati dalle tasse, sebbene operino in pieno secondo lo spirito d’impresa del capitalismo.
D’altra parte gli eroi, che hanno fatto fallire il piano nazi-imperialista, finiscono – essendo privi di coscienza di classe – per cercare una salvezza, nell’ottica piccolo-borghese, in un passato idealizzato. Tornano così alle forme più arcaiche di religione, decidono di rimanere al loro posto anche negli apparati d’élite dell’imperialismo, per non lasciare campo libero al loro interno alle corrotte mele marce, si affidano agli apparati più o meno deviati della Cia che proteggerebbero il paese dagli abusi delle multinazionali, pronte a seguire troppo pedissequamente le orme dei nazisti, pur di salvaguardare i propri profitti immediati. Infine, per riequilibrare i colpi al “cerchio” della destra radicale, se danno colpi alla “botte” della sinistra radicale, la quale in realtà, sotto mentite spoglie, porterebbe avanti, in modo ancora più subdolo, una politica anch’essa volta a salvaguardare, a qualsiasi costo, l’ala più oltranzista dell’imperialismo. In tal modo, con la scusa dell’identità degli opposti, si metterebbero sullo stesso piano sinistra e destra radicale, in nome del moderatismo centrista. Infine, si finisce seguendo questa logica nel qualunquismo dell’antipolitica, per cui soltanto una sporca dozzina, coperta dagli apparati deviati dei servizi segreti, potrebbe – violando costantemente ogni legge eguale per tutti – proteggere il sano imperialismo da ogni forma di eccesso autodistruttivo.
SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, serie televisiva documentaristica realizzata da Netflix, voto: 7,5; il documentario cerca di essere il più possibile equilibrato e dialettico e, cosa ancora più importante, si sforza di inserire la questione di San Patrignano in un quadro generale di più ampio respiro, visto che è sempre il tutto a dare senso alla parte. Emerge così che con la crisi dei movimenti sociali e l’inizio del riflusso spariscono improvvisamente le sgangherate macchine degli hippy che spacciavano marjuana importata dall’Olanda, sostituiti da strani personaggi con l’alfetta e i capelli corti che – con la scusa di offrire l’erba scomparsa dal mercato – cominciano a distribuire gratuitamente l’eroina ai potenziali consumatori. Quest’ultima presto si diffonde, potenziata dall’industria culturale che esalta i divi del rock che ne fanno uso e dallo Stato che non fa assolutamente nulla per arrestarne lo spaccio, né si preoccupa di curarne le vittime. Queste ultime finiscono per gravare completamente sulle famiglie e la società che, esasperate, finiscono con l’accettare la loro reclusione gratuita nelle comunità stile San Patrignano. Qui un carismatico pseudo santone sfrutta il lavoro gratuito dei reclusi, criticando aspramente i mezzi di trattamento scientifici messi a disposizione dalle strutture pubbliche, carenti e spesso poco interessate ad assumersi il carico e le responsabilità dei tossicodipendenti.
Sanpa riesce a non essere noioso, cosa decisamente complicata per una serie documentaria. D’altra parte rischia di essere un po’ troppo schiacciato sull’opinione pubblica che tendeva a esaltare il privato che pretende di sostituirsi allo Stato, usando metodi autoritari, paternalisti e pretendendo di porsi al di sopra della legge. In effetti fra gli intervistati abbiamo molti personaggi del clan di Muccioli, sui congiunti o giornalisti apologeti, con la parziale eccezione del cronista dell’“Unità” dell’epoca e del sindaco del Pci del piccolo comune in cui era sorta la comunità. In effetti, spaventa vedere un’opinione pubblica (già negli anni Ottanta) anestetizzata da molti dei pregiudizi tipici degli attuali elettori di Trump o Bolsonaro. Allo stesso modo non può non stupire il constatare come, già allora, i grandi mezzi di comunicazione erano schierati, unilateralmente, sulle posizioni della destra populista. Colpisce, inoltre, come un personaggio senza nessuna qualifica professionale e con un passato da truffatore da quattro soldi sia potuto divenire una figura centrale a livello nazionale, a ulteriore dimostrazione di quanto possano essere stati terribili gli anni Ottanta. Infine, non può che stupire quanto bisogno di socialità vi sia in una società individualista, egoista e asociale come la liberale, tanto da rilanciare forme decisamente premoderne e reazionarie di comunitarismo.
Fortunatamente, con il terzo episodio, dopo aver descritto l’ascesa di Muccioli fino a divenire l’italiano più stimato dall’opinione pubblica, comincia a poco a poco a emergere il lato oscuro di San Patrignano che – sino a quel momento – poteva intuire solo lo spettatore già provvisto di un giudizio critico autonomo in materia. Fino a metà del terzo episodio il documentario ha un andamento piuttosto naturalistico, che non lascia emergere le contraddizioni e che può essere utile solo per chi ha già una salda convinzione critica sull’argomento, mentre per il pubblico medio finisce per riproporre, grosso modo, la visione in fin dei conti apologetica costruita dall’industria dello spettacolo. Significativa la svolta che si produce nella serie, anche perché gli aspetti estremamente negativi del personaggio e del sistema di oppressione che aveva costruito emergono proprio quando l’enorme successo gli dà alla testa e lo porta a comportamenti sempre più deprecabili da superuomo nietzschiano. Veniamo così a sapere che nella comunità vi è un uso sistematico e sproporzionato della violenza, vi è una rigida separazione dei sessi, un sistema di controllo fondato sulla delazione e la sistematica umiliazione di qualsiasi voce critica. Peraltro vi è un sistema di censura e di coercizione spaventoso, coperto dalla società capitalista che vuole rinchiudere in questo vero e proprio campo d’internamento i tossicodipendenti, per non averli più sotto gli occhi. Senza contare che i malcapitati sono sempre più sfruttati, sulla base del principio scritto non a caso sulle porte dei campi di concentramento: il lavoro rende liberi.
Più il documentario va avanti e più vi è uno sviluppo dialettico, in quanto Muccioli più acquista potere e più tende a gestire la comunità come un sostanziale campo d’internamento. Così, per quanto fosse popolarissimo, con enormi agganci politici, istituzionali e con la vergognosa copertura massmediatica delle sue malefatte, queste ultime finiscono per superare il limite della decenza, costringendo la magistratura a intervenire. Così, a poco a poco, anche gli ex tossici del “cerchio magico” di Muccioli iniziano a non coprirne più – sistematicamente – le malefatte, iniziano ad apparire i distinguo e, anzi, qualcuno finisce con il rifarsi sul padre padrone per le ingiustizie subite, vuotando il sacco. Al solito gli unici che, nel modo più svergognato continuano a difenderlo a spada tratta, sono quegli imprenditori che da sempre lo hanno sostenuto e un certo numero di fedelissimi “giornalisti”. Mentre finalmente i giovani reclusi sfruttano la prima occasione valida per abbandonare la comunità, invece di ammassarsi ai suoi cancelli con la preghiera di essere accolti. Particolarmente spaventosa è la gestione dell’Aids. Tutti i membri della comunità vengono sottoposti a controlli senza essere avvisati di cosa si trattasse e Muccioli, dopo essersi reso conto che due terzi degli internati nella comunità erano sieropositivi, non solo nasconde l’allarmante dato, ma impiega anni prima di rivelare, nel modo più cinico, la tragica verità ai diretti interessati, senza curarsi di quanto possano aver – in modo del tutto inconsapevole – nel frattempo diffuso il virus. Senza contare che Muccioli sfrutta la sua comunità per testare anche i più ciarlatani esperimenti per guarire i malati di Aids. Resta infine particolarmente misterioso come possa essersi diffuso in un modo così ampio l’Aids in una comunità dove era proibito qualsiasi contatto fra i due sessi e si usavano i metodi più coercitivi per impedire ai giovani reclusi di uscire e fare ancora uso di sostanze stupefacenti a rischio. Peraltro si accenna appena a delitti a sfondo sessuale e omosessuale, senza mai affrontare direttamente tale tematica. Infine emerge che proprio Muccioli è stato il principale artefice della legge che criminalizzava chi faceva uso di sostanze stupefacenti, anche leggere come la cannabis, con il risultato di riempire le carceri di tossici, ai quali era offerta l’opportunità di scontare la pena in comunità come quella di San Patrignano. Si trattava di comunità nelle quali, sostanzialmente, tutto era permesso a chi le dirigeva, come in un sistema totalitario in miniatura, in quanto lo stesso Stato si lavava le mani del problema e lo occultava, scaricandone i costi, che naturalmente ricadevano sui reclusi in comunità sempre più sfruttati. Mentre i finanziamenti a Muccioli raggiungevano cifre strepitose, che il losco figuro utilizzava per comprare i più cari cavalli o cani d’Europa, naturalmente evadendo le tasse ed esportando all’estero, senza dichiararle, ingenti quantità di denaro.
Nell’ultimo episodio emerge come la gestione di Muccioli era divenuta talmente insopportabile che non solo molti reclusi si convincono a denunciare le sevizie subite, ma diversi esponenti del suo stesso “cerchio magico” lo accusano. Tuttavia, è tale la capacità di mobilitazione popolare del populismo di destra, fomentata dai mezzi dei comunicazione di massa, che alla fine i giudici si vedono costretti a far cadere l’accusa di omicidio e a lasciare in piedi soltanto quella di aver concorso all’occultamento di esso, per cui Muccioli è condannato a una pena detentiva ridotta, che non sconta in carcere, ma agli arresti domiciliari. Stessa sorte tocca al macellaio della squadra punitiva, che sebbene venga riconosciuto colpevole di omicidio ha la possibilità di scontare la pena ai domiciliari. A questo punto la stessa condanna di Muccioli è occultata dai mezzi di comunicazione di massa che insistono, quasi esclusivamente, sull’assoluzione dall’accusa di omicidio. Tanto più che, nel frattempo, con il primo governo Berlusconi Moratti diviene presidente della Rai. In tal modo, senza nemmeno bisogno di pressioni dirette, la maggioranza dei giornalisti si adeguano al nuovo clima, continuando a realizzare servizi tesi all’apologia di San Patrignano. Così, sebbene molto probabilmente, Muccioli si ammali di Aids – anche a causa della sua plausibile omosessualità nascosta – tutto ciò viene completamente occultato, per non infangare una figura divenuta vessillo delle legge e dell’ordine. Muccioli sparisce dalla scena, senza giustificare la sua assenza nemmeno al cerchio magico. Così anche i suoi più stretti collaboratori sono convocati solo dopo la sua morte e si impedisce durante la cerimonia funebre ogni foto o ripresa della salma. Riemergono così i sospetti che ci sia qualche cosa che non torni nel numero enormemente elevato di reclusi nella comunità colpiti dall’Aids, tanto è vero che tale scoperta è stata per anni occultata anche ai più stretti collaboratori. D’altra parte è talmente potente “l’eroe di carta” costruito dall’ideologia dominante che gli stessi autori del documentario sono decisamente portati ad autocensurarsi, tanto che l’impressione che si ha alla fine è che sia stato soltanto appena sollevato il coperchio che cela le nefandezze della comunità, da cui esce un tanfo talmente intollerabile, da spingere a richiuderlo al più presto, piuttosto che scoperchiarlo. D’altra parte i rapporti di forza attuali fra le classi rendono sempre più difficile realizzare documentari di denuncia come questo, in grado di mettere radicalmente in questione l’ideologia dominante e la sua narrazione accomodante della storia.
Strappare lungo i bordi, serie tv di Zerocalcare 1x6, distribuita da Netflix, voto: 7,5; Zericalcare ha l’indubbio merito di far conoscere al grande pubblico un mondo destinato altrimenti a rimanere marginale, come quello dei centri sociali e della sinistra antagonista. Da qui il polverone alzato contro la serie da parte delle classi dominanti che, al solito, temono che in tal modo si possano mettere in discussione i loro sempre più assurdi, irrazionali e ingiusti privilegi. Gli episodi hanno un ottimo ritmo, sono a tratti davvero esilaranti, colgono in modo realistico aspetti della vita apparentemente accidentali, assicurando un non trascurabile godimento estetico allo spettatore. Dall’altra parte non gli lasciano poi così tanto su cui riflettere e questo contribuisce a spiegare il grande e inatteso successo della serie. Certo, evidentemente, per uscire dal ghetto devi scendere a compromessi, ma resta sempre la questione sino a che punto il gioco possa valere la candela. D’altra parte, vi è anche il dato di fatto non trascurabile che i settori della sinistra antagonista che, in qualche modo, Zerocalcare rappresenta appaiono decisamente radicali nelle forme, ma hanno contenuti fondamentalmente socialdemocratici. Si tratta di un’attitudine, peraltro, tipica della sinistra piccolo borghese, perlomeno dai tempi dei mazziniani. Da questo punto di vista, non avendo di per sé poi così tanto di sostanziale da comunicare, i compromessi che ha necessariamente dovuto subire l’autore possono sembrare, tutto sommato, accettabili.
La serie prosegue oscillando fra il rischio di scadere un po’ nel volgare, nel minimalqualunquismo e l’affrontare, in modo fenomenico, problemi e drammi sociali reali e sostanziali come quello del precariato. Ma anche in tal caso senza una prospettiva, nemmeno utopica, di superamento, se non la miserrima angusta ambizione del piccolo borghese.
Il penultimo episodio tende a svanire come un intermezzo comico, come un divertissement, prima della grande tragedia finale. Con quest’ultima la serie raggiunge il suo apice e sfiora la grande tragedia contemporanea della precarietà. Problematica sociale che resta, in definitiva, lo sfondo tragico dell’intera serie, che affronta la questione fino al gran finale nei toni di una commedia che riesce a essere nello stesso tempo sofisticata e vernacolare.
The Morning Show 1x10 è una serie televisiva statunitense prodotta per il servizio streaming Apple TV+ e distribuita dal 1º novembre 2019, voto: 7+; come di consueto la serie parte in quinta con l’episodio pilota ponendo al centro, in modo realistico, il mondo dei mezzi di comunicazione intrecciando inoltre altre tematiche sostanziali come la violenza sessuale sulle donne e, molto più marginalmente, la discriminazione degli afroamericani. Se la serie, come avviene spesso, è molto realistica nell’inquadrare i tipi psicologici che occupano luoghi di potere, nel caso specifico i grandi mezzi di evasione di massa, è molto più carente e reticente nell’offrire uno sguardo e a una rappresentazione realistica di come i mass media stravolgono la realtà e istupidiscono i subalterni.
Il secondo e, soprattutto, il terzo episodio rappresentano una decisa caduta di stile. Le questioni sostanziali restano molto sullo sfondo, mentre tende sempre più a prevalere il confronto scontro fra le due protagoniste, per realizzare il quale la serie perde in interesse, in realismo e, persino, in verosimiglianza.
Il quarto episodio rilancia la serie in quanto per una sequenza di casi fortuiti finisce per presentare lo spettacolo televisivo più visto la mattina una giornalista senza peli sulla lingua, interessata a conoscere la realtà, a dire la verità e a poter dire la propria. Questo modo di vedere il mondo apparentemente normale, tanto che la giornalista rifiuta qualsiasi etichetta politica, ha una forza dirompente e rivoluzionaria in uno show televisivo di grande successo, dove ciò che conta sono gli introiti pubblicitari, per cui si ritiene che per mantenere il proprio grande pubblico bisogna imbonirselo anestetizzandolo e per mantenere i propri inserzionisti non bisogna neanche accennare a nulla che metta in discussione il senso comune e l’ideologia dominante. Così, pur non essendo in grado di mettere in discussione l’ideologia dominante, la coraggiosa giornalista fa emergere tutta l’ipocrisia del perbenismo puritano che, per esempio, nonostante il movimento “me too”, aveva fatto sì che nel canale televisivo non fosse mal visto il potente conduttore predatore sessuale ma, piuttosto, le sue inermi vittime.
Il quinto episodio si attesta su un buon livello, ma senza acuti. La questione presumibilmente più significativa è la riflessione critica sul fenomeno del mee too di cui si analizzano in maniera abbastanza dialettica la grande importanza che ha avuto per l’emancipazione della donna, ma anche i rischi di una sua – sempre possibile – strumentalizzazione.
Il sesto episodio sottolinea ancora una volta l’eroismo, anche dal punto di vista umano, di chi – in una società che è, dal punto di vista razionale, un mondo rovesciato – si limita a fare coscienziosamente il proprio mestiere. Cosa che in una società tanto corrotta richiede un alto tasso di eroismo e incoscienza. D’altra parte il mondo dei grandi mezzi di distrazione di massa è così corrotto, da strumentalizzare ai propri sporchi fini anche le poche azioni svolte in conformità al proprio ruolo e, generalmente, radicalmente criticate in quanto non conformi alla funzione anestetizzante che si vuole dare ai mass media.
Il settimo episodio porta all’apoteosi il livello di corruzione e la spietatezza della società civile dove impera l’homo homini lupus. A questo punto la serie si presenta come una ripresa e una versione contemporanea de La relazioni pericolose (Dangerous liaisons). Ancora una volta gli autori statunitensi sono dei veri maestri nello smascherare tutta l’ipocrisia della loro società puritana, ma, dall’altra parte, non essendoci come di consueto una prospettiva, un solo personaggio alternativo, l’impressione è che lo spietato realismo sia funzionale ad affermare il classico acronimo Tina, ossia il mantra neoliberista per cui non ci sarebbero alternative; per cui questa sarebbe – necessariamente – la natura umana, troppo umana per cui si finisce con il naturalizzare (sulle orme di Spencer e Nietzsche) il darwinismo sociale.
L’ottavo episodio è interessante, perché indaga la così detta seconda generazione degli inquisiti sull’onda del me too, non più accusati di stupro, ma di molestie sessuali. In particolare si vede come un brillante uomo di potere si porti a letto le donne del suo entourage e quando una di loro prova a lamentarsi con il proprietario dell’azienda, viene promossa per chiudere lì il caso. L’approfondimento è senza dubbio utile e interessante non solo per il seguito della serie, ma per l’importanza della questione in sé. D’altra parte, dedicare un intero episodio a questo lungo e prevedibile flashback rischia di apparire un voler diluire il brodo per farlo durare di più, scelta non proprio convincente.
Con gli ultimi due episodi – dopo aver portato fino alle estreme conseguenze la terribile conflittualità individualista vigente nella società capitalista, dove domina incontrastato il principio mors tua vita mea – si arriva, infine, a una catarsi. La questione del me too e della libertà di informazione, al centro della serie, trovano un’adeguata conclusione, con l’attacco portato ai vertici della grande azienda. Il che dimostra che anche in una situazione molto difficile i dipendenti possono ribellarsi agli ordini del padronato e denunciarne le attitudini sostanzialmente criminali. Peccato che, al solito, la possibile prospettiva resta opera dell’azione di individui e le masse popolari, le solo che possono garantire cambiamenti strutturali, restano sostanzialmente passive.
The Great è una serie televisiva britannica-australiana liberamente basata sull'ascesa come imperatrice di Caterina II di Russia, voto 7. Lo sfondo storico e il realismo con cui è narrata la vicenda rendono avvincente, interessante e istruttiva la prima serie che si articola in dieci episodi. The Great tocca contenuti sostanziali, dalla critica alla tirannide e alle vecchie tradizioni di aristocrazia e clero, contro cui si scontra la rivoluzionaria cultura illuminista, che porta l’oppressa zarina a ribellarsi e a conquistare il potere, liberando il paese da uno zar al quale il potere assoluto aveva dato evidentemente alla testa. Interessante anche il ruolo chiave svolto della servitrice di Caterina, che supera la padrona e gli indica la strada dell’emancipazione.
Come di consueto il secondo episodio segna una caduta di tono. Gli aspetti e i personaggi grotteschi rischiano di divenire inverosimili. Egualmente irrealistica è l’americanizzazione della vicenda. Anche se, rispetto alla maggior parte dei prodotti dell’industria culturale, siamo ancora a un discreto livello.
Con il terzo episodio la serie sembra rinunciare sempre di più all’ambizione di una realistica ricostruzione storica, con significativi aspetti sostanziali, per diventare sempre più la classica americanata, piacevole indubbiamente, ma non bella. Inoltre la storia viene eccessivamente diluita e finisce quasi per trovare un insano piacere nella rappresentazione sempre più grottesca della corte. Infine, si affacciano, al solito, i pregiudizi profondamente razzisti e sciovinisti che gli statunitensi hanno nei confronti dei russi.
Il quarto episodio conferma il trend declinante della serie in quanto gli aspetti universali sono sempre più sacrificati alle bassezze, generalmente grottesche e inverosimili, della corte dello zar. Peraltro i personaggi, tolta la protagonista, sono delle macchiette, adialettiche e scarsamente tipiche.
Per quanto la vicenda sia sempre più incentrata sugli intrighi di corte e le piccole ambizioni, dovute al profondo razzismo statunitense per cui – di fatto – tutti i russi sarebbero naturalmente dei mostri, la serie si riprende parzialmente nel quinto episodio, in quanto ricompaiono tra tante bassezze due questioni sostanziali come la guerra e la lotta per il potere. Il problema è che sono sempre rappresentati con gli stereotipi del politically correct dell’imperialismo occidentale, per cui abbiamo l’unico personaggio occidentale idealista e tutti i personaggi orientali inevitabilmente preda della barbarie.
Il sesto episodio recupera in parte il terreno perduto, trovando una valida mediazione fra le concessioni al piacevole per massimizzare il godimento estetico e le questioni sostanziale. Peraltro, emerge finalmente, in tutta la sua realtà reazionaria, il ruolo della chiesa, reso possibile dal fatto che si tratta della chiesa russa. Vi è anche un buon equilibrio fra la posizione da anima bella occidentale dell’imperatrice e le sue illusioni di poter portare il folle e reazionario zar Pietro sulla via del progresso. Naturalmente, come la storia non potrà che dimostrare, si tratta di pie illusioni, di chi ha in realtà ancora paura di prendere nelle proprie mani il proprio destino. Accettando, sino in fondo, tutti i rischi e le scomodità che derivano dall’utilizzare fino in fondo la propria ragione.
Nel settimo episodio la serie riacquista stabilmente quota. Le riforme imposte dall’altro rischiano di essere controproducenti e di favorire, involontariamente, le forze della reazione se non si costruisce al contempo l’uomo nuovo. Inoltre emerge chiaramente come i privilegi, soprattutto secolari, faranno necessariamente blocco per evitare ogni riforma che li rimetta in questione. Appare perciò necessaria e indispensabile una rottura rivoluzionaria, in quanto, come si suol dire, certe teste non si cambiano, ma si tagliano.
Nell’ottavo episodio la serie si è ormai assestata su un buon livello. La modernizzazione e i tratti di fiction rendono la serie più fruibile e godibile, senza cadute significative nell’inverosimile. Interessante l’analisi psicologica di tutte le contraddizioni e le assurdità di un potere classista.
Nel nono episodio tutto comincia a precipitare verso la conclusione storicamente annunciata. Peccato che la volontà di far presa su un pubblico il più ampio possibile renda sempre più inverosimile, sfiorando il grottesco, la vicenda. Decisamente interessante come la zarina Caterina si veda costretta a passare dal donchisciottesco uomo della virtù al realistico e machiavellico uomo del corso del mondo. Si tratta di un aspetto decisivo, di una contraddizione centrale, della tragedia chiave della vita di Caterina. Purtroppo nella serie l’aspetto comico prende il sopravvento sull’aspetto tragico e così questo così drammatico sviluppo sembra avvenire naturalmente, senza colpo ferire. Il che è decisamente inverosimile in quanto è inaccettabile mostrare come un’alta idealista, di punto in bianco, pur di conquistare il potere, si trasformi in una cinica donna del corso del mondo. Così assistiamo, un po’ allibiti, al subitaneo rovesciamento della kallipolis (la città ideale) nella sua forma degenerata, ovvero in una timocrazia (nel senso letterale e platonico del termine), come se fosse la cosa più semplice e scontata del mondo.
L’ultimo episodio, essendo già tutto costruito per lanciare la seconda stagione, non ha pesanti cadute, come avviene generalmente nelle serie che con esso si concludono. Anzi, finisce con l’essere un episodio interlocutorio, dove le spinte negative volte a farne una merce appetibile al grande pubblico dell’industria culturale e il suo proficuo rapporto con la storia, ossia con il substrato sostanziale, trovano un momentaneo equilibrio.
Succession 1X10 è una serie drammatica televisiva statunitense ideata da Jesse Armstrongn, in Italia è stata trasmessa su Sky Atlantic. La serie ha ottenuto 3 candidature e vinto 2 Golden Globes, 4 candidature e vinto un premio agli Emmy Awards, 4 candidature e vinto 2 Critics Choice Award, 4 candidature e vinto 2 Writers Guild Awards, 2 candidature e vinto un premio ai Directors Guild, ha vinto un premio ai Producers Guild, 1 candidatura a Bafta TV Award, la serie è stato premiato a AFI Awards, voto: 7. La serie è incentrata su una famiglia di grandi imprenditori, con il padre che la ha fondata e ha tutti i difetti del tipico self made man. I figli hanno tutti i difetti tipici degli eredi dei “grandi” imprenditori e ciò non può che rendere estremamente complicata la necessaria successione. Anche perché il mondo degli affari è popolato oltre che da figli di papà, di fatto inetti, anche da self made man che si comportano come veri e propri squali, dal momento che sembra essere l’unico modo per sopravvivere in un mondo del genere. Il tutto è rappresentato in modo decisamente realistico e, quindi, anche necessariamente molto critico. Purtroppo non si analizza molto su come è avvenuta l’accumulazione primitiva, né dei danni alla società prodotti da grandi imprese, in particolare che si occupano di informazione e intrattenimento.
Nel terzo episodio emerge, come spesso accade, che in realtà la grande azienda è segretamente pesantemente indebitata con una grande banca, anche perché il settore tradizionale dei media soffre molto lo sviluppo di internet. Se resta realistica la denuncia dell’incapacità dei figli degli squali d’impresa a divenire a loro volta squali – in quanto anche in questo caso ci vuole un’arte e una tecnica – lascia un po’ perplesso il fatto che non riescano a trovare qualche professionista che gli aiuti. Inoltre, se la denuncia di tutta la miseria morale del mondo delle grandi imprese è sicuramente importante e significativa, non essendoci un solo personaggio positivo, tutto finisce con l’apparire necessario, quasi naturale, tanto che si finisce per rischiare di cadere in un’apologia indiretta della società imperialista.
Il quarto episodio resta intenso e appassionante e alquanto realistico. Emerge sempre più evidentemente che la serie abbia preso come modello il grandissimo primo romanzo di Thomas Mann: I Buddenbrok. D’altra parte la grandezza della vecchia generazione, rispetto alla successiva, è così evidente che, non essendoci un solo personaggio che apra una prospettiva diversa, si finisce per mitizzare la vecchia guardia degli imprenditori dinanzi alla già avanzata fase di putrefazione della seconda generazione. D’altra parte, almeno sullo sfondo, appare un altro aspetto celato dell’accumulazione originaria, ovvero l’aver nascosto tutta una serie di delitti avvenuti durante le crociere organizzate dall’impresa di famiglia.
Il quinto episodio resta nell’elevato standard di tutti i precedenti con una impeccabile analisi psicologica, politica e sociale del gruppo dirigente di una grandissima azienda. L’analisi decisamente realista mette in luce tutte le contraddizioni, ambiguità e ipocrisie di chi guida il capitalismo internazionale. A questi livelli anche chi vuole fare l’alternativo mette comunque in primo piano la lotta al comunismo. D’altra parte la caratterizzazione unilateralmente negativa di quasi tutti i personaggi, a eccezione forse della prima moglie, alle lunghe rischia di annoiare e di apparire anche unilaterale, in mancanza completa di una prospettiva di sviluppo e di un pur minimo spirito d’utopia e di principio speranza.
Nel sesto e settimo episodio si approfondisce il conflitto in famiglia e anche la crudele logica del nudo profitto che travolge ogni legame familiare tradizionale. Inoltre, anche se in modo molto indiretto, emerge come l’impero mediatico sia naturalmente orientato in senso decisamente conservatore se non addirittura reazionario. Tanto che il politicante al momento più orientato a sinistra vede in questo grande monopolio il peggior nemico da sconfiggere. Resta al solito il problema che anche l’antagonista di “sinistra” è presentato non come un idealista, ma come un politicante sostanzialmente senza scrupoli. Anche l’opposizione dal basso al grande monopolista, che per alcuni aspetti ricorda Murdoch, sembra essere velleitaria e, di fatto, anarcoindividualista. Dunque, al solito, gli intellettuali statunitensi sembrano molto più coraggiosi nel denunciare gli aspetti decisamente negativi della loro classe dirigente e dominante, molto di più degli omologhi europei, ma sono del tutto incapaci di anche soltanto immaginare una alternativa reale. Anche perché dal punto di vista storico, internazionale e dei “princìpi”, come per esempio il considerare il comunismo come l’impero del male, sono del tutto succubi dell’ideologia dominante.
Nell’ottavo episodio assistiamo sempre più alla decomposizione del tradizionale capitalismo familiare, dal momento che la sfera etica della famiglia deve completamente sottoporsi all’individualismo atomistico della società civile borghese. Per quanto efficace possa essere la rappresentazione sardonica della “grande” famiglia capitalista – che viene adeguatamente paragonata a Hitler, tanto che nessuna brava persona vorrebbe avere a che fare con essa – resta il fatto che più giù si scende nella scala sociale e più i personaggi “poveri” della famiglia allargata sono rappresentati in modo comico. Vi è, dunque, un aspetto di brescianesimo in questa rappresentazione in cui i vertici sono protagonisti di una tragedia e più si scende nella piramide sociale e più si passa a toni da commedia.
Nel nono episodio si assiste al compromesso storico fra il grande capitalista e il candidato della sinistra i quali, resisi conto che lo scontro reciproco li indebolisce, scendono a più miti consigli, aprendo così a un ricambio della classe dirigente che non tocchi i rapporti di proprietà e la classe dominante. Anche qui un’ennesima lezione di crudo realismo, ma che cancella la possibilità stessa che un altro mondo sia possibile. Alla fine se tutti sono eguali e ognuno segue solo le proprie piccole ambizioni non può che prevalere il più forte.
L’ultimo episodio non riserva particolari sorprese se non la scelta, molto discutibile, di mettere una pezza puritana a questa scellerata lotta all’interno della famiglia-azienda per la successione. Si scopre, del tutto gratuitamente, che i tre figli in maggiore rottura con il padre-pardone sono in realtà tutti adottati, il che, secondo questa logica ipocrita, potrebbe spiegare le altrimenti inaccettabili conflittualità fra consanguinei. Per il resto la serie segue fino alla fine la sua concezione di fondo, mostrando come il mondo dei potenti sia cinicamente del tutto insensibile alla stessa vita dei subalterni. Anche nel caso in cui i primi sono direttamente implicati nelle terribili disgrazie dei secondi. D’altra parte anche i subalterni sembrano seguire la stessa legge della giungla dell’homo homini lupus. A sottolineare ancora una volta che viviamo in una valle di lacrime, dove pare quasi naturale cercare di fare le scarpe al proprio prossimo.
Squid Game 1x9 di Hwang Dong-hyuk, azione, avventura e drammatico, Corea del Sud 2021, distribuita da Netflix, voto: 7; serie indubbiamente ben costruita e avvincente, pur riprendendo una idea di fondo già vista in altri film, la sviluppa in modo relativamente originale. Vi sono una serie di individui che si sono, colpevolmente, indebitati e che vivono una vita infernale, tanto da lasciarsi convincere a partecipare a un gioco al massacro, per soddisfare il desiderio di reality ultraviolenti di una élite. Inizialmente ignari del rischio di perdere la vita se non in grado di vincere il gioco, in un primo momento sfruttano la “democratica” possibilità che gli è lasciata di interrompere, a maggioranza, il gioco al massacro. D’altra parte non vi è una reale alternativa se non riprecipitare in una dimensione infernale della vita reale che non sembra lasciare possibilità di scampo. Sullo sfondo della serie vi sono una serie di elementi sostanziali, dalla critica alla ludopatia, alla critica al voyerismo estremo, dalla critica alla speculazione, alla critica a una società sempre più dominata da una spietata concorrenza, che finisce per portare gli uomini a comportarsi come dei lupi verso i propri simili. Peccato che si tenda a idealizzare, come perfette vittime, i profughi dalla Repubblica democratica popolare di Corea, a ulteriore dimostrazione dei pregiudizi di matrice imperialista ancora largamente diffusi anche fra gli intellettuali della sedicente Corea del Sud.
Il grande successo della serie è certamente dovuto al fatto che sembra rispettare tutto le indicazioni della Poetica aristotelica, dall’unità d’azione, alla verosimiglianza delle vicende narrate e alla medietà dei personaggi rappresentati, né troppo cattivi, né troppo buoni e perciò universalizzabili. In tal modo lo spettatore è portato a identificarsi con essi, ma anche a vedere da una prospettiva distaccata quei sentimenti di pietà e terrore che le vicende tragiche dei caratteri messi in scena inevitabilmente producono. D’altra parte il rischio evidente è quello di coinvolgere lo spettatore proprio nel voyerismo sadico che si pretenderebbe denunciare, rendendolo in qualche modo complice dello scempio che è messo in atto.
Il terzo episodio conferma il giudizio formulato sino a ora sulla serie, ossia non si comprendono né le ragioni di chi la esalta, né le ragioni di chi la critica aspramente. La serie resta avvincente, ha un significativo scavo psicologico dei personaggi, è una valida metafora della società civile borghese dove domina il principio mors tua vita mea. D’altra parte resta il bieco anticomunismo e lo sfruttare in modo piuttosto cinico il voyerismo sadico di una parte non indifferente di spettatori.
Nel quarto episodio si può constatare come la guerra fra poveri sia funzionale al domino dei più ricchi che, per tale motivo, fanno di tutto per aizzarla. Si vede anche bene come nella società capitalista l’unico dio resta il denaro, a cui l’uomo può sacrificare ogni cosa. Significativo anche il modo in cui è rappresentato il sottoproletariato malavitoso, che diviene uno strumento repressivo al servizio dell’oligarchia. Interessante, ma al contempo discutibile, l’individuare la possibile alternativa in un sottoproletario lavoratore, che riesce a mantenersi umano anche quando tende a riaffermarsi la mera legge della giungla. Ancora più discutibile è il prendere come eroe un guardiano dell’ordine costituito e una fiera anticomunista che insegue il sogno del capitalismo.
Nel quinto episodio emerge un terribile traffico degli organi dei concorrenti morti, la presenza di vip a godersi lo spettacolo sadico dei gladiatori del terzo millennio e un passato di operaio metalmeccanico del protagonista. Così il suo precipitare nel sottoproletariato viene spiegato per un improvviso licenziamento collettivo dell’impresa, che lo avrebbe lasciato pieno di debiti proprio nel momento in cui gli era nata la prima bambina. Emerge inoltre il sanguinoso scontro con la polizia a seguito dell’occupazione della fabbrica, in cui un operaio amico del protagonista cade colpito a morte dalle guardie mentre lottavano sulle barricate. In tal modo emerge, almeno sullo sfondo, l’importanza del conflitto sociale e di classe, generalmente del tutto omesso nei prodotti dell’industria culturale. Altro aspetto interessante è l’emergere, pur nel conclamato cinismo spietato del neoliberismo, di una sua eticità per quanto paradossale, fondata sull’equità di dare a tutti le stesse chances e di lasciare il diritto di voto a maggioranza come possibile via di uscita dal sanguinario gioco. Peccato che questi aspetti significativi tendano a rimanere sullo sfondo rispetto all’ambigua rappresentazione dei giochi sadici, per quanto anche qui vi sia un tentativo di mantenersi nel politically correct, per cui nella squadra del protagonista troviamo due donne, di cui una immigrata, un anziano e un immigrato sfruttato e non pagato dal padrone. Significativo il dialogo in cui la profuga dalla Repubblica democratica di Corea confessa di non saper rispondere al quesito: in quale delle due Coree si vive meglio?
Nel sesto episodio emerge più chiaramente il vero animo delle drammatis personae. Si va dalla spietatezza del fascista e dello speculatore finanziario, all’umanità e ingenuità del povero immigrato, alla saggezza e dignità dell’anziano, all’umanità dell’operaio licenziato e della giovane sottoproletaria. Nel settimo episodio emergono i vip, per il godimento dei quali tutto questo terribile spettacolo, degno della decadenza dell’impero romano. viene orchestrato.
Nel settimo episodio appare sempre più evidente, nella contrapposizione fra disperati giocatori e sadici guardiani e vip e nello scontro finale la resa dei conti fra l’operaio licenziato e lo speculatore. Purtroppo questi aspetti preziosi, che richiamano il conflitto sociale, sono in parte oscurati dall’eroe poliziotto e dall’eroina esule dalla Repubblica democratica di Corea. L’ultimo episodio e più in generale la conclusione lascia molto a desiderare. Rimane la superiorità morale del proletario sullo speculatore, ma per il resto la tragedia appare priva di una catarsi dignitosa. Squid game resta sotto diversi aspetti una serie incompiuta e, quindi, carente.
Ethos serie tv in 8 episodi, Turchia 2020, voto: 7-; il primo episodio lascia ben sperare, affrontando e problematizzando l’incontro-scontro fra due Turchie, quella modernista, laica, benestante e occidentalizzata e quella povera, di origine agricola, legata ai valori tradizionali e conservatori propri di un’etica religiosa e patriarcale. In realtà questi mondi, che appaiono paralleli e quindi destinati a non incontrarsi, tendono in realtà a intrecciarsi e a contaminarsi. Il riconoscimento, che in partenza pareva impossibile, comincia gradualmente ad affermarsi. Peraltro a facilitarlo vi è l’attitudine tendenzialmente egualmente patriarcale che hanno gli uomini delle due Turchie nei confronti delle donne.
Purtroppo il secondo episodio non è all’altezza del primo e lascia intendere che, presumibilmente, nel suo sviluppo la serie non sarà all’altezza delle aspettative che ha suscitato. Anche se indubbiamente vi sono buone trovate formali, come la ronde che porta le storie dei personaggi a incrociarsi. D’alta parte vi è una certa tendenza a subire l’egemonia dei modelli irrazionalisti e postmoderni europei.
Il terzo episodio, come spesso accade, ridà un po’ di ritmo alla serie dopo il secondo episodio fiacco e, in generale, funzionale ad allungare il brodo. Prosegue e si arricchisce la ronde, emerge sempre più l’attitudine fascista dell’ex militare religioso, fra Erdogan e i Lupi grigi, ma anche il fascismo quotidiano pariolino della psichiatra occidentalizzata. Così come emerge il maschilismo del ricco Don Giovanni e l’uso strumentale che pretende di fare delle donne. Resta di fondo la subalternità di molti dei registi dei paesi in via di sviluppo che, per darsi un tono e conquistarsi una distribuzione di nicchia internazionale, riprendono aspetti postmoderni tipici del cinema continentale, anche se in questo caso mediati con gli aspetti culinari necessari a rendere profittevole la merce dell’industria culturale. Anche se si tratta di merce di qualità, congeniata in modo raffinato, con personaggi e dialoghi indubbiamente interessanti.
Il quarto e il quinto episodio allargano ulteriormente la ronde dei personaggi e sviluppano lo scavo psicologico dei protagonisti. Peraltro nel corso degli episodi si può cogliere, in particolare nella protagonista femminile, un significativo sviluppo grazie alle sedute con la psicoanalista occidentalizzata. È inoltre rappresentato in modo realistico il tipico esponente machista, ultraconservatore, che incarna in pieno il fascismo quotidiano e la schiavitù domestica che impone alle donne del proprio nucleo famigliare. La serie da una parte mostra la sua originalità e una significativa cura dei particolari, anche se talvolta annoia o perché allunga troppo il brodo o perché prova a darsi arie da film d’autore postmoderno europeo. Peccato che l’unica figura della serie con alcune caratteristiche rivoluzionarie non venga meglio approfondita e non occupi una funzione più centrale nella vicenda, anche se metterebbe a rischio la meticolosa rappresentazione dei diversi tipi sociali presenti nella contemporanea Turchia.
Il sesto episodio segna una profonda cesura nei rapporti fra i personaggi che avevamo visto costruirsi negli episodi precedenti. Si rimescolano le carte, anche se gli sviluppi non sono particolarmente significativi. Il settimo episodio è in parte noioso, per il vezzo autoriale unito al difetto delle serie di tirarla per le lunghe. Anche se vi sono due momenti significativi, il confronto fra la donna e il suo passato stupratore e lo scontro fra le due sorelle kurde. In quest’ultimo la sorella che ha sviluppato una coscienza per certi aspetti rivoluzionaria accusa l’altra, che ha seguito al contrario la strada dell’integralismo religioso, di essersi posta al servizio di coloro che hanno preso a calci la madre, quando era incinta, facendole partorire un bambino gravemente handicappato e hanno costretto la famiglia a trasferirsi in città. Anche se quest’ultima questione kurda, decisamente la più sostanziale della serie, continua a rimanere troppo sotto traccia.
Nel settimo episodio alcuni equilibri saltati si ricompongono, anche se in modo non del tutto soddisfacente per quanto riguarda la vicenda dello stupro. Anche perché la ragione della sofferenza della donna non può essere legata esclusivamente alla volontà di vendetta per la violenza subita, quanto piuttosto al dover convivere con un uomo il cui agire, improntato al fascismo quotidiano, è di per sé violento.
L’ultimo episodio si chiude con una completa catarsi dei drammi in atto, quasi da commedia, in quanto la rottura è solo sfiorata, e si ricompone di fatto la situazione di partenza, anche se comunque a un livello superiore e di maggiore consapevolezza. D’altra parte questa compiuta conciliazione delle profonde contraddizioni è poco credibile e sembra il frutto di un mero idealismo soggettivo. Resta comunque il livello nel complesso alto di questa serie tv, decisamente superiore ai prodotti dell’industria culturale occidentale.
Il metodo Kominsky, serie televisiva comica statunitense distribuita da Netflix 2x8, voto: 7-; la serie è indubbiamente fatta nel migliore dei modi, è divertente e leggera, ma mai stupida o scontata. Si tratta di una commedia indubbiamente sofisticata e anche decisamente schierata contro i Repubblicani. Resta però prigioniera dei difetti strutturali della commedia moderna. Gli aspetti sostanziali della satira sociale, centrali nella commedia antica, restano troppo sullo sfondo, mentre in primo piano si presentano problematiche più o meno legate al regno animale dello spirito. Peraltro se nella prima serie la novità metteva particolarmente in risalto gli aspetti positivi, con la seconda la ripetizione un po’ stantia di taluni schemi, che certo sono ben rodati e indubbiamente funzionano, accentuano quei limiti conservativi che sono una caratteristica in qualche modo strutturale della commedia moderna.
La serie è molto arguta e realistica nell’indagare psicologicamente i rapporti individuali e nell’ambito collettivo della famiglia. Tuttavia, finisce per rimanere prigioniera di quest’ambito etico ancora naturale, immediato, facendo scarse riflessioni sugli ambiti superiori della società civile e dello Stato, sul quale ci si limita ad argute battute antirepubblicane, anche se poi, come di consueto, non si mette in discussione, neanche nella forma della commedia, la politica estera imperialista e bipartisan degli Stati Uniti.
Questa seconda stagione si avvia alla conclusione trattando con la solita raffinatezza il tema della vecchiaia, della malattia, del pensionamento, della perdita dell’indipendenza e del fantasma della morte. Anche in questo caso fa difetto la mancata contestualizzazione dal punto di vista storico e socio-economico.
Hollywood è una miniserie televisiva statunitense drammatica e storica del 2020, creata da Ryan Murphy e Ian Brennan, pubblicata su Netflix, voto: 6,5; l’episodio pilota è significativo in quanto fa emergere tutto il marcio che si nasconde dietro lo splendore di Hollywood, ovvero i lavori più sporchi e degradanti che devono svolgere, in particolare gli immigrati da altri Stati degli Usa e gli afroamericani, per poter avere un impiego nel mondo del cinema. Peccato che la serie non denunci tali occupazioni degradanti, ma le presenti, addirittura, come una buona occasione da non lasciarsi sfuggire.
Nel secondo episodio emerge più distintamente lo sfondo storico, che rende certamente maggiormente significativa la serie. Emerge nel modo più evidente l’ipocrisia puritana, per cui il cinema hollywoodiano estremamente moralista è opera di persone spesso e volentieri decisamente epicuree. Con la “buoncostume” intenta a perseguitare i precari di Hollywood costretti a prostituirsi per sbarcare il lunario e non i ricchi “consumatori” o gli imprenditori che sfruttano la prostituzione. La serie, fin troppo improntata al politically correct, mette in evidenza le diverse forme di discriminazione, tranne la più sostanziale, che è alla base di tutte le altre, ossia la discriminazione di classe, politica nei confronti di chi si oppone da sinistra al regima capitalista e patriarcale.
Nel terzo episodio emerge in modo più evidente come nella prostituzione, quale gavetta sostanzialmente necessaria per i lavoratori che ambiscono affermarsi a Hollywood, vi sia una peculiarità nella prostituzione omosessuale. In questo caso il rapporto servo padrone che si instaura contiene al contempo un momento, per quanto paradossale, di emancipazione nei confronti dell’ipocrita moralismo puritano dominante. In tal modo, però, si rischia di perdere, come nel caso della prostituzione maschile a beneficio di donne, l’aspetto comunque violento e inaccettabile di un tale rapporto. Per il resto rimane significativa la ricostruzione storica di cosa si celi dietro l’apparente perbenismo del mondo hollywoodiano, mentre lascia completamente a desiderare la totale censura verso il clima di caccia alle streghe che di lì a poco avrebbe investito Hollywood.
Nel quarto episodio si affronta seriamente il problema del razzismo. È la stessa Eleanor Roosevelt a denunciare che le condizioni reali degli afroamericani nel Sud non sono cambiati dai tempi dello schiavismo. Emerge il potere di ricatto degli Stati razzisti del Sud, che avrebbero impedito la distribuzione di un film con una protagonista afroamericana e il potere di ricatto del Ku Klux Kan verso chi si fosse assunto un tale rischio. Abbiamo inoltre il tipico grande produttore hollywoodiano che accusa, significativamente, di essere divenuti comunisti i suoi più stretti collaboratori che non lo avevano avvisato che stava per produrre un film con uno sceneggiatore afroamericano. Significativa anche la lezione che il tentare da parte degli afroamericani di venir accettati dalla società razzista statunitense, mantenendo sempre una attitudine subalterna, non paga, mentre è essenziale la solidarietà con gli altri che subiscono le analoghe discriminazioni razziali.
Da una parte la serie si concentra positivamente in una lotta contro ogni forma di discriminazione, a eccezione, naturalmente, di quelle strutturali di classe, dall’altra cerca comunque di salvare il sedicente “sogno” americano e il suo vergognoso interclassismo. Per cui persino il grande sfruttatore della prostituzione e il padrone di una major hollywoodiana si scoprono improvvisamente pronti a sacrificarsi per i diritti civili.
La serie ha un finale consapevolmente hollywoodiano in cui tutte le discriminazione, tolte quelle strutturali, sembrano cancellate negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, cioè proprio mentre stava per scatenarsi una delle più famigerate caccia alle streghe della storia. Naturalmente in tal modo il film finisce con l’essere una vera e propria apologia degli Stati Uniti, facendone sparire, per magia, tutte le contraddizioni. D’altra parte il sostenere la lotta contro le discriminazioni di genere, razziali o omofobe resta, comunque, l’aspetto più significativo della serie.
Il giovane Wallander, serie svedese per Netflix, voto: 6,5; ancora una storia che ha come protagonista un uomo impegnato negli apparati repressivi di uno Stato caratterizzato dalla dittatura della borghesia. Abbiamo così un punto di vista e una visione del mondo che nasce da chi ha scelto di divenire un agente impegnato nella difesa dell’ordine costituito, impregnato sulla salvaguardia degli individui (proprietari) e della loro proprietà privata. Nel caso specifico non abbiamo una denuncia degli apparati repressivi dello Stato, ma al contrario il tentativo di reinterpretarli in una prospettiva democratica. Con un protagonista recluta che svolge con estrema meticolosità la sua professione. È molto legato a un suo collega afrodiscendente, vive in una banlieue, fa passare un guaio a un ricco proprietario che pretenderebbe, irrealisticamente, di umiliarli per le loro basse paghe. Si preoccupa anche di cercare di aiutare un suo vicino di casa, in quanto potrebbe essere fra i pochi a poter uscire da quel quartiere-ghetto. Infine vediamo la polizia insultata dagli antirazzisti, perché assicurano la libertà di manifestare ai razzisti e che poi interviene anche duramente contro i fascisti che vorrebbero aggredire gli immigrati. Certo, probabilmente, la polizia svedese non sarà così terribile come quella statunitense, ma questa sua rappresentazione così apologetica appare francamente del tutto irrealistica e omissiva.
Nonostante le apparenze socialdemocratiche nordiche, il film dimostra come i paesi scandinavi siano ormai subalterni al modello fascistoide americano, per cui si esalta come vero uomo il membro degli apparati repressivi dello Stato che è pronto a infrangere qualsiasi norma, legale, etica e morale pur di combattere il nemico terrorista che è sempre esterno, piuttosto che occuparsi del nemico fascista interno. Così Wallander diviene responsabile del coma del suo collega e amico, sotto la sua diretta responsabilità, che abbandona a una carica di una masnada di nazisti locali, per inseguire contro ogni logica un sospettato colpevole di un altro delitto. Così, in nome della guerra di civiltà al terrorismo internazionale tutto diviene lecito, anche la trattativa con il boss mafioso locale.
La serie si riprende sensibilmente già nel terzo episodio, in cui il protagonista, dopo aver compreso che l’immigrato clandestino è stato costretto a compiere il delitto, intuisce che l’assassinio del giovane era funzionale ai disordini creati dall’estrema destra contro gli immigrati nei giorni immediatamente successivi. Resta l’apologia, assolutamente irrealista e tutta volta a confondere l’eccezione con la regola, della giovane recluta idealista che sarebbe entrata in polizia esclusivamente per poter sostenere i giovani nelle banlieue!?
Nel quarto episodio, dopo l’assassinio a sfondo razzistico dell’immigrato clandestino coinvolto nel delitto, emerge come anche in Svezia a tutti i livelli si stia diffondendo, con la scusa della guerra al terrorismo, un razzismo diffuso, anche fra la classe dirigente, nei riguardi degli immigrati. Ancora più interessante è l’emergere del ruolo probabilmente pesantemente negativo nella vicenda di un giovane miliardario che si sarebbe fatto benefattore degli immigrati clandestini. Emerge, inoltre, che i vertici della polizia sembrano voler chiudere il caso, dopo aver sbattuto il mostro in prima pagina, senza voler risalire ai mandanti. Anche in questo caso, del tutto irrealisticamente, emergono almeno tre poliziotti intenzionati ad andare fino in fondo nella questione anche a loro rischio e pericolo.
Nel quinto episodio emerge il ruolo sempre più criminale della più ricca e potente famiglia svedese, che sembra coprire i propri delitti con attività di beneficenza a favore degli immigrati clandestini, di cui, peraltro, le imprese per prime hanno bisogno. Resta l’inverosimiglianza del poliziotto idealista, che fa di tutto per cercare di dare una prospettiva da calciatore a un ragazzo del suo slum, senza rendersi conto che ce ne sono a centinaia di miglia nelle banlieue di tutto il mondo e che impegnando tutte le proprie energie per salvarne uno, non si fa nulla per mettere in discussione un sistema che crea centinaia di migliaia di giovani senza prospettive. Anzi, il protagonista si giustifica il proprio ruolo di difensore armato di tale sistema, con la scusa che potrebbe essere utile per salvare un singolo giovane in difficoltà, solo perché abita nello stesso palazzo ed in confidenza con la madre.
L’ultimo episodio, al solito, recupera in senso conservatore la serie, inserendo una improbabile differenziazione fra miliardari buoni e cattivi. Tanto che il cattivo appare quasi una mela marcia, mentre il buono diviene quasi un paladino della lotta al razzismo. Rimane, comunque, che il crimine sfrutta i richiedenti asilo e si rifornisce di armi grazie a immigrati provenienti dalla ex Jugoslavia, anche se esisterebbero emigrati criminali buoni, in quanto collaborano con l’eroe sbirro. Il suo conclusivo abbandono della polizia non sembra nascere da una reale presa di coscienza. Anzi, sembra più condizionato dal fatto che la polizia ha le mani legate da leggi garantiste che impediscono una reale persecuzione dei crimini.
La regina degli scacchi, miniserie televisiva drammatica statunitense creata da Scott Frank e Allan Scott, distribuita in streaming il 23 ottobre 2020 su Netflix, voto: 6,5; la serie, in sette episodi, è basata sull'omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis. La regina degli scacchi mostra l’eccezionale determinazione di una bambina che, nonostante le gravi disgrazie che ha vissuto, riesce a emergere e imporsi in un mondo, quello degli scacchi, fino a quel momento essenzialmente maschile. Le sue capacità sono legate a una mentalità estremamente analitica e sembrano in qualche modo connesse agli psicofarmaci che usavano nell’orfanotrofio, in cui è costretta a crescere, per sedare i bambini, secondo una pratica negli anni Cinquanta piuttosto diffusa negli Stati Uniti. Tanto che non si capisce quanto le sue eccezionali doti in questo gioco dipendano dagli psicofarmaci di cui, fin da piccola, abusa. Interessante il ritorno in auge di un gioco che aveva conosciuto un eccezionale successo ai tempi della guerra fredda, per poi dissolversi come neve al sole insieme al blocco sovietico dove aveva conosciuto la sua massima fioritura.
Nel secondo e nel terzo episodio crescono i dubbi sul messaggio della serie e sulla sua costruzione formale che mira all’immedesimazione dello spettatore con la protagonista. Quest’ultima rappresenta il mito americano, ossia il puro sogno che anche il più povero può, con l’impegno, scalare rapidissimamente la scala sociale. Tanto più che passa anche il concetto che pur di arricchirsi al più presto i giovani impegnati ad affermarsi nel mondo del lavoro facciano bene a cercare, con ogni mezzo anche illecito, di sottrarsi al diritto all’istruzione. Dando l’idea che solo una preparazione ultraspecialistica e del tutto improntata alla sua spendibilità immediata nel luogo di lavoro possa permettere un’ascesa sociale dei ceti subalterni. I quali, per non perdere tale opportunità di riscatto sociale, farebbero bene a rinunciare del tutto alla socialità, alla libido e persino a sentimenti e passioni. Anzi, per riuscire a realizzare il sogno americano, sarebbe del tutto lecito servirsi di stupefacenti che consentirebbero al lavoratore di raggiungere standard di produttività sovraumani che gli permettano di vincere la concorrenza. Peraltro questa balorda idea è del tutto irrealistica e inverosimile per il caso in questione, in quanto nel gioco degli scacchi è particolarmente essenziale la lucidità e, da questo punto di vista, alcol e psicofarmaci non sono di nessunissimo aiuto. Peraltro il far credere il contrario, favorisce l’utilizzo del doping anche fra i più giovani per prevalere nelle gare agonistiche. Infine si fa passare la balorda rappresentazione per cui la donna, per poter superare il proprio gap di genere, in una società patriarcale e maschilista, dovrebbe sviluppare sino alle estreme conseguenze gli aspetti più negativi del maschio.
Nel quarto e quinto episodio emerge come la mania per gli scacchi sia una sorta di alienazione, utile per un asociale, ma che impedisce di stabilire rapporti reali con le persone. Inoltre, emerge anche come chi dedica tutte le proprie energie agli scacchi e non conduce una vita sana e saggia rischia di bruciarsi troppo presto. Tanto più che resta l’interrogativo di fondo, ovvero una volta che si è raggiunta la vetta a cosa altro si può aspirare se si è fatto solo il giocatore di scacchi? Infine emergono i soliti pregiudizi tipici degli americani verso i sovietici, che da una parte non sarebbero liberi, vivendo in uno Stato di polizia, dal quale i campioni dovrebbero essere sempre controllati per non fuggire. In secondo luogo sarebbero delle macchine, ossia degli esseri disumani. Peraltro anche l’eroina ci viene presentata come una sorta di macchina. In tal modo la rappresentazione si problematizza e diviene anche più interessante, anche se non si capiscono realmente i reali motivi di interesse della serie.
Nonostante tutto proceda abbastanza prevedibilmente verso lo hollywoodiano lieto fine, bisogna dire che inaspettatamente il film, a differenza dei consueti prodotti statunitensi, non solo non disumanizza l’avversario, ma finisce per riconoscerlo per diversi aspetti come addirittura superiore. Un vero e proprio miracolo, come il rilancio dello sport tipico dei sovietici, il gioco degli scacchi, proprio a partire dagli Stati Uniti che, vincendo la guerra fredda, lo avevano sepolto apparentemente per sempre. Molto significativo il fatto che, per poter vincere, gli statunitensi debbano seguire il modello di civiltà offerto dai sovietici, abbandonare l’individualismo e fare gioco di squadra. Quasi commuovente la sportività e l’eleganza con cui i sovietici accettano la sconfitta e si complimentano con la rappresentante del paese nemico. Significativo il fatto che il Dipartimento di Stato statunitense invii, esattamente come aveva fatto precedentemente l’Urss, un rappresentante della Cia per evitare che la campionessa potesse avere qualsiasi rapporto con il “nemico”. Interessante, infine, come la protagonista non accetti nessun in modo opportunistico di divenire strumento della guerra fredda, per poter avere dei vantaggi personali. Anzi si sfila completamente da ogni tentativo di utilizzare la sua vittoria come una prestigiosa affermazione indiretta nella guerra contro l’“impero del male”, che appare molto più umano sotto diversi aspetti di quello occidentale. Resta, però, il fatto che il film dia troppo per scontato e non evidenzi a sufficienza che solo una volta, in realtà, un sovietico fu sconfitto in una finale da uno statunitense. Evento che è divenuto storico proprio perché non era mai avvenuto prima.
The Undoing – Le verità non dette di Susanne Bier, miniserie tv in 6 episodi, Usa 2020, distribuita in Italia su Sky, voto: 6,5; decisamente ben confezionata e ricca di suspence, a tratti tocca aspetti sostanziali, come l’ipocrisia e la totale spietatezza della classe dominante e degli avvocati che la difendono e l’estrema difficoltà a condannarne un membro, anche quando si è coperto del più spaventoso delitto. Peccato che questi aspetti sostanziali finiscano per venire in buona parte meno con la conclusione della serie, che cerca di far rientrare i sospetti sulla classe dominante, scaricando tutta la colpa su uno psicopatico a essa, di fatto, esterno. Il che sembra dimostrare come anche in una serie sia difficilissimo condannare la classe dominante anche quando appaiono nel modo più evidente le sue imperdonabili colpe.
Challenger mini serie documentaria statunitense 1x4, voto: 6+: ben fatto, interessante e al contempo avvincente documentario sul più tragico incidente nei viaggi spaziali statunitensi. Il film è un interessante saggio storico sui devastanti anni Ottanta, funestati dalla presidenza Reagan. Alle cui origini vi è la svolta conservatrice dopo due decenni di lotte sociali che ha portato alla piena affermazione egemonica dell’ideologia neoliberista. Così, da una parte vediamo che, per la prima volta, la Nasa è stata costretta ad aprire ad astronauti donne, afro discendenti o di origine asiatica, quale riforma imposta dai movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. Si tratta, comunque, di una riforma improntata all’ideologia neoliberale, per cui le concessioni sono funzionali a dividere il movimento e a portarlo a non essere caratterizzato da grandi obiettivi universalisti – in grado di parlare alla maggioranza del paese e del globo. In tal modo il grande movimento di contestazione è stato frammentato in tanti piccoli movimenti particolaristici, che si rivolgono a minoranze e tendono a isolarsi. Inoltre emerge la spettacolarizzazione e mercificazione dello spazio, per imporre a livello internazionale il modello statunitense. Così “la conquista dello spazio” si è rivelata una micidiale arma di distrazione di massa dinanzi alle precedenti lotte sociali e come compensazione dinanzi alle controriforme portata avanti dal neoliberismo. Così la moltiplicazione dei viaggi spaziali riesce al prezzo di utilizzare – per risparmiare – dei razzi propulsori estremamente pericolosi che, non a caso, i sovietici non si erano mai sognati di utilizzare. Per cui la tragedia non poteva che risultare decisamente prevedibile all’interno dell’insana logica del rischio calcolato che si era adottata. Così, dopo aver sfiorato più volte la tragedia – senza rendere pubblici questi potenzialmente decisivi campanelli d’allarme – il disastro già a lungo dilazionato non poteva che esplodere. Anche in questo caso, naturalmente, tutto verrà insabbiato, per impedire che si individuino le reali responsabilità, che debbono essere ricercate nella smania di apparire, più che di essere, e nella volontà di risparmiare.
Il secondo episodio risulta un po’ noioso e ripetitivo, in quanto non aggiunge nulla di veramente significativo al precedente. Anche se si accentua il fatto che, nella società capitalista, per finanziare i viaggi nello spazio sia necessario corrompere i parlamentari, che li finanziano, e mantenere alto l’interesse dell’opinione pubblica, con il mito che si stanno gettando le condizioni per cui anche l’uomo comune potrà, in un futuro prossimo, viaggiare nello spazio. In tal modo, nei viaggi spaziali vengono introdotti personaggi non qualificati, come appunto congressisti o il rappresentante dell’uomo qualunque. Inoltre l’esigenza di tagliare i costi e di spettacolarizzare le missioni spaziali, portano ad aumentare sempre più il rischio calcolato, il quale finisce necessariamente per comprendere l’incidente mortale. Infine, significativo come nella società di allora fosse ancora molto elevata, grazie alle lotte dei decenni precedenti, il ruolo sociale dell’insegnante, della cui centrale funzione sociale parla con toni quasi apologetici persino Ronald Reagan. Se pensiamo all’attuale discredito di tale funzione sociale, ci rendiamo anche conto di come siano cambiati in modo drastico i rapporti di forza fra le classi sociali anche sul piano sovrastrutturale della lotta delle idee.
Il terzo episodio conferma che il materiale significativo poteva essere tranquillamente rappresentato in un documentario di due ore, piuttosto che in una diluita e alquanto noiosa serie di 4 puntate. Inoltre il solito metodo postmoderno che esclude il narratore esterno – entro una certa misura onnisciente – non consente di farsi un'idea determinata di quanto è avvenuto, né soprattutto di esporre e poter cogliere l’essenziale della vicenda. Così le poche notizie significative sono mescolate ad altre del tutto superflue e alquanto avvilenti, visto che spesso mostrano parenti delle vittime raccontare tutti eccitati i loro ricordi e la loro felicità per un’avventura conclusasi in modo tanto drammatico. Colpisce la totale impreparazione della Nasa, incapace di prevedere il tempo, anche da un giorno all’altro, e di sistemare in tempi non biblici dei malfunzionamenti del tutto prevedibili. L’impressione è che le varie attività necessarie alla missione siano state date in appalto a una serie di imprese private che, per risparmiare sui costi e massimizzare i profitti, offrono servizi incredibilmente inefficienti. Significativo anche lo strutturale malfunzionamento di un ente pubblico, di importanza strategica, gestito secondo la logica privatista, tipica del capitalismo, per cui le ultime parole non spettano a esperti e scienziati, ma a general manager e, anzi, si invitano gli ingegneri nel dare i loro pareri a ragionare da manager, per cui l’essenziale è che lo “show must go on”, anche perché vengono pagati proprio a tale scopo.
La quarta puntata affronta, infine, le responsabilità del disastro. Emerge evidentemente la totale reticenza e impunità dei vertici della Nasa, che ancora oggi giustificano il loro criminale “rischio calcolato”. Decisamente omertoso e in fondo connivente appare il presidente degli Stati uniti Reagan che spinge il presidente della commissione d’inchiesta parlamentare a difendere a priori la Nasa, in quanto si tratterebbe di eroi nazionali e poi, in ogni caso, “the show must go on”. Sfortunatamente fra i membri della commissione vi era anche uno spirito libero, nobel per la fisica, che dimostra con un semplice esperimento la colpevole scelta della Nasa di far partire, nonostante la gelata notturna, e il parere contrario della ditta appaltatrice dei missili, la missione. Tanto che uno degli esperti, chiamati a testimoniare nel documentario sostiene che più che un incidente si sia trattato di un omicidio colposo. Al fondo della questione vi erano le menzogne della Nasa che, per farsi finanziare le costosissime missione, aveva promesso un numero di voli assolutamente irrealizzabile, che ha costretto a far partire molte missioni in assenza delle necessarie minime condizioni di sicurezza.
Un volto, due destini – I Know This Much Is True miniserie televisiva statunitense del 2020, tratta dal romanzo del 1998 La notte e il giorno di Wally Lamb, trasmessa su Sky Atlantic, voto: 6,5; intrigante, dura e realistica, la serie nel primo episodio ci fa assistere a come il fratello con problemi psichici del protagonista nella tradizione del pacifismo religioso integralista statunitense arriva a sacrificarsi una mano per cercare di impedire la Guerra del golfo. Per la società imperialista è solo un matto pericoloso, da rinchiudere in un manicomio privato, per il fratello che conosce la loro tragica vita infantile è, invece, il segno che il fratello per la prima volta ha superato la propria costante incertezza e ha portato a termine un’azione, con cui ha comunque affermato la propria libertà. Naturalmente l’oppressiva società imperialista non la vede così e dopo aver tentato invano di riattaccare all’uomo la mano sacrificata, lo considera un pericolo pubblico, rinchiudendolo in un manicomio criminale dove rischia di perdere completamente il senno e la dignità.
Purtroppo già nel secondo episodio e ancora più nel terzo gli spunti significativi e le contraddizioni reali che sembravano manifestarsi dal primo episodio vengono meno. L’opposizione alla guerra del fratello viene ridotta a un puro atto di follia, di una persona che pensa solo a se stessa (!?). La critica al manicomio criminale come istituzione totale rientra anch’essa nelle paranoie di un folle. Peraltro, poi, è tutt’altro che una istituzione totale, visto che vi si trovano una valida assistente sociale e una disponibilissima e materna psicologa che si fanno in quattro per aiutare i protagonisti. Senza contare che il protagonista, su cui è essenzialmente incentrata la serie, si rivela gratuitamente crudele. In tal modo la vicenda perde sempre più di interesse, venendo meno tutti i temi sostanziali. Resta solo l’abilità dell’attore protagonista a rappresentare al contempo i due fratelli così diversi e così eguali, una notevole abilità, ma del tutto fine a se stessa.
Fortunatamente nel quarto episodio la serie si riprende. Alcuni aspetti che apparivano gratuitamente crudeli del protagonista trovano una spiegazione, per quanto non sempre verosimile. Le critiche del fratello matto alla guerra appaiono, comunque, decisamente più sensate delle posizioni filoimperialiste e improntate al fascismo quotidiano dell’americano qualunque. Per quanto assistente sociale e psicoanalista siano inverosimilmente in gamba e a completa disposizione del protagonista, il manicomio criminale, almeno per il fratello riassume i suoi connotati di istituzione totale. Inoltre nell’accanimento della corte, che appare pronta a tutto pur di corrispondere alle aspettative dell’opinione pubblica, coinvolta nel caso attraverso la stampa, riemerge un po’ di sana critica sociale. Infine, i comportamenti un po’ inverosimili del protagonista, a tratti eccessivamente altruista a tratti spietatamente individualista, finiscono per trovare un equilibrio, nella tragica situazione familiare in cui i fratelli sono cresciuti e dai sensi di colpa, che insorgono nel protagonista quando comprende di essere corresponsabile del tragico destino suo e del fratello, con il suo darwinismo sociale che, peraltro, diviene verosimile considerando quanto tale posizione ideologica sia diffusa negli Stati Uniti.
Com’era prevedibile la serie tocca il fondo, almeno per il momento, con il quinto episodio, dove emerge il profondo razzismo ancora esistente nei confronti degli italiani emigrati negli Stati Uniti, soprattutto se meridionali. La rappresentazione che si dà dei siciliani emigrati negli Stati Uniti tre generazioni fa è davvero insostenibile. Non ci sono nemmeno i soliti luoghi comuni e pregiudizi, mai i siciliani solo completamente disumanizzati. Peraltro si accentuano i tratti positivisti già presenti in nuce negli episodi precedenti, per cui gli attuali drammi della famiglia deriverebbero da una maledizione lanciata contro i discendenti da una donna siciliana, ridotta addirittura a una strega.
La serie si salva nell’ultimo episodio, grazie alla capacità egemonica statunitense, che li porta, al contrario degli europei, a ricordare che la tragedia è tale solo se si conclude con la catarsi. Anzi più esplodono le contraddizioni più l’inattesa catarsi è liberatoria. Sulla superstizione si afferma la visione scientifica del mondo della psicologa, il fratello malato è in parte redento dalla violenza machista che non ha dato spazio alla sua omosessualità. Infine, viene meno finalmente la spiegazione positivista e il mistero si scioglie in senso progressista. Sono i pregiudizi razziali, anche se vengono fondamentalmente confinati alla comunità italoamericana, e in particolare l’oppressione degli amerindi a costituire il rimosso che tante contraddizioni ha aperto nel processo di formazione del protagonista. Peccato che, come di consueto, nella catarsi ci sia una caduta ideologica, che porta acqua al mulino della reazionaria concezione mitologico-religiosa del mondo.
Succession 2x10 serie televisiva statunitense ideata da Jesse Armstrong e prodotta da Will Ferrell e Adam McKay, su Sky Atlantic premiatissima, voto: 6,5; nella seconda serie emerge con maggiore chiarezza la natura decisamente berlusconiana del vecchio magnete che diviene decisamente il protagonista. La questione della successione pare rinviata sine die. La serie resta una descrizione molto significativa e critica di tutte le bassezze, vigliaccherie, crudeltà e cinismi da cretino che caratterizzano la classe dominante nei paesi a capitalismo maturo. Resta il grave limite di non riuscire a immaginare nessuna uscita in senso progressivo, tanto che sembra di assistere a una rappresentazione da tardo impero. Significativa la metafora del vecchissimo padrone che, per quanto malato e indebitato, mantiene nelle sue mani tutto il potere, anche perché non ha nessuno di sensato e capace cui lasciarlo. In seguito la serie sembra aver esaurito ciò che di sostanziale aveva da comunicare e comincia a divenire noiosa e soporifera, con episodi che sembrano fatti per allungare il brodo. Questa vera e propria fiera del cinismo da cretino, per quanto possa essere una decisa critica della classe dominante, finisce in qualche modo con il naturalizzarsi, dando l’impressione che in un tal mondo si possa solo essere un predatore o una preda, e dal momento che queste ultime appaiono ingenue e sciocche si finisce con il giustificare il grande predatore, sempre pronto a giocare al gatto con il topo anche verso i suoi figli.
Dopo aver raggiunto il fondo con l’ottavo episodio la seconda serie dà un sussulto di vita, non solo portando sino alle estreme conseguenze l’homo homini lupus della società capitalista, ma facendo finalmente emergere una voce fuori dal coro, quella del fratello del grande impresario, l’unico che ha il coraggio di dire la verità sulla micidiale fabbrica del falso messa in piedi da Logan.
Con il nono episodio la serie riprende decisamente quota. Molto significativo è il confronto davanti alla commissione di indagine del senato in cui, dinanzi agli attacchi dei democratici radicali per i gravi abusi subiti dai lavoratori e alla denuncia dello sfruttamento e della ricerca esclusiva del profitto, gli imprenditori rispondono che proprio su questo si fonda il sistema statunitense e che per avere un’informazione pubblica bisognerebbe andare in Russia o in Cina. Paradossalmente, proprio questa presa di posizione di rivela vincente e spinge i repubblicani a prendere le difese della grande impresa sotto accusa per i gravissimi abusi sui lavoratori più deboli, dalle donne agli immigrati. Significativo anche il dialogo, che mostra tutta la spietatezza del padronato, fra la rappresentante della grande impresa e la povera vittima che si era decisa a denunciare i gravissimi delitti compiuti dall’azienda contro i lavoratori.
Anche l’ultimo episodio è di buon livello. Significativo il rimprovero del padre al figlio, il quale non sarebbe mai stato un buon imprenditore in quanto non sufficientemente killer. Inoltre abbiamo infine una sana catarsi, in quanto il cinismo del vecchio padrone è così disumano, da spingere qualcuno del suo cerchio magico a denunciarne i terribili crimini compiuti a danno dei lavoratori.
I May Destroy You serie televisiva drammatica britannica e statunitense di genere drammatico creata e scritta da Michaela Coel 1x12, inedita in Italia, anche se ha avuto molte nomination come miglior miniserie, voto: 6,5; la serie è incentrata su una giovane scrittrice inglese di origine africana. Nel primo episodio ci viene presentato come un personaggio fuori dagli schemi, che vive una vita alternativa e poco disponibile a scendere a patti con la società capitalista. Peraltro subisce, nonostante la fama conseguita con la sua prima opera, discriminazione razziali. La serie pur presentandoci personaggi piuttosto fuori dagli schemi, sembra piuttosto povera di contenuti sostanziali.
Negli episodi dal 2 al 5 emerge il tema sostanziale della serie, cioè il contrasto alla violenza sessuale e, più in generale, a machismo e maschilismo. È interessante apprendere come sia difficile, innanzitutto, essere consapevoli della violenza sessuale e della sua gravità. Avere poi la forza di denunciarla e di essere in grado di reggere alle conseguenze che comporta, cioè il non essere creduti tanto dalle autorità competenti, quanto da altre vittime o potenziali tali. In tal modo la serie, pur non perdendo in ritmo, riesce ad acquisire maggiore interesse e spessore.
Il sesto episodio segna una caduta di tono, in quanto è quasi interamente impegnato in un lungo e prolisso detour su un personaggio secondario, che peraltro sembra sfruttare la piaga della violenza sessuale a proprio vantaggio, denunciando un falso stupro. Certamente, in particolare come nel caso in questione, l’accusa di una donna caucasica, in buona parte falsa, verso un afro discendente rende la problematica più complessa, ma al contempo indebolisce l’effetto denuncia che costituiva la tematica fondamentale della serie.
The Politician 1x8 è una serie televisiva statunitense creata e prodotta da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan, distribuita da netflix, voto: 6+. L’episodio pilota, al solito molto intrigante, lancia una serie iperrealista che denuncia lo spietato e cinico arrivismo che domina la società civile negli attuali Stati Uniti d’America. In tale contesto la verità si svuota di significato dal momento che ciò che conta sono esclusivamente le apparenze. Al solito manca, però, del tutto la prospettiva che vi possa essere fra i giovani – che appaiono i più dominati da tale logica iperindividualista – anche un solo personaggio che rompa con un ambito in cui le piccole ambizioni individualiste hanno completo agio sulle grandi ambizioni collettiviste. Si finisce così, magari involontariamente, per naturalizzare tale società, dove dominano la volontà di potenza, il darwinismo sociale e la società della giungla, quasi che un altro mondo non sia più che mai necessario.
Nel secondo episodio si esaspera ulteriormente il completo rovesciamento fra realtà e apparenza, al punto che la maggior parte dei personaggi finiscono per il ritenere decisamente preferibile una finzione ben congeniata alla ricerca di una verità, che appare il più delle volte amara e inaccettabile. Tale impostazione sofistica è a tal punto dominante che persino il personaggio principale – un arrivista pieno di soldi che cerca in ogni modo e a qualsiasi prezzo di divenire presidente degli Stati Uniti – finisce, paradossalmente, per apparire meno peggio rispetto al livello ancora più basso e meschino degli altri personaggi che lo circondano. L’aspetto peggiore della serie pare proprio questo, ovvero cercare di naturalizzare l’esistente, facendo apparire il meno peggio l’unica opzione realmente possibile e desiderabile.
La serie assume sempre più la forma di un’apologia indiretta del “cinismo da cretini” di cui buona parte della popolazione statunitense pare essere affetta. Come si suol dire, male comune mezzo gaudio, in particolare per i più ricchi che, in un mondo in cui vige il principio dell’homo homini lupus – ossia un principio tanto negativo da rendere positivo persino l’assolutismo – avendo più mezzi hanno maggiori possibilità di imporsi in questo darwinismo sociale che non premia i più capaci (a adattarsi), ma chi parte – per essere membro di una famiglia abbiente e intellettuale – con un notevole vantaggio rispetto agli altri.
Nel quarto episodio abbiamo l’ormai consueta ripresa e attualizzazione del grande romanzo anglosassone stile vanity fair. Naturalmente viene messa a nudo e denunciata nei termini più radicali la spaventosa ipocrisia che domina fra le classi dominanti e si estende anche a una parte significativa delle classi dominate. Il problema è che i personaggi non negativi e non compiutamente travolti da cinismo e ipocrisia sono personaggi delle classi dominate che, in quanto tali, non sono presi sul serio, per la loro infantile ingenuità, a causa di un’attitudine degli autori da nipotini di padre Bresciani.
Il quarto episodio rappresenta una decisa caduta di tono essendo realizzato unicamente per allungare, rendendolo più insipido, il brodo. L’episodio è un inutile detour, gratuito e pesantemente ripetitivo. Peraltro l’episodio contribuisce a rendere ancora meno realista e appassionante una sfida elettorale, combattuta all’ultimo sangue, per eleggere un mero rappresentante degli studenti.
La serie continua a perdere sempre più drammaticamente quota con un episodio in cui si sviluppa un ulteriore detour, almeno apparentemente ancora più gratuito del precedente. Peraltro nell’episodio emerge la cattiveria assoluta di una serie di personaggi – guarda caso tutti appartenenti alle classi subalterne – del tutto inverosimile e, anch’essa, decisamente gratuita. Il tutto rende alquanto noiosa la puntata e fa sorgere il dubbio se abbia ancora senso seguire una serie del genere, di cui, peraltro, è già stata realizzata la seconda stagione.
Con la seconda parte del settimo episodio la serie torna a sviluppare il proprio filone principale, ovvero la denuncia del cinismo della società contemporanea, che finisce però con sostanzialmente assolvere il politicante, in quanto se così fan tutti, lui almeno lo fa con un obiettivo ben preciso e con un fine non apertamente particolaristico. In tal modo però, si rischia il rovescismo del rivalutare, nell’ottica del meno peggio, anche il politicante più assetato di potere.
L’ultimo episodio è funzionale a lanciare la seconda serie. Abbiamo di nuovo la politica a stelle e strisce in tutto il suo squallore, che però continua a essere, per quanto paradossale possa apparire, l’unico obiettivo per dare un senso alla propria esistenza per diversi giovani americani. In mancanza di grandi ambizioni, persino l’arrivismo sfrenato delle piccole può sembrare qualcosa di sostanziale su cui impegnarsi. Alla fine non si sa se piangere o ridere.
Euphoria è una serie televisiva statunitense creata e scritta da Sam Levinson e distribuita in Italia da Sky Atlantic in otto episodi e due special, voto: 6; la serie rappresenta, in modo molto diretto e crudo, la vita travagliata di un gruppo di adolescenti statunitensi. Affronta in maniera aperta le problematiche della droga e del sesso fra gli adolescenti, senza però un reale approfondimento dal punto di vista economico e sociale.
La serie prosegue nella sua crudezza che la contraddistingue. Inquadra bene, dal punto di vista i personaggi, mettendone a nudo le debolezze. Denuncia il maschilismo e machismo quotidiano e le diverse forme di violenza che subiscono le donne. Ma mostra anche, in modo significativo, la volontà di riscatto dalla subalternità. Significativa anche la denuncia di come l’industria della pornografia tenda a naturalizzare la violenza nei confronti delle donne. Resta il dubbio che mostrando tanti adolescenti così problematici e nessun caso realmente alternativo si finisca, magari involontariamente, per normalizzare e naturalizzare questa situazione di disagio giovanile, talvolta, peraltro, anche molto accentuato.
Il terzo episodio non delude le aspettative, la serie prosegue il suo corso, approfondendo le perversioni maschili, il fascismo e sessismo quotidiano, la discriminazione dei transgender, il dramma della droga e i problemi di una generazione di adolescenti privi completamente di spirito dell’utopia e del principio speranza in un mondo migliore. Perciò vivono completamente schiacciati nella tenebra del quotidiano, dominati dalle apparenze e convinti che si possa essere felici anche disinteressandosi dei problemi politici e sociali e senza grandi ambizioni, come quella di contribuire alla lotta per l’emancipazione umana. In tale quadro sconfortante non sembrano esserci reali vie di uscita, se non in una storia d’amore adolescenziale magari interrazziale.
Nel quarto episodio emerge ulteriormente la violenza connessa alla sfera della sessualità, legata al permanere della struttura patriarcale e machista all’interno di una società maschilista. Per cui se da un lato la repressione della sessualità sembra ormai del tutto superata, rimane ancora un radicato pregiudizio “etico” e moralistico che tende a colpevolizzare la ricerca del piacere da parte della donna. Significativo anche il perverso rapporto fra una sessualità distorta e tutta l’ipocrisia tipicamente puritana. Egualmente degno di nota è la rappresentazione realistica del fascismo quotidiano, espressione tipica della classe dominante. Colpisce, infine, come le tendenze transgender di un bambino, siano cercate di curare dalla madre facendolo rinchiudere in un ultra repressivo ospedale psichiatrico. Resta in definitiva ancora molto valida la critica di Marcuse alla desublimazione repressiva caratteristica della società a capitalismo maturo, che tende a ridurre l’individuo, come gli adolescenti della serie, a un uomo a una sola dimensione.
Nel quinto episodio vediamo come una storia d’amore, per quanto non tradizionale, possa dare la forza sufficiente per uscire dal tunnel della droga. Dall’altra parte abbiamo l’esempio negativo di una storia “d’amore” fra due opportunisti, la prima che intende fare la mantenuta, il secondo che mira a instaurare l’unico rapporto che conosce, quello fra servo e padrone. Quest’ultimo è dominato come il tiranno dal desiderio sessuale, il che gli rende difficile mantenere le apparenze di ben pensante alto borghese. Anche in questo episodio non usciamo da relazioni di coppia, d’amore o di sesso che, per quanto ben descritte, rendono un po’ asfittico il respiro della serie.
Nel sesto episodio la serie diviene più cruda che mai. Emerge chiaramente la violenza maschilista e del fascismo pariolino che si impone sul diritto all’emancipazione anche sessuale della donna e approfitta dell’oppressione dei più deboli, come la giovane transgender. Anche in questo caso c’è indubbiamente del realismo, anche se si tratta di un realismo assolutamente non socialista, in quanto non si palesano significative reazioni all’affermarsi della volontà di potenza del più forte e più violento.
Il settimo episodio è piuttosto soporifero, non aggiunge nulla di sostanziale ai precedenti, anche se continua nell’indagine attenta delle turbe psicologiche di alcuni rappresentanti, più o meno tipici, dei moderni adolescenti. Significativa la denuncia di tutte le malefatte del principale rappresentante tipico delle classi dominanti, che finisce per essere ben peggiore degli stessi piccoli trafficanti di droga e riesce a utilizzare per i propri loschi fini anche le leggi e le forze dell’ordine (borghese).
L’ottavo episodio si chiude un po’ sottotono, troppe questioni restano irrisolte, per lasciare spazio a una seconda serie, poi bloccata dalla pandemia. L’ultimo episodio è più ricercato dal punto di vista formale, con un significativo montaggio parallelo, che però finisce per non essere realmente funzionale dal punto di vista della storia, rischiando di apparire un po’ superfluo. Per quanto riguarda la catarsi in alcuni casi si realizza, nella forma di commedia, in altri, più realisticamente avviene solo in parte in modo più drammatico e realistico. Il problema è che rimanendo tutto sostanzialmente incentrato sui rapporti di coppia, considerati in modo sostanzialmente astratto dalle problematiche politiche e sociali, la serie conferma di avere un difetto strutturale di spessore, per quanto possa apparire a tratti anche decisamente cruda.
Nel primo episodio speciale tutto è ridotto al minimo per rispettare i protocolli durante la pandemia. La serie subisce un profondo mutamento, abbandona il suo frizzante, ma un po’ troppo superficiale, mix di adolescenti, sesso e droga, per divenire un decisamente più profondo, ma altrettanto nettamente più noioso teatro filmato, peraltro ridotto a un interminabile dialogo fra la protagonista, sempre afflitta dalla dipendenza della droga e dal mal d’amore, e un maturo ex tossicodipendente afroamericano. Quest’ultimo ha superato la dipendenza dalla droga, è decisamente più maturo, ha vissuto in anni certamente più rivoluzionari e non è meticcio come la protagonista. Ha le idee decisamente più chiare e per la prima volta introduce nel film una discussione più approfondita e critica sulla dipendenza dalla droga e, altrettanto per la prima volta, riflessioni più elevate dal punto di vista sociale e politico. Ma su questo piano il dialogo con l’adolescente completamente spoliticizzata e di fondo inconsapevole, non può svilupparsi e peraltro, per quanto decisamente più avanzato, l’afroamericano ha diverse contraddizioni, a partire da quella religiosa, che lo rendono meno credibile ed efficace e lo rivelano, nonostante la buona volontà, un socialconfuso.
La serie è seriamente compromessa dal secondo e ultimo episodio speciale. Perciò consiglio, a chi la volesse vedere, di evitare i due episodi “speciali”. Si tratta sostanzialmente di un lunghissimo e molto monotono monologo dell’altra protagonista, Jules, tutto incentrato su amore e sessualità e poco significativo anche dal punto di vista dell’indagine psicologica, oltre che decisamente soporifero.
Hunters serie, Usa 2020, 1x10, scritta ed ideata da David Weil, voto: 6; la serie è sicuramente godibile e tocca una questione significativa, il fatto che gli ebrei siano stati costretti a farsi giustizia da soli di diversi criminali nazisti. Significativo anche come diversi di essi vivano tranquillamente, avendo posti di tutto rilievo, ai vertici degli Stati Uniti. Altrettanto significativo è che gli organi repressivi degli Stati Uniti siano scarsamente interessati a ricercarli. Anzi, come osserva un nazista infiltrato ai vertici dello Stato, gli statunitensi sono troppo impegnati a combattere gli afroamericani, che non si occupano minimamente del riorganizzarsi delle forze naziste. Peccato che non emerga il motivo perché ciò è avvenuto, ovvero in primo luogo grazie all’intervento del Vaticano e in secondo luogo con la guerra fredda, che ha portato gli antisovietici ad arruolare nazifascisti in funzione anticomunista. Inoltre, nel film si dà a intendere che i nazisti agissero organizzati, come uno Stato nello Stato, mentre in realtà si erano perfettamente integrati nei paesi imperialisti e nei loro alleati, per portare avanti la loro politica reazionaria e anticomunista. Infine, nella serie ci sono aspetti piuttosto pericolosi, ossia che gli ebrei sono da sempre stati perseguitati e, quindi, sarebbero costretti a portare avanti una guerra preventiva, con tutti i mezzi necessari, contro i loro nemici.
Il secondo episodio, come spesso accade, mette in evidenza i principali difetti della serie. Innanzitutto emerge il suo essere, in realtà, l’ennesima merce dell’industria culturale, ideata al solito su dei super eroi in lotta contro mostri adialettici che incarnano il male radicale. D’altra parte, nel caso specifico, sembrano combattere per una questione sostanziale, ovvero punire i criminali nazisti impuniti e sventare i loro piani. In entrambi i casi però si occulta la causa della loro impunità, che così serve solo per giustificare il solito copione fascista per cui, dal momento che gli apparati polizieschi non sarebbero sufficientemente repressivi con coloro che incarnano il male radicale, i cittadini dovrebbero imparare a farsi giustizia da sé. Peraltro utilizzando gli stessi metodi razzisti e le stesse torture che imputano ai loro nemici. Abbiamo così un ulteriore sdoganamento della tortura e del principio barbaro per cui non si fanno prigionieri. Tanto più che a capo dei cacciatori non ci poteva che essere un magnate miliardario, necessario per non mettere in discussione gli irrazionali e più ingiusti privilegi dei monopolisti sfruttatori. Anche perché, al solito, non emerge che milionari si diventa essenzialmente sfruttando il lavoro altrui. Infine abbiamo una completa apologia della religione ebraica anche nei suoi aspetti più arcaici e retrivi. Per cui svolgerebbe una funzione essenziale una sensale, che organizza matrimoni fra ebrei che metterebbero al mondo tanti bambini per ripopolare il popolo di dio sterminato dai nazisti.
Il terzo episodio è senza infamia e senza lode. Vengono, per il momento, messi da parte i metodi nazisti degli antinazisti. Emergono le contraddizioni interne dello Fbi, che emargina una valida agente, solo perché afroamericana e donna. Le discriminazione che subisce la portano a nascondere la propria omosessualità. Appare, inoltre, come i nazisti abbiano complicità significative dentro lo Fbi, che da questo punto di vista non appare un pericolo per loro. D’altra parte il rovescismo storico, per cui tutta una serie di attentati, a partire da quello di Robert Kennedy, sarebbe stato organizzato da una fantomatica rete di nazisti, quasi tutti tedeschi o di origine germanica, rimane il modo migliore per mondare le colpe dell’imperialismo americano. Ciò è reso possibile dalla linea rovescista dominante secondo la quale l’imperialismo non avrebbe nulla a che vedere con il nazifascismo, anzi avrebbe dato un contributo essenziale alla sconfitta di quest’ultimo.
Il quarto episodio ha un buon ritmo, è certamente piacevole, anche perché meno lungo dei primi due, ma non bello. Significativa la denuncia che emerge dall’episodio del banchiere svizzero che nasconde le ricchezze derubate dai nazisti agli ebrei e, più in generale, la denuncia delle ricchezze prodotte in modo sporco. Restano due problemi di fondo: innanzitutto il dare a intendere che il pericolo per l’umanità sia costituito dal residuo di vecchi nazisti e non dall’imperialismo, in primo luogo anglosassone, europeo e giapponese e dai loro reazionari alleati. In secondo luogo vi è una mistificazione negazionista per cui pare che i nazisti sarebbero da punire quasi esclusivamente in quanto hanno perseguitato gli ebrei, tacendo tutte le altre nefandezze e genocidi di cui sono macchiati. Allo stesso tempo si dà l’idea che i campi di concentramento fossero riservati ai soli ebrei, senza minimamente menzionare tutti gli altri detenuti. Così si finisce con il presentare il conflitto contro il nazifascismo come un regolamento dei conti fra ebrei e nazisti, quasi si trattasse di una vendetta personale e non di un problema che riguarda chiunque si opponga alla forze che si battono per la de-emancipazione del genere umano.
Il quinto e sesto episodio sviluppano un tema importante, ovvero come gli Stati Uniti, sotto il governo democratico di Carter, siano influenzati da elementi dell’estrema destra per eliminare ogni forma di embargo alle dittature fasciste del Sudamerica. La scusa – presa sostanzialmente per buona dalla serie – è che altrimenti, isolando tali paesi, sarebbero potuti entrare nell’orbita comunista. Siamo, dunque, ancora in pieno rovescismo storico, con un’apologia indiretta dell’imperialismo. Stesso discorso vale per l’altra grande rivelazione del film, ossia di come gli Stati Uniti abbiano fatto ponti d’oro a quadri nazisti affinché si trasferissero negli Usa e, anzi, lo stesso programma spaziale sarebbe stato un vero e proprio covo di nazisti. Anche in questo caso, per giustificare l’imperialismo a stelle e strisce, si presenta tale piano come una sorta di azione bellica preventiva, per evitare che gli ex nazisti fossero arruolati dai comunisti. Naturalmente si omette che gli imperialisti tedeschi erano portati a cooperare in funzione anticomunista con gli imperialisti statunitensi, in quanto generalmente condividevano le stesse idee classiste, razziste ed eugenetiche. Nell’episodio, inoltre, si denunciano gli esperimenti sugli esseri umani portati avanti in Sudamerica, in particolare sotto la dittatura di estrema destra del Paraguay. Per il resto l’episodio riprende in pieno il ragionamento caro ai sionisti della destra radicale, da anni al potere in Israele, per cui gli ebrei sarebbero stati massacrati perché non avrebbero usato la stessa attitudine spietata dei loro nemici nazisti. Perciò tutta la serie è improntata su un gruppo che si organizza per rendere pan per focaccia ai nazisti, in nome della legge del taglione: occhio per occhio. In tal modo, si giustifica ogni forma di guerra sporca e di tortura, in quanto realizzate in nome, di una presunta, giusta causa. Interessante nell’episodio la sostanziale rivalutazione, anche se molto sullo sfondo, delle pantere nere, anche se i reduci da queste ultime sono posti sullo stesso piano dei Rambo di ritorno dal Vietnam. Inoltre nell’episodio vi è una posizione favorevole al mantenimento delle tradizioni anche più antiche e irrazionali dell’ebraismo, in quanto abbandonarle significherebbe darla vinta ai propri nemici. Significativa anche la critica ai religiosi cattolici, pronti ad accogliere i bambini ebrei a patto che si convertissero forzatamente al cattolicesimo, abbandonando qualsiasi legame, persino il proprio nome, con la cultura e la famiglia di provenienza. Emergono inoltre inquietanti dubbi sul miliardario a capo dei cacciatori di nazisti, che ammazza per puro istinto omicida una presunta nazista, senza aver appurato la sua effettiva identità, nel momento in cui prova a smascherarlo in quanto impostore.
Il settimo episodio comincia, finalmente, a problematizzare l’occhio per occhio. D’altra parte a impedire realismo e verosimiglianza e far perdere valore conoscitivo alle serie è il dipingere adialetticamente i nemici come dei puri mostri, l’esatto contrario di tutto quell’essenziale filone di ricerche che ha al suo centro la Banalità del male. Ora sarebbero i nazisti, essenzialmente tedeschi, a svolgere anche la funzione dei terroristi, pronti a far esplodere bombe biologiche. Pure in tal caso questa trovata finisce con il distogliere l’attenzione dai reali terroristi e dalle cause che li hanno prodotti. Ancora una volta scaricando tutto il male sui vecchi nazisti tedeschi, si finisce per occultare le ragioni e i modi per contrastare il male oggi preminente. Infine, dipingendo i nemici come il male radicale, qualsiasi rispetto delle norme viene presentato come un impaccio, da cui i superuomini dovrebbero liberarsi per realizzare il loro alto compito.
L’ottavo episodio prosegue sulla falsa riga dei precedenti. Da una parte c’è la sacrosanta denuncia di come gli Stati Uniti abbiano riciclato il personale nazista, anche se non si dice che era in funzione anticomunista, allo scopo di non mettere in discussione gli enormi privilegi dei più ricchi. D’altra parte, si continua con il negazionismo, per cui i nazisti sarebbero stati ben accolti negli Stati Uniti perché si sarebbero limitati a uccidere gli ebrei. In secondo luogo si continua a esaltare la necessità per gli ebrei, per vendicarsi, di utilizzare gli stessi metodi dei nazisti. Significativo anche, a questo proposito, il confronto-scontro con Wisenthal che giustamente trova riprovevoli i mezzi utilizzati dalla sporca dozzina protagonista della serie.
La nona puntata resta interessante per lo sfondo storico, ovvero per il pronto arruolamento in snodi fondamentali dello Stato statunitense di nazisti, in funzione della guerra fredda. La solita giustificazione addotta, ossia che altrimenti lo avrebbero potuto fare i comunisti, è un puro sofisma e anche nella serie finisce per essere una debole e poco credibile copertura. Peraltro i vertici degli apparati repressivi dello Stato che portano avanti l’operazione, sono gli stessi che proseguiranno questa delicatissima operazione negli anni seguenti, continuando così a coprire l’operato dei nazisti prontamente arruolati, dopo le sole dodici condanne a morte dal tribunale di Norimberga. Per il resto la serie segue la sua strada sempre più fascistoide, con metodi di tortura sempre più efferati, che sarebbero però indispensabili per far fronte al male assoluto. Anche se resta aperta la lotta fra l’agente del Fbi e il miliardario a capo dei “cacciatori” per la formazione del ragazzo, che è anche il protagonista della serie.
Nel decimo episodio si mostra come i liberatori dei campi di concentramento siano i sovietici, al contrario del rovescismo storico di Benigni che li fa liberare dagli statunitensi. Inoltre mentre i sovietici arrestano i criminali nazisti, gli statunitensi li mettono in salvo nel loro paese e il sistema impedisce anche a volenterosi e un po’ ingenui agenti di indagare sul loro passato e presente. Inoltre con un colpo di scena, per quanto inverosimile, si scopre che i più sanguinari e senza scrupoli cacciatori erano in realtà nazisti travestiti; in particolare, i personaggi più ambigui, ovvero il miliardario e la suora cattolica. Si approfondisce anche la riflessione sulla legittimità di farsi giustizia da soli; il protagonista scegliendo tale strada sembra essersi fatto egemonizzare dal modo di ragionare del miliardario. Mentre il solerte agente della polizia afroamericano, dinanzi al muro di gomma delle autorità, finisce per prendere in considerazione la proposta di una parlamentare ebrea di costituire un corpo separato per portare avanti le indagini.
Ted Lasso, serie comica nominata ai Golden Globe, voto: 6; nel primo episodio emerge la trama, protagonista è uno statunitense che si trova catapultato in un contesto europeo che non conosce e dove è assunto come allenatore per far perdere, a sua insaputa, la sua squadra. Appare subito evidente la difficoltà di tradurre e ricontestualizzare le serie comiche, che sono generalmente un’autocritica di una certa società. In particolare si dimostra estremamente arduo comprendere e saper rendere in italiano tutta una serie di battute e giochi di parole che fanno spesso riferimento a un contesto e sono strettamente connesse a un’attualità della quale non conosce praticamente nulla lo spettatore straniero. Dunque si sconta la necessaria difficoltà, per chi è estraneo a quel contesto, di intendere le battute e di coglierne l’aspetto ironico o satirico. Tanto più se, come sempre più spesso avviene, o i traduttori sono pagati troppo poco o non hanno le necessarie competenze per poter ricontestualizzare la commedia, in quanto si assumono lavoratori non specializzati per pagarli di meno. Perciò diversi aspetti di una società che ride di se stessa, in quanto in essa ci si riconosce, per chi è estraneo a quel contesto rischiano di apparire grotteschi, superficiali o insensati.
Il secondo episodio, Biscotti, conferma l’aspetto migliore di questa commedia, ovvero la grande umanità del protagonista e la sua capacità di cercare di risolvere gli enormi problemi che si trova ad affrontare, reagendo sempre senza perdere la calma e la gioia di vivere.
Il terzo episodio, Trent Crimm: The Independent, conferma i punti di forza e debolezza della serie. Da una parte la traduzione che non riesce a tenere il ritmo delle battute e a farne intendere in pieno il significato, insieme alla profonda umanità e altruismo del protagonista, sempre pronto a capire gli altri e a incassare, nel modo migliore, anche i colpi più bassi che subisce.
Nel quarto episodio, intitolato Per i bambini, la serie rischia di divenire alquanto ripetitiva e un po’ stucchevole con il suo buonismo troppo poco realistico e la presenza di troppi personaggi stereotipati. La commedia, poi, non affronta contraddizioni sostanziali e mantiene la struttura essenzialmente conservatrice del genere. Anche la critica sociale non va mai realmente a fondo.
Il segno dell’abbronzatura: nel quinto episodio la serie riprende un po’ quota, anche per la vena drammatica e al contempo elegiaca della crisi del matrimonio del protagonista, che al contempo con coraggio e determinazione, puntando sul gioco di squadra e l’altruismo, comincia a rimettere in sesto una situazione generalmente data per spacciata.
I due assi, sesto episodio decisamente sottotono, o si tratta del classico espediente per allungare il brodo, oppure la serie ha essenzialmente terminato il poco di sostanziale che aveva da comunicare. Peraltro una parte significativa del senso della serie è stupidamente maschilista, in quanto è tutta costruita sul fatto che una donna tradita dal marito, invece di costruirsi una nuova vita, pensa solo a fargliela pagare, operando in modo meramente distruttivo nei riguardi della società di cui è padrona. Il che dà un’idea della donna come totalmente succube del marito, senza il quale si comporta come un bambino.
Make Rebecca great again, settimo episodio, rilancia la serie introducendo alcuni elementi melodrammatici che la rendono meno noiosa e scontata. Certo si resta sempre nell’ambito dell’eticità naturale e immediata della famiglia, ma i personaggi divengono un po’ più sfaccettati e dialettici.
Diamond Dogs, ottavo episodio, segna una ulteriore ripresa della serie, con dei buoni spunti da racconto morale e alcuni sviluppi interessanti, anche se sempre nell’ambito dei rapporti fra singoli individui.
Gli ultimi due episodi sono sostanzialmente in linea con i precedenti. Il buonismo, l’altruismo, il saper prendere la vita con filosofia, il gioco di squadra, il rispetto per l’avversario etc. sono tutti dei validi elementi, in particolare per il mondo del calcio dove tende sempre più a dominare l’individualismo, la partigianeria, l’odio per l’altro, il razzismo etc. D’altra parte, è quanto meno singolare che tutti questi valori progressisti, antitetici di fondo al pensiero unico neoliberista, siano esportati in Europa da un allenatore statunitense di football americano.
Lovecraft Country – La terra dei demoni 1x10, voto 6-: l’episodio pilota, Tramonto, è come di consueto piuttosto intrigante, anche se si tratta di una serie di genere horror, con riferimenti a uno scrittore ultra razzista e fascistoide. In modo innovativo e spiazzante gli eroi sono afroamericani istruiti e, in particolare, il protagonista è appassionato di fantascienza e di Lovecraft. Il primo episodio mostra un significativo quadro del razzismo strutturale negli Stati Uniti ancora negli anni Cinquanta, dove i linciaggi degli afro discendenti erano, in talune zone, pratica comune della stessa polizia. Peraltro il protagonista per potersi virtualmente emancipare ha dovuto servire, contro la saggia volontà del padre, nell’esercito imperialista statunitense, impegnato nell’aggressione alla Corea.
Come prevedibile, il secondo episodio segna una netta caduta di tono. Gli elementi sostanziali, legati alla storia razzista degli Stati Uniti, passano del tutto in secondo piano per dare vita a una assurda storia horror, una scadente arma di distrazione di massa, ossia un mediocre prodotto dell’industria culturale a stelle e strisce.
Con il terzo episodio la serie riprende quota anche in quanto l’in sé intollerabile genere horror è posto al servizio della questione sostanziale della lotta contro il razzismo, ancora spaventosamente dominante negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, anni in cui Arendt pubblicava il suo Le origini del totalitarismo senza fare un cenno alle attitudini totalitarie degli Usa nei confronti degli afro discendenti. Anzi la Arendt rimarrà una acritica apologeta degli Stati Uniti, mentre considererà totalitaria l’Urss nell’epoca di Stalin, dimenticando l’imprescindibile supporto dato ai movimenti anticoloniali e antimperialisti e alla sconfitta del nazifascismo dall’Unione sovietica.
Purtroppo con il quarto episodio prende completamente il sopravvento il film commerciale d’avventura, un mero e tardo epigono dei Predatori dell’arca perduta. La questione sostanziale dell’emancipazione degli afroamericani resta troppo sullo sfondo e la serie diviene noiosissima. Visto l’andazzo, dal momento per trovare spunti interessanti bisogna sobbarcarsi interminabili storie di mostri e d’avventura che solo un bambino riuscirebbe a sopportare, consigliamo al pubblico adulto di seguire il nostro esempio e di non proseguirne la visione.
Fleabag (1x6) è una serie televisiva comica e drammatica britannica, distribuita da Amazon Prime, voto: 6-. Una delle rare serie tv straniere comiche prontamente tradotte e distribuite in Italia. Considerati il grande numero di riconoscimenti ricevuti, la serie appare indubbiamente deludente. Certo bisogna considerare quanto in una serie comica vada perduto con la traduzione. Detto questo, benché si presenti nella forma intrigante di commedia drammatica, in realtà l’elemento decisamente dominante è, o dovrebbe essere, l’elemento comico. Significativa, dal punto di vista formale, la scelta della protagonista e autrice del testo di presentare al pubblico, rivolgendosi in modo diretto, le proprie disavventure.
Più si va avanti e più la serie appare decisamente sopravvalutata. Anche perché la trovata di mettere a nudo una protagonista sfigata, anche con un significativo effetto di straniamento, già al secondo episodio rischia di apparire noiosa e deprimente.
La serie sembra mirare a sostenere l’emancipazione femminile dal punto di vista del piacere sessuale, aspetto che, in effetti, rimane sotto diversi aspetti un tabù. È anche significativa la satira che offre dei personaggi maschili. Allo stesso modo è degna di lode l’autocritica realizzata sfruttando al meglio l’effetto di straniamento. Il problema è la carenza di temi sostanziali affrontati, che rende la serie poco interessante, senza renderla, perciò, particolarmente godibile.
D’altra parte la serie è significativa in quanto in modo ironico prende le distanze da quel moralismo sostanzialmente bacchettone e presessantottesco, che ha sfruttato astutamente il me too, per presentarsi addirittura come qualcosa di attuale, progressista e femminista.
Il quinto episodio spicca in quanto il più vivace, divertente e gradevole, con momenti di autentica commedia sofisticata soprattutto nella satira dei rapporti interfamiliari. La serie si conclude in modo piuttosto deprimente, con una nota tragica, la cui catarsi è da rinvenire nel rilancio della posizione anticonformista sul diritto della donna all’emancipazione sessuale.
Rebellion, miniserie tv irlandese del 2016, in cinque episodi, disponibile su netflix, voto: 5,5; Rebellion narra uno dei momenti salienti della lotta di liberazione nazionale antimperialista dell’Irlanda, ovvero la grande rivolta armata del 1916 che, sebbene sconfitta, aprirà la strada alla conquista dell’indipendenza di buona parte dell’isola a eccezione dell’Irlanda del Nord, ancora oggi sotto il dominio del Regno Unito. L’impostazione della serie è genuinamente realistica e i personaggi descritti sono indubbiamente tipici. La guerra per il diritto del popolo irlandese all’autodeterminazione si interseca con la decisiva lotta di classe per la conquista di una società socialista.
Purtroppo nel terzo episodio questa ottima impostazione va in gran parte perduta, le vicende dei singoli personaggi divengono sempre più sconclusionate e irrealistiche tanto da lasciare piuttosto isolato e sullo sfondo il grande momento tragico e storico che stavano vivendo. Purtroppo anche negli ultimi due episodi rimane la stridente contraddizione fra uno sfondo storico di sicuro interesse e dei personaggi che lo dovrebbero far rivivere del tutto inadeguati. A tal proposito pesa l’attuale situazione di arretratezza ideologica dell’Irlanda e le evidenti carenze, innanzitutto, nella sceneggiatura.
Il commissario Ricciardi, di Alessandro D’Alatri, serie televisiva italiana tratta dai romanzi di Maurizio de Giovanni, 2021, voto dei sei episodi: 5,5.
- Episodio: Il senso del dolore, voto: 6; la serie, ambientata durante il ventennio fascista, descrive adeguatamente il clima conformistico e totalitario che era stato imposto alla società italiana. D’altra parte, il protagonista si concentra nel portare avanti il suo lavoro, sforzandosi di astrarre dal contesto storico in cui vive. Così, da una parte rimprovera l’amico medico che si espone troppo nella critica al fascismo, ma d’altra non dimostra in nessun modo la sua adesione al regime. Significativo il fatto che individuato l’assassino il commissario non lo fa arrestare, comprendendo lo sfondo sociale e morale che, in un certo senso, giustifica l’omicidio, peraltro di un sodale di Mussolini. Per il resto è piuttosto fastidiosa sia l’attitudine sostanzialmente omofoba del brigadiere, nei confronti del suo informatore, sia l’amore platonico del commissario per una donna che fa di tutto per mostrarsi tutta casa e chiesa, mentre il protagonista resta del tutto freddo dinanzi al fascino di una donna decisamente più emancipata e meno bigotta.
- Episodio: La condanna del sangue, voto: 6; la formula alla Montalbano non convince più di tanto in quanto non permette di approfondire le problematiche affrontate e rischia di rendere noiosa la serie. Gli aspetti positivi de Il commissario Ricciardi sono la denuncia del servilismo e del classismo dominanti sotto il regime fascista, che pretenderebbero di sbattere subito il mostro in prima pagina, senza disturbare le classi dominanti, anche se implicate. Il commissario, al contrario, è interessato a scoprire la verità e a fare giustizia. Perciò non scade nel legalismo, ma tende a cercare di comprendere anche lo sfondo sociale dei reati. D’altra parte, il limitare da parte del commissario i motivi dei delitti a ragioni di pane o di cuore tende a eliminare, a priori, i reati più significativi da un punto di vista sociale, ovvero le violazioni delle leggi da parte dei colletti bianchi, la corruzione, l’utilizzo dei beni pubblici a scopi privati, la violenza contro le donne, i crimini della malavita organizzata e le malefatte compiute dai fascisti. Peraltro il commissario assume una posizione sostanzialmente super partes, al punto di arrivare a mettere in guardia l’amico medico, in quanto esprime apertamente le proprie critiche al regime fascista, per non vedersi costretto a doverlo inviare al confino. Inoltre decisamente pessima è la storia della donna protagonista dell’episodio che, per “mantenere il proprio onore” – rimasta vedova da giovane – vorrebbe sfregiarsi e finisce per farsi sfregiare dal figlio minorenne pur di sfuggire a un molestatore. In questo caso le forze dell’ordine costituito, per quanto legate da un rapporto affettivo con la giovane donna, non sentono il bisogno di redarguire in nessun modo il reale colpevole di questo scempio.
- Episodio: Il posto di ognuno, voto: 6; al solito la serie è caratterizzata da luci e ombre. Da una parte emerge chiaramente il clima da Stato totalitario imposto dal fascismo, la sua cieca violenza vigliacca, il suo essere forte con i deboli e debole con i forti. Emergono gli sfondi sociali dei delitti e il fatto che, proprio per questo, la vera giustizia non possa consistere nell’applicare la legge uguale per tutti, viste le profonde differenze sociali. Dall’altra parte abbiamo l’eroe nobile che, anche se appare disinteressato alle proprie terre e ai propri titoli, fa il poliziotto per passione, dal momento che non lo fa per carriera o per necessità. Non si capisce perché un idealista, che avrebbe avuto i mezzi per fare quello che desiderava, debba svolgere il ruolo di tutore dell’ordine costituito, peraltro sotto il regime fascista. Emerge inoltre una concezione del tutto fascista e assolutamente inverosimile della donna, tanto è mostrata sottoposta all’uomo. Nell’episodio arriviamo all’assurdo di una moglie che è a tal punto innamorata del marito da godere del suo rapporto con la donna con cui la tradisce e che arriva a uccidere quest’ultima solo quando tradisce platealmente il marito. Resta, infine, il modello della donna brava in cucina e che passa le serate a lavorare all’uncinetto, mentre la donna affascinante ed emancipata non viene presa neanche in considerazione come possibile compagna della vita.
- Episodio: Il giorno dei morti, voto: 6; prosegue, in modo sempre più contraddittorio, la serie. L’episodio ha più degli altri un significativo risvolto sociale, trattando dei bambini abbandonati a Napoli, che vivono di espedienti per strada. Certamente significativa è la scena in cui emerge che la morte di uno di loro appaia come naturale al brigadiere, per quanto quest’ultimo sia sempre presentato come una brava persona. Valida anche la denuncia del fascismo che cerca di nascondere la miseria e la delinquenza, pretendendo che sparisca per decreto. Resta la pessima rappresentazione della donna, per cui la donna affascinante e relativamente emancipata è rappresentata come una tentatrice, mentre la donna da sposare resta la massaia tutta casa e chiesa. Anche nella raffigurazione della chiesa la serie è ambigua, abbiamo da una parte un buon parroco, dall’altra un parroco che, più realisticamente, sfrutta la miseria dei bambini per arricchire la chiesa e fare carriera. L’aspetto maggiormente negativo, che emerge in modo evidentissimo in questo episodio, è che il commissario non scopre mai l’assassino utilizzando la ragione, ma attraverso delle visioni mistiche, in cui è l’assassinato stesso che (come in un oracolo) gli rivela la verità.
- Episodio: Vipera, voto: 4; decisamente, fra le cose più intollerabili della serie è la visione della donna quale angelo del focolare, in puro stile fascista, da sposare, o femme fatale, vipera, ammaliatrice, bella e, perciò, essenzialmente poco di buono. Tanto che una donna piena di fascino rischia quasi certamente di fare una brutta fine, mentre alla fine non potrà che essere premiata la donna che fa corsi di cucina locale, presso la governante dell’uomo che ama, per poter cucinare secondo la tradizione del borgo natio dell’uomo che vorrebbe sposare. Resta, e di questi tempi non è poco, una connotazione decisamente negativa del fascismo e del servilismo degli opportunisti verso il regime. D’altra parte, l’unica forma di resistenza possibile sembra quella individualista e piccolo borghese del medico, che non può fare a meno di esprimere ad alta voce la sua avversità verso il regime, tanto da essere costantemente tacciato dal commissario di avventurismo. Quest’ultimo abbandona la sua vocazione filosofica, per divenire poliziotto da quando comincia ad avere le visioni soprannaturali che lo porterebbero a individuare l’assassino. Peraltro il commissario altro non fa contro il fascismo se non intercedere presso l’amante, amica della famiglia Mussolini, affinché si spenda per la liberazione del suo amico dottore, senza naturalmente preoccuparsi degli altri oppositori che, privi di raccomandazione, sono deportati.
- Episodio: In fondo al tuo cuore, voto: 4; la serie appare sempre più in caduta libera, essendo ormai tutta incentrata sulla fidelizzare del pubblico in funzione della nuova stagione già programmata. Veniamo a sapere che l’eroe senza macchia e senza paura è in realtà un rentier, un latifondista assenteista molto ricco grazie allo sfruttamento di diversi mezzadri. Nell’ultimo episodio il giallo passa sempre più in secondo piano, diviene sempre più inverosimile e l’attenzione si accentra sulle storie d’amore del commissario e del suo brigadiere in cui, ancora una volta, De Giovanni dà il peggio di sé. Anche in questo caso, come in Mina Settembre, l’interesse tende a catalizzarsi su quali delle due donne, follemente innamorate di lui, cadrà la scelta del protagonista, questione davvero di scarsissimo interesse. Per essere una delle produzioni di punta della televisione pubblica italiana ci si rende conto di come stiamo sempre più all’anno zero.
Il commissario Montalbano, quindicesimo episodio: Il metodo Catalanotti, voto 5+; con questa ultima e inutile puntata sembra finalmente giungere a termine questa fortunata e ultrasopravvalutata serie, che da molto non aveva più nulla di significativo da offrire. Per quanto, al solito, ben confezionata per essere una serie italiana, il motivo tragico o drammatico del giallo passa sempre più in secondo piano, sostituito dalla merce più facilmente vendibile e tendenzialmente conservatrice della commediola sentimentale. Nel caso specifico abbiamo l’integerrimo commissario che, dopo anni, rompe su due piedi la propria stabile relazione sentimentale per “amore” di una giovinetta, appena conosciuta. Peraltro l’immagine della donna non esce comunque bene dal film – per quanto il tentato omicidio venga, giustamente, depenalizzato a causa del trattamento degradante subito dall’autrice – dal momento che quest’ultima dimostra un amore-sottomissione assoluto nei confronti dell’uomo, inverosimile e degradante.
The flight attendant, miniserie, comica e drammatica, Usa 2018, in otto episodi, per HBO max, voto: 5+; candidata come migliore serie comica, dimostra ancora una volta come le serie di questo genere siano quasi sempre meno significative delle serie drammatiche. Anche se gli autori, consapevoli di ciò, hanno inserito diversi aspetti drammatici, che hanno reso decisamente più interessante e tollerabile la serie. Per quanto sia decisamente ben confezionata, si tratta in ogni caso di un tipico prodotto dell’industria culturale, una merce essenzialmente culinaria e di evasione. Anche se The flight attendant tocca alcuni aspetti significativi, come l’alcolismo della protagonista – dovuto alla cattiva educazione ricevuta dal padre rozzo, ignorante e omofobo, ovvero il tipico elettore di Trump. La serie è, come ormai di consueto, improntata al politicaly correct dal punto di vista dei diritti liberali civili. Il che non toglie, anzi come generalmente accade, implica un acritico appiattimento sulla propaganda imperialista statunitense. Così i perturbatori di un mondo altrimenti sano, sarebbero soltanto elementi stranieri, provenienti naturalmente dai principali obiettivi dell’aggressivo imperialismo statunitense, in questo caso la Russia e la Repubblica popolare democratica di Corea. Per quanto riguarda la Russia nella serie troviamo il consueto pregiudizio statunitense, per il quale le imprese più sporche e implicate con traffici di armi e mafia sarebbero controllate da russi, privi di cuore e di anima. Ancora più surreale l’accusa alla Repubblica popolare democratica di Corea di portare avanti una pesante attività di spionaggio negli Stati uniti, sfruttando la presenza di statunitensi di origine coreana. In tal modo, si occulta il fatto che la guerra contro la Corea sia in corso a causa dell’aggressività dell’imperialismo statunitense che si rifiuta ancora di firmare il trattato di pace e si mette alla berlina lo statunitense di origine asiatiche – non a caso sempre più bersaglio del terrorismo di estrema destra suprematista – del quale naturalmente nei prodotti mainstream non si parla mai.
Bridgerton è una serie televisiva statunitense creata da Chris Van Dusen e prodotta da Shonda Rhimes, basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell'alta società londinese durante la Reggenza inglese. La serie ha debuttato il 25 dicembre 2020 su Netflix. Bridgeton ha ottenuto 2 candidature a Satellite Awards, 2 candidature a Sag Awards, 1 candidatura a Directors Guild, 1 candidatura a Cdg Awards, 1 candidatura a Producers Guild, La serie è stato premiato a Afi Awards come miglior programma televisivo dell’anno, voto: 5+; l’episodio pilota mostra, da subito, l’abisso che separa questa merce preconfezionata in modo mirabile dall’industria culturale e un autentico capolavoro come Guerra e pace. Per quanto irriverente per il grande capolavoro della letteratura mondiale il paragone viene spontaneo in quanto gli eventi narrati avvengono nello stesso arco temporale, ma si sviluppano in modo specularmente opposto. Mentre Guerra e pace è un immortale affresco storico di un passaggio estremamente importante dello storia mondiale, la serie statunitense è tutta incentrata su storie passionali individuali prive di qualsiasi valore sostanziale, se non qualche rapsodica denuncia della condizione di oppressione della donna. Inoltre, appare quantomeno discutibile la scelta di utilizzare afro discendenti per raffigurare nobili inglesi dell’epoca. In tal modo, si tende a far scomparire lo spaventoso razzismo che gli afro discendenti hanno subito e, spesso, continuano a soffrire da parte del mondo “civile” occidentale e si fanno scomparire ogni loro peculiarità, dovendo gli attori afro americani impersonarsi completamente nei personaggi della aristocrazia caucasica che mettono in scena, secondo il metodo Stanislavskij, da sempre dominante negli Stati uniti.
Per quanto anche nel secondo episodio si tagli del tutto fuori il mondo storico, politico economico e sociale e naturalmente i conflitti di classe, per quanto si tenda quasi a naturalizzare il mondo aristocratico, vi è un significativo quadro del livello di schiavitù domestica della donna anche ai più alti piani della società, con qualche accenno alla volontà di emancipazione. Peraltro, per quanto di fatto priva di elementi sostanziali e, pertanto, sebbene la serie lasci ben poco di significativo su cui riflettere allo spettatore, il prodotto è confezionato a regola d’arte e non nega al pubblico un certo godimento estetico. Per quanto discutibile l’inserimento di personaggi afro discendenti ai massimi livelli della società ha anche una istruttiva funzione straniante.
Nel terzo episodio si conferma la scelta reazionaria di escludere completamente il mondo storico e politico ed economico e sociale, dal presunto mondo di fate dell’alta nobiltà. Naturalmente è segno dei tempi questo interesse delle masse ridotte a plebe per questa forma di oppio per il popolo. Va però riconosciuto che si tratta di merce dell’industria culturale decisamente ben confezionata e con qualche riferimento al tema dell’emancipazione della donna.
La serie si riscatta parzialmente insistendo sul sano buon senso umano, la concretezza, l’assennatezza e la volontà di emancipazione delle donne, che si dimostrano decisamente più libere rispetto alle bizantine etichette della società aristocratica degli uomini.
Di certo non è facile per noi giacobini e sanculotti continuare ad assistere a questa apologia dell’aristocrazia, senza il grande sfondo storico che dava sostanza alla narrazione di Tolstoj. D’altra parte occorre sempre tenere a mente la differenza fra il giudizio estetico disinteressato e quello politico, etico e morale. Resta però che l’autentica opera d’arte deve essere manifestazione sensibile del soprasensibile e, dunque, il suo contenuto deve essere necessariamente all’altezza della forma. Qui abbiamo una forma decisamente molto curata e ammaliante e un contenuto figlio dei tempi davvero oscuri che stiamo vivendo, con tanto di protagonista grande proprietario assenteista che, nel momento in cui ritrova il proprio interesse nelle proprie proprietà, pensa a una ristrutturazione in senso capitalista, senza il minimo rimorso per la tragica sorte che ciò comporterà per i lavoratori agricoli.
La serie scade sempre di più, incentrata com’è sugli assurdi amori romantici e gli altrettanto assurdi punti d’onore dell’aristocrazia. Per cui il plot s’incentra sulla demenziale vicenda di una coppia di duchi in cui l’uomo pretende di non avere figli, per una promessa fatta al padre da tempo morto, di non assicurargli un erede. Promessa che è a sua volta “fondata” su un’altra assurdità, per cui il padre aristocratico sarebbe stato unicamente interessato alla continuazione della casata e per nulla alla moglie e all’unico figlio. Senza contare che tale casata ha un’origine ancora più assurdamente inverosimile, ossia il re d’Inghilterra che a inizio ottocento si sarebbe innamorato di una afro discendente, tanto da sposarla e promuovere ad aristocratici altri afro discendenti. Nell’ultimo episodio, infine, l’amore romantico finisce per prevalere, il più delle volte, sugli arcaici pregiudizi aristocratici.
Mina Settembre è una serie televisiva italiana in 12 episodi, diretta da Tiziana Aristarco e liberamente tratta dai racconti di Maurizio de Giovanni, voto: 5; dai primi episodi emerge una serie ben confezionata, abbastanza curata nei particolari, ma molto prevedibile e molto spesso inverosimile. Per quanto sia incentrata su una questione di cuore decisamente poco significativa, vi è quantomeno la buona intenzione di toccare alcune problematiche sociali di Napoli. Valido anche l’impegno della protagonista a volersi spendere su tali tematiche. Il problema resta il modo di affrontarle, che oscilla fra due estremi decisamente pessimi: lo spirito da crocerossina da una parte e Wonder Woman dall’altra. In tal modo, le buone intenzioni vanno a farsi benedire in quanto si resta a una conoscenza fenomenica delle grandi questioni sostanziali sociali che vengono, peraltro, appena sfiorate dalla serie.
Nelle seconde tre puntate la serie si conferma una merce dell’industria culturale ben confezionata per essere un prodotto italiano, di pura evasione e buonista. Quest’ultimo aspetto è certamente il lato che la rende almeno un po’ significativa nel panorama deprimente dell’odierno cinema italiano. Peccato che l’attrice protagonista, Serena Rossi, sempre conciata come se fosse appena uscita dal parrucchiere, poco si addice al moralismo crocerossino che dovrebbe caratterizzare Mina Settembre. Inoltre, essendo tratta da soli due racconti la serie finisce per essere un eterno ripetersi, con variazioni diverse, di un medesimo tema, decisamente poco sostanziale.
Negli episodi dal sei al nove la serie diviene sempre più ripetitiva, pesa il fatto di essere scritta sulla base di due racconti, peraltro da parte di uno scrittore noto come giallista. Quindi, più che una serie sembra un telefilm. Il suo ruolo oppiaceo, però, lo svolge bene; la serie lì per lì appare anche commovente, se non fosse che il suo buonismo, riflettendoci sopra, mostra presto tutta la sua inconsistenza. In tutte le puntate l’eroina fa qualcosa di rischioso e viola le leggi pur di aiutare un bisognoso, senza mai comprendere che si tratta di una goccia nel mare. Per esempio, a fronte di un singolo disoccupato disperato cui riesce a fare avere, grazie alle sue conoscenze, un posto di lavoro, ne restano altre decine di migliaia che rimangono abbandonati alla loro disperazione. Di tutto ciò, naturalmente, nella serie non c’è traccia, né la protagonista si interroga mai su questa palese contraddizione.
Negli ultimi tre episodi la serie diventa sempre più prevedibile e inverosimile, incentrandosi su questioni di nessunissimo spessore, quale riscoprire l’amante del padre o decidere con quale uomo impegnarsi. Peraltro emergono una serie di pesanti pregiudizi, decisamente fuori luogo, innanzitutto omofobi e in secondo luogo volti a colpevolizzare la giovanissima donna che ha una relazione con un uomo sposato. La donna, anche se si tratta di una ragazzina, appare come una poco di buono, mentre l’uomo sposato, anche se l’ha sedotta e abbandonata, non viene messo seriamente in discussione. Peraltro, visti i presupposti e le questioni rimaste aperte per lanciare la seconda stagione – questioni del tutto prive di spessore – viene meno l’interesse a continuare a sprecarci tempo dietro.
Omicidio a Easttown è una miniserie televisiva statunitense del 2021 ideata da Brad Ingelsby e diretta da Craig Zobel, su Sky Atlantic, voto: 5; la serie cerca di tenere insieme, sulle orme di David Lynch, un giallo e l’analisi critica della vita in una cittadina della provincia statunitense. Il risultato, nei primi tre episodi non è brillante. Le puntate sono troppo inutilmente lunghe, anche se la serie resta godibile. L’analisi della società di provincia statunitense è certo un buon intento, ma i risultati restano modesti. Più che realista, la rappresentazione sembra naturalista e incapace di indagare seriamente le problematiche socio-economiche e i conflitti sociali. In tal modo, al di là delle problematiche famigliari, resta ben poco di sostanziale.
Interessante come la serie, anche nei confronti della protagonista, non ci mostri un personaggio schematico, ma più realisticamente un individuo complesso, con le sue doti, ma anche con i suoi punti deboli, i suoi errori e le sue colpe anche gravi. Interessante anche l’indagine sui segreti nascosti negli armadi dei membri della chiesa e sulla tendenza delle istituzioni poliziesche ed ecclesiastiche a occultare i crimini compiuti dai propri membri, semplicemente sospendendoli per un certo tempo o spostandoli da un luogo a un altro.
La serie si sviluppa puntando sempre più su analisi psicologiche piuttosto che sul considerare le cause e lo sfondo economico e sociale dei crimini. Allo stesso modo non si mette in discussione il ruolo di eroi dei membri degli apparati repressivi dello Stato imperialista più aggressivo e guerrafondaio del mondo. D’altra parte nella serie sono posti al centro e denunciati i delitti contro le donne, da quelle più deboli tossicodipendenti e più o meno costrette alla prostituzione, alle violenza subite in famiglia, la più comune e anche la più difficili da far emergere. Nella puntata conclusiva tutto torna compiutamente nell’ordine costituito, secondo il più becero finale hollywoodiano che cancella anche i rari spunti critici della serie, che diventa, peraltro, sempre più inverosimile, noiosa e gratuita.
The Beatles Get Back 1x3 di Peter Jackson, serie documentaria musicale, distribuita da Disney +, voto: 5. Si tratta in realtà di un documentario di ben 8 ore, che documenta la creazione artistica dell'album Let It Be e la pianificazione della prima esibizione dal vivo dopo tre anni dei Beatles, sino all’ultimo loro concerto sul tetto. Per quanto possa essere piacevole per gli appassionati di questo celebre gruppo musicale, il documentario finisce con l’essere intollerabilmente noioso per la sua spropositata lunghezza. Ci si perde così nei particolari più accidentali documentando, per esempio, delle discussioni organizzative prive di qualsiasi rilievo. Peraltro, il consueto vezzo postmoderno di non spiegare nulla e di non far emergere i rarissimi aspetti significativi di questa mortalmente lunga cronaca della morte annunciata dei Beatles rende il documentario davvero insostenibile per i non addetti al culto del celebre gruppo di Liverpool.
La ferrovia sotterranea è una serie televisiva statunitense del 2021 creata da Barry Jenkins, distribuita sulla piattaforma Prime Video, ha vinto diversi premi, voto: 4,5; sin dal primo episodio tratteggia molto bene lo stato di oppressione degli afroamericani e, al contempo, la loro volontà di riscatto. Interessante anche l’uso del Nuovo testamento da parte del raffinato e sanguinario schiavista per divinizzare ed eternizzare la schiavitù. Significativa anche la pena sanguinaria che era prevista per uno schiavo che fosse in grado di leggere e scrivere.
Il secondo e il terzo episodio sono davvero esemplari nella serrata e appassionata denuncia di pagine davvero buie e sconosciute della storia degli Stati Uniti d’America. Dopo aver denunciato in modo realistico la spaventosa sorte degli schiavi in Georgia e dopo aver accennato alle differenze con la Virginia, emergono gli spaventosi sistemi, quasi sempre occultati, presenti nel Sud e Nord Carolina. Nel primo caso, dietro a un’apparente integrazione degli afroamericani, si celano forme di violenza occulte terribili, con le donne sistematicamente sterilizzate e gli uomini avvelenati con medicine volte a svolgere esperimenti e a sondare sino a dove era possibile spingersi nel far patire il corpo umano. Nel Nord Carolina il puritanesimo vuole una società fondamentalista religiosa purificata dalla presenza di afroamericani anche nella condizione di schiavitù, così i malcapitati vengono paragonati e sgozzati come maiali. Al loro posto vengono asserviti gli irlandesi che, per difendere il loro status e accecati dall’ignoranza e dal fondamentalismo religioso, si accaniscono contro gli afroamericani e con chi li tollera. Peraltro si denuncia come lo schiavismo abbia degli esiti davvero infausti, antiliberali e antidemocratici, per la stessa popolazione caucasica, che rischia gravi multe se insegna a leggere e scrivere agli afroamericani e addirittura la condanna al rogo per stregoneria per chi li nasconde in Nord Carolina.
Il quarto episodio rappresenta una notevolissima caduta di tono, di interesse e di sostanzialità delle vicende narrate, rispetto agli episodi precedenti. Si tratta di un episodio sostanzialmente insignificante, che non aggiunge nulla di significativo e che sembra fatto esclusivamente per annacquare il brodo. Anche il quinto episodio è alquanto deludente e finisce con l’annoiare, non avendo nulla di sostanziale da aggiungere. Le grandi dinamiche storiche tendono a scomparire dietro rapporti fra individui, che lasciano ben poco su cui riflettere allo spettatore. Nel sesto episodio emerge in modo sempre più evidente il formalismo che anima il regista e principale ideatore della serie, ovvero l’ideologia dominante degli apologeti indiretti del modo capitalistico di produzione. Nel settimo episodio tale tendenza a un formalismo fine a se stesso diviene assolutamente dominante, con il risultato di accrescere la noia per un nuovo e gratuito annacquamento del brodo, sempre più insipido.
L’ottavo episodio, dopo un inizio naturalista, precipita improvvisamente in un surrealismo postmoderno, sostanzialmente fine a se stesso. È davvero un peccato, che una serie tanto promettente, dilapidi completamente la credibilità che si era conquistata. Il nono episodio cerca di riprendere in extremis il tema fondamentale della serie, la ferrovia sotterranea, ma lo fa in modo poco verosimile e convincente. Nel decimo episodio il film torna a un lentissimo flashback che ci narra, con dovizie di particolari tendenzialmente e gratuitamente splatter, la tragedia priva di catarsi della madre della protagonista.
Normal people è una miniserie televisiva irlandese in dodici episodi prodotta da Element Pictures per BBC Three e Hulu, voto: 4. Il primo episodio sembra introdurre a una serie avvincente e godibile, sulla falsariga statunitense, ma più profonda e malinconica, ovvero tipicamente europea. La serie sembra, dunque, sintetizzare gli aspetti migliori delle serie americane ed europee, evitando gli aspetti peggiori, il postmoderno continentale e la ingenuità anglosassone. D’altra parte la storia è priva di elementi sostanziali, resta completamente ripiegata nella sfera immediata e naturale dell’eticità della famiglia e sembra una tarda ripresa del romanticismo. Peraltro, con tutte le nomination ricevute, era lecito aspettarsi decisamente di più.
Come spesso accade il secondo episodio vanifica gli spunti significativi presenti nell’episodio pilota e ne accentua gli aspetti più deboli. Innanzitutto il non avere nulla di sostanziale da comunicare, se non una banalissima storia di amore fra un ragazzo e una ragazza. Sembra, dunque, il consueto episodio per allungare inutilmente il brodo. La serie appare come una mera merce di evasione, di mediocre qualità, dell’industria culturale, incapace di interessarsi alle problematiche storiche, geopolitiche, sociali, economiche, etiche etc. Dopo un episodio del genere è difficile che una persona intelligente abbia interesse a continuarne la visione.
Il terzo episodio è un minimo più movimentato in quanto la protagonista non accetta l’ennesimo sopruso del ragazzo. Detto questo anche l’unica vicenda di cui si occupa la serie, ovvero il rapporto “d’amore” fra i due protagonisti è del tutto irrealistico e inverosimile, dal momento che è il ragazzo che si vergogna davanti alla società della sua relazione, sebbene sia il figlio della donna delle pulizie della famiglia ricca ed aristocratica della sua ragazza. A questo punto non ci resta che consigliare di seguire il nostro esempio e di smettere di continuare a vedere questa inutile e mediocre serie.
The Mandalorian 1x8, serie televisiva statunitense creata da Jon Favreau e prodotta da Lucasfilm. È distribuita sulla piattaforma streaming Disney+ dal 12 novembre 2019, voto: 3,5. Efficace arma di distrazione di massa, merce meramente culinaria dell’industria culturale, al solito funzionale all’egemonia della classe dominante. Come di consueto si tende a naturalizzare, trasferendoli anche nel futuro, i più brutali scenari del far west, qui epicizzati. Il primo episodio della serie è una ripresa decisamente epigonale degli spaghetti western, in particolare di Per un pugno di dollari di Sergio Leone, film a sua volta a ragione accusato di plagio del film di Kurosawa: La sfida del samurai. Inoltre, come al solito, ci viene presentato un futuro distopico, in quanto la mancanza di un minimo di spirito dell’utopia e di principio speranza da una parte impedisce anche solo di immaginare un futuro migliore, dall’altra tale stereotipata immagine del futuro è una apologia indiretta della società imperialista nella fase della sua putrescenza, che finisce per apparire il migliore dei mondi possibili. Infine, come di consueto, anche in questo caso assistiamo a un bizzarro intreccio di una civiltà supertecnologica regredita, da tutti gli altri punti di vista, a una società precapitalistica fra ancien régime e medioevo. Ciò dimostra, contro l’ideologia dominante neopositivista, che la tecnologia da sola non solo non risolve i problemi dell’umanità, ma che se è male usata da una società oppressiva li può addirittura peggiorare. D'altra parte, non essendoci soluzioni progressive, ma solo assurdamente reazionarie, anche questa rappresentazione è funzionale a sviluppare una concezione meramente conservatrice dell’esistente o apertamente reazionaria.
Emily in Paris 1x10, serie tv Usa, voto: 3,5; prodotto ben confezionato d’evasione dell’industria culturale statunitense. Certamente piacevole, anche se pieno di luoghi comuni alquanto scontati. Emerge, in maniera significativa come i francesi temano i lavoratori statunitensi che, con la loro logica calvinista e neoliberista, favoriscono l’autosfruttamento e l’aumento di orari e ritmi di lavoro. Visto che gli statunitensi vivono per lavorare e si realizzando attraverso il lavoro – naturalmente astraendo da tutte le problematiche dell’alienazione del lavoro salariato – mentre i francesi lavorano per vivere e per godersi la vita, al di fuori dell’estraneazione del lavoro salariato. Inoltre i francesi hanno decisamente più buon gusto e gli statunitensi più spirito imprenditoriale.
Il secondo episodio prosegue sulla falsariga del primo, discreto prodotto meramente culinario, gradevole, ma non bello, senza acuti né cadute, se non l’intollerabile concezione apologetica dello statunitense, privo di sfaccettature e decisamente inverosimile. Tali perplessità non possono che aumentare nel terzo episodio, in cui la giovane statunitense viene rappresentata come un modello di sensibilità dinanzi alla presunta rozzezza dei parigini. Così, dai luoghi comuni siamo passati a una rappresentazione decisamente rovescista. Il quarto episodio non aggiunge nulla di significativo, la serie pare aver già esaurito il poco che aveva da offrire.
Il quinto episodio rende sempre più surreale una serie che ha come protagonista una laureata in marketing, che adora il suo lavoro e che ha come principale obiettivo quello di far comprendere al suo dirigente, che la bistratta continuamente, che sarebbero dalla stessa parte. Aspetto comune ad altre serie comiche statunitensi è quello di presentare, senza un briciolo di effetto di straniamento, lavoratori sfruttati e bistrattati dai loro dirigenti, che non ambiscono ad altro che entrare nelle loro grazie e sono disposti, a tale scopo, anche ai più umilianti sacrifici.
Sesto e settimo episodio sono alquanto anonimi e servono quasi esclusivamente ad allungare il brodo. La serie apparentemente puramente culinaria e di evasione mira, in realtà, a far introiettare tutto il peggio dell’ideologia neoliberista. Così l’eroina con cui si tende a identificarsi, non essendoci naturalmente nemmeno un minimo di effetto di straniamento, ha due scopi fondamentali nella vita, far fare profitti a una ditta che pubblicizza beni di lusso e conquistarsi il proprio dirigente con ogni forma, anche la più umiliante, di captatio benevolentiae. Così, l’americana a Parigi da una parte fa la moralista puritana davanti ai francesi, che sarebbero tutti, secondo i più comuni luoghi comuni statunitensi, dei mezzi pervertiti, dall’altra normalizza e naturalizza gli aspetti peggiori del pensiero unico dominante.
L’ottavo episodio è sostanzialmente anonimo, al solito gradevole, ma ideologicamente micidiale. Nella serie i rappresentanti degli aspetti più rozzi del capitalismo – secondo il consueto luogo comune – sarebbero incarnati dai cinesi, mentre l’eroina statunitense si presenta come una donna che si è fatta da sola, grazie all’amore e la assoluta deduzione per il proprio lavoro. Emily rappresenta in pieno la banalità del male, visto che non si interroga mai criticamente sul lavoro che svolge, sul suo (non) senso, sui suoi fini.
Nel nono episodio scopriamo un’altra perla di “saggezza” neoliberista, ovvero che un uomo ricco e di bell’aspetto sarebbe un ottimo partito per una donna, del tutto a prescindere dal fatto che sia un impresario laido, snob e del tutto privo di contenuti sostanziali, in ciò in perfetta consonanza con la serie. La decima puntata mostra, senza volerlo, tutta l’ipocrisia del moralismo pietista statunitense. La protagonista procede tranquillamente sulla duplice staffa dei due amanti, sfruttando la crisi nel rapporto d’amore della sua migliore amica francese. Dunque, sarebbe lecito tradire le amiche, appena possibile, mentre al padrone si dovrebbero fare costantemente tutti i possibili salamelecchi, rinunciando a qualsiasi residuo di dignità. Penoso anche il luogo comune per cui, a causa della burocrazia, non sarebbe possibile in Francia licenziare “liberamente” i lavoratori salariati, anche da parte di proprietari di imprese private.
Anna, miniserie televisiva italiana del 2021, creata da Niccolò Ammaniti. La serie, composta da sei puntate, è basata sull'omonimo romanzo del 2015 di Ammaniti, voto: 3+; Anna e il romanzo da cui è tratta l’omonima serie sono riusciti a prevedere, sotto diversi aspetti, la pandemia che di lì a poco sarebbe esplosa, a ulteriore dimostrazione che con una buona preparazione in materia era del tutto prevedibile a riprova di quanto criminosi siano stati la mancanza di prevenzione dei paesi liberali occidentali. Interessante anche la raffigurazione di un mondo, improvvisamente dominato dall’anarchia, a ulteriore dimostrazione che lo Stato deve essere superato dialetticamente e non negato e distrutto astrattamente, come pretendono gli anarchici, altrimenti si riprecipiterebbe in uno stadio prossimo a quello di natura o a quello che si vive, per esempio, in Somalia. D’altra parte, al solito, lo scrittore non è in grado, come tutti gli intellettuali tradizionali (borghesi), di immaginare un futuro se non in termini necessariamente apocalittici. La solita trovata conservatrice, volta a una apologia indiretta del sistema imperialista, per quanto in crisi e nella sua fase di putrescenza, visto che altrimenti l’unica alternativa sarebbe precipitare in uno stato di natura esattamente identico a quello ideato da Hobbes per affermare la sua concezione assolutista. Mai che ci fosse, quantomeno, almeno la possibilità alternativa di superare il capitalismo in un sistema più giusto e razionale. Anzi, non solo il destino a tinte fosche si dà per scontato, ma altrettanto necessaria appare la pandemia, per cui non si potrebbe che contrarre il virus e morire a una certa età. Anche in questo caso si finisce per naturalizzate l’assoluta incapacità dell’imperialismo occidentale di prevenire, tracciare e mettere in isolamento i contagiati. Infine, come generalmente spesso avviene nei film europei che si vogliono dare un tono da autore, gli episodi della serie finiscono con l’essere inutilmente pesanti e lunghi, finendo con l’annoiare sempre più lo spettatore, non avendo peraltro oltre che il ritmo da offrire, non possedendo qualcosa di sostanziale da narrare oltre i due ricordati spunti iniziali.
Fran Lebowitz – Una Vita A New York di Martin Scorsese, Usa 2021, serie in sette puntate, voto: 3+; intollerabile serie documentaria di Martin Scorzese, che con un delirio romantico di onnipotenza ci ammorba lasciando campo libero a una sua amica, che considera geniale e piena di spirito, mentre almeno al pubblico italiano che vede la serie doppiata su Netflix, appare una persona sostanzialmente priva di qualsiasi qualità. A ciò si mescola il rapporto d’amore del regista con la sua città, altro legame puramente personale, soggettivo, privo di qualsiasi universalità. La serie, sin dalla prima puntata, oltre a essere estremamente noiosa, per chi non condivide con l’autore quel vissuto del tutto particolaristico, sembra avere come unico motivo d’interesse il vano sforzo per lo spettatore italiano di comprendere la ragione per la quale uno dei registi più quotati possa aver trovato così tanto interesse in un personaggio, almeno apparentemente, privo di rilievo.
Freud, serie in 8 puntate, drammatica e thriller, Austria, Germania e Repubblica Ceca 2020, voto: 3; la serie prende alcuni spunti dalla figura di Freud, dalla storia e dalla cultura del tempo e li inserisce all’interno di un giallo-thriller con elementi di noir ed erotici. L’impressione è che si sia messa troppa carne al fuoco e che il personaggio di Freud sia utilizzato in modo alquanto superficiale ed estemporaneo per puntare piuttosto a quelli aspetti culinari volti a fidelizzare gli spettatori alla serie.
Il secondo episodio conferma tutti i dubbi e le critiche rivolte al primo. Il terzo episodio – oltre a confermare il capitale difetto dei precedenti, per cui lo scienziato Freud diventa il pretesto per narrare storie legate a fenomeni paranormali e alla figura irrazionale di una medium – presenta i ribelli ungheresi come delle forze reazionarie, nella loro lotta per l’indipendenza dall’Impero asburgico. Unica nota significativa la denuncia delle tendenze reazionarie, nietzschiane e imbevute di ideologia della guerra diffuse nei circoli di ufficiali e in esponenti delle classi dominanti.
Nel quarto episodio la serie scade del tutto nell’irrazionalismo, un vero e proprio paradosso per un grande scienziato come Freud che ha ricercato la razionalità anche negli ambiti più oscuri dell’animo umano. La serie è una tipica merce culinaria dell’industria culturale europea, peraltro di pessima qualità, che cerca anche con i mezzi più sporchi di conquistarsi la parte del pubblico più arretrata, facendo leva e a appello ai suoi istinti più bassi.
WandaVision 1x9, serie comica statunitense di supereroi; voto 2,5; l’autoironia sembra – a ragione – l’unico strumento per far sopravvivere a loro stessi i noiosissimi superuomini al centro della serie. Anche l’ambientazione negli anni Cinquanta, di cui la serie offre la parodia, è certamente piacevole. D’altra parte, emerge tutta la natura conservatrice e a tratti reazionaria di questo genere di commedia, dove tutte le contraddizioni, a partire da quelle di classe, di razza e di genere tendono miracolosamente a sparire, trasmettendo un’immagine del tutto inverosimile e fondamentalmente truffaldina degli Stati Uniti degli anni Cinquanta, in piena caccia alle streghe.
Nei successivi episodi la realtà si rivela ben peggiore delle apparenze dei primi episodi. In realtà questa sitcom ultraconformista, banale e puramente culinaria – in cui però non si manca di sottolineare l’asservimento degli impiegati al padrone, che ha su di loro un potere assolutistico, e la precarietà dell’impiego che rende la forza lavoro (naturalmente non organizzata e combattiva) in totale balia del padronato – non sarebbe altro che il mondo “perfetto” in cui la protagonista, dotata di poteri magici illimitati, ha deciso di far rivivere il proprio rapporto con il marito deceduto. La completa assenza di qualsiasi grande ambizione, l’assoluta mancanza di spirito dell’utopia e persino di un briciolo di principio speranza non possono che produrre quel mondo incantato che la più tossica delle industrie culturali statunitensi – la Disney-Marvel – è in grado di spacciare.
A rendere tali aberrazioni ancora capaci di egemonia concorre l’ottima capacità di creare mezzi di distrazione di massa particolarmente godibili per masse completamente alienate, reificate e private anche di un briciolo di coscienza sociale. Peraltro la società statunitense, involontariamente presentata in tutta la sua brutale banalità, può avere una qualche efficacia solo spacciando come unica reale alternativa a essa, una società che ha tentato l’assalto al cielo con la transizione al socialismo, dando vita a un mondo spaventoso e assolutamente invivibile.
Del resto, il paradiso conformista al quale la coppia di supereroi fa di tutto per conformarsi, è in realtà per tutti gli altri un universo ultra totalitario. Anche se tale universo concentrazionario viene comunque giustificato dal fatto che Vanda l’avrebbe costruito per amore e per non essere in grado di rielaborare la morte del marito. Infine, ciliegina sulla torta, la serie finisce con il riabilitare persino la caccia alle streghe, mostrando come a Salem, dove vi fu l’ultimo tragico atto di questa barbara pratica, vi sarebbero state realmente delle streghe e anzi, queste ultime, sarebbero presenti anche al giorno d’oggi.
We Are Who We Are miniserie televisiva italo-statunitense co-creata e diretta da Luca Guadagnino per Hbo e Sky Atlantic in 8 episodi, voto: 2,5; serie insostenibile, paurosamente appesantita dall’ideologia dominante continentale: il postmodernismo. È davvero impressionante comprendere quanto viviamo all’interno del fascismo quotidiano, se una serie ambientata nella base Nato in Veneto (centro di tutti gli intrighi della strategia della tensione) possa affrontare la presenza di tale nucleo eversivo e base di partenza delle aggressioni imperialiste ai popoli del Sud del mondo – senza contare la presenza di armi nucleari – in modo del tutto acritico, con la coperture ideologica dell’unico quotidiano italiano sedicente “comunista”, che ha il coraggio di spacciare questo mediocrissimo prodotto dell’industria culturale come se fosse un autentico capolavoro artistico.