Per raccontare questa vicenda si potrebbe prendere a prestito lo slogan pubblicitario di Conad e affermare che i richiedenti asilo sono “Persone, oltre lo status”. Un concetto che dovrebbe essere ribadito soprattutto al presidente di un centro commerciale di provincia del Centrosud italiano, che di fronte all’ipotesi che la città debba ospitare circa 70 immigrati ha minacciato di fare lo sciopero delle tasse.
La città è San Salvo, in provincia di Chieti. Il centro commerciale si chiama (ironia del caso) Insieme. Qui è tornato a tener banco la questione immigrazione dopo che il Prefetto di Chieti ha ipotizzato di dare ospitalità a 70 richiedenti asilo in una struttura alberghiera nella zona commerciale cittadina. Tanto è bastato per far insorgere il sindaco della città, a cui il Prefetto ha già risposto affermando che da parte dei sindaci del territorio non ci sarebbe stata alcuna collaborazione a gestire la situazione. Da qui è partita la solita litania di commenti che descrivono i migranti come minacce all’ordine pubblico, alla sicurezza, alla legalità. Una preoccupazione che dovrebbe essere davvero poca cosa se si pensa, come fanno notare Rifondazione Comunista, Sinistra Anticapitalista, Sinistra Italiana e Cobas, che “sullo stesso territorio pesano almeno 6 grandi inchieste antimafia (di cui 2 proprio a San Salvo)” eppure “troppo spesso per i sindaci e le istituzioni locali la minaccia all’ordine pubblico sarebbe costituita da qualche richiedente asilo che necessita di ospitalità”. Una preoccupazione che per i centri commerciali diventa una supposta propensione al bivacco degli immigrati che disturberebbe i clienti del punto vendita. Perché poi, si sa, l’ottimismo è il profumo della vita e la visione della povertà non induce a pensare a buone prospettive per il futuro, specie se si vive in un territorio, qual è quello abruzzese, che registra dati sull’occupazione tra i peggiori degli ultimi dieci anni e un tasso di precarietà tra i più alti in Italia. E senza ottimismo c’è poca propensione alla spesa. E allora “gli scarti” umani meglio stiano lontani dalla vista.
Perciò, nel centro commerciale Insieme di San Salvo, dove si fa bella mostra dell’insegna Conad, è stata minacciata una forma di protesta dal sapore leghista: lo sciopero fiscale contro l'ipotesi di arrivo in città di 70 richiedenti asilo, un numero peraltro esiguo rispetto alle dimensioni del territorio ed in rapporto al numero di abitanti.
A detta del presidente del centro commerciale, quei richiedenti asilo, con la loro presenza nella zona esaspererebbero i clienti, che andrebbero perciò “a fare la spesa da un'altra parte”. Il rischio paventato è quello, niente meno, di mettere a rischio 40 attività del centro commerciale e 300 lavoratori.
Intanto, nel raggio di pochi chilometri si trovano diversi centri commerciali, supermercati, hard discount. Tale concorrenza, sembra essere concausa della riduzione di profitti e posti di lavoro di altri punti vendita, compresi alcuni a marchio Conad. Basti pensare che in alcuni di questi, solo pochi mesi fa, è stato firmato un accordo al ribasso per i lavoratori, che a fronte della minaccia di licenziamento sono stati costretti ad accettare la riduzione del salario ed una maggiore flessibilità. Naturalmente, non si ricordano proteste contro una liberalizzazione che permette l'indiscriminata apertura di nuovi punti vendita della grande e media distribuzione anche in territori saturi da questo punto di vista.
Di che ci si meraviglia. La grande distribuzione è a pieno titolo parte integrante del ciclo di valorizzazione delle merci. E a questo scopo è sacrificata ogni cosa, anche la perdita di posti di lavoro e l’abbassamento dei margini di profitti dei fornitori schiacciati dall’imposizione del potere contrattuale delle centrali d’acquisto della grande distribuzione. A quello scopo spuntano centri commerciali come funghi che, secondo studi della Cgia di Mestre, fanno perdere sei posti di lavoro per ogni posto di lavoro creato in un centro commerciale, che poi, generalmente, è mal pagato e ad alto grado di precarietà e flessibilità. Senza che ciò determini nemmeno un calo dei prezzi che abbiano effetti positivi per i consumatori (è quanto afferma uno studio della BCE).
Si sta uscendo fuori tema? Per niente. Perché questa situazione definisce le vere cause dell’impoverimento di un territorio, che non sono imputabili agli immigrati ma alle necessità di aumentare i margini di profitto, anche della grande distribuzione. E quindi, se il territorio dove dovranno essere ospitati quei 70 richiedenti asilo è in crisi, se lì si aggravano le difficoltà economiche di tante persone, è per responsabilità oggettiva di quel sistema economico che rende precari e più poveri i lavoratori che poi, quando da consumatori entrano in un centro commerciale possono spendere sempre meno. Come si dice: cornuti e mazziati.
E non finisce qui, perché poi, quelle stesse persone che gestiscono centri commerciali capita che minaccino – come si è visto - di non pagare le tasse, facendo così ricadere sempre sulle stesse persone, cioè sui lavoratori in condizioni più svantaggiate, le conseguenze di minore gettito fiscale che serve per far andare avanti una mensa scolastica, per pulire le strade, per fare manutenzione delle fogne. Attività svolte da altri lavoratori che, nell’impossibilità per un ente pubblico di finanziarle, rimarrebbero senza lavoro, aggravando ancora le condizioni di vita sul territorio. Ecco, la protesta del centro commerciale Insieme che espone il marchio Conad, comunque la si guardi, ricadrebbe su quegli stessi cittadini e lavoratori, che quando sono visti come potenziali clienti si dice di voler garantire tranquillità. Ma che sono consumatori sempre più poveri perché sono lavoratori sempre più precari, sempre peggio pagati e sempre meno garantiti.
C’è da aggiungere, tra l'altro, che a ben leggere, la posizione assunta dal presidente del centro commerciale Insieme pare quella di chi cerca di sottrarsi alle accuse di xenofobia con argomenti pretestuosi. Ma lo fa in maniera goffa, a tal punto forse da non accorgersi di addossare il problema sui clienti. Mi spiego.
Da quanto si legge, sembra che per il presidente di quel centro commerciale il problema non sia la presenza dei migranti in sé ma il fatto che i clienti, vedendoli, eviterebbero di spendere i propri soldi in quel punto vendita. Così, nello scaricarsi di un'idea che sa di razzismo, la addossa ai clienti. Sembra dire: “Io non sono razzista, ma i clienti sì”. E suona così simile a quel “Non sono razzista, ma…” che incoraggia guerre tra poveri che non fanno altro che diventare stampella e sostegno ai profitti realizzati sulle spalle dei lavoratori, siano essi italiano o immigrati poco importa. Perché quando c’è da realizzare profitti, non si guarda né al colore della pelle né alla provenienza. Se non in maniera pretestuosa per mettere gli uni contro gli altri uomini e donne spesso accomunati da una comune condizione.
Torna in mente Karl Marx quando analizzava le condizioni dei industriali e commerciali inglesi. Gli Irlandesi erano allora considerati dagli Inglesi alla stessa stregua degli immigrati oggi nel nostro Paese, provenienti da terre dilaniate dalla povertà. Marx, oltre cento anni fa, notava come: “L'operaio comune inglese odia l'operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita”, come: “L'operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese”. Ma, affermava Marx:“Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti”. La questione di fondo, in questo contesto, è che: “Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese” come oggi lo è della classe lavoratrice in Italia. Eccolo, nell’analisi marxiana “il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest'ultima lo sa benissimo.”
E la classe capitalistica lo sa tutt’ora. Noi faremmo bene a tenerlo di nuovo presente.