Sulla responsabilità civile dei magistrati la cura della crisi entro la divisione dei poteri dello stato

Già dai lontani anni ’80, sulla rivista La Contraddizione, sono stati pubblicati diversi articoli sui meccanismi in via di aggiornamento propri della Corporazione internazionale del capitale, volta alla sottomissione dei dominati o classi lavoratrici da disgregare. Lungi dall’essere obsolete, quelle analisi risultano le uniche in grado di leggere anche i fatti presenti, ultimi risultati di quel processo continuo, mistificato e svuotato di contenuti del “cambiamento” di classe proprietaria dell’ordine sociale.


Sulla responsabilità civile dei magistrati la cura della crisi entro la divisione dei poteri dello  stato

L’ultima legge sulla responsabilità civile dei magistrati rappresenta un’operazione di governance, o categoria del governare, attuabile nella preminenza dell’esecutivo, rispetto a magistratura e legislativo, quale garanzia di stabilità. Ci si è altresì dimenticati di rammentare che questo “pezzo di stato” potrebbe esercitare un controllo sulla legalità di un governo che non rispondesse più al dettato costituzionale. È nelle fasi di crisi, del resto, che il ruolo dello stato mostra più facilmente la sua finzione giuridica dove il diritto è strettamente connesso all’esercizio della forza, e questa è corroborata dalla corruzione e dal privilegio. 

di Carla Filosa 

Già dai lontani anni ’80, sulla rivista La Contraddizione, sono stati pubblicati diversi articoli sui meccanismi in via di aggiornamento propri della Corporazione internazionale del capitale, volta alla sottomissione dei dominati o classi lavoratrici da disgregare [1]. Lungi dall’essere obsolete, quelle analisi risultano le uniche in grado di leggere anche i fatti presenti, ultimi risultati di quel processo continuo, mistificato e svuotato di contenuti del “cambiamento” di classe proprietaria dell’ordine sociale. 

Riguardo all’ultima legge sulla responsabilità civile dei magistrati, obiettivo inserito (sin dal 1976 - 1981) nel piano P2, si è parlato molto (anche con servizi televisivi ad hoc) a giustificazione della “tutela dei cittadini”, per un senso di “equità con altre categorie professionali”, ecc. Gli slogan usati quali “chi sbaglia paga”, “chi decide non giudica”, ecc., volti a carpire il consenso facile dei voti futuri, danno conto della sufficiente superficialità con cui si è inteso legittimare un’operazione di governance, o categoria del governare, attuabile nella preminenza dell’esecutivo, rispetto a magistratura e legislativo, quale garanzia di stabilità. Non è stato ricordato neppure che la magistratura è uno dei tre poteri dello stato, in cui questo è stato artatamente suddiviso, e non è una professione qualunque. Ci si è altresì dimenticati di rammentare che questo “pezzo di stato” potrebbe esercitare un controllo sulla legalità di un governo che non rispondesse più al dettato costituzionale, per l’appunto in agenda da modificare in prossima battuta e in dispregio dell’art. 138 dopo che, dalla sua promulgazione nel 1948, se ne è per lo più vanificata l’applicazione reale da parte di tutti i governi fino all’oggi. 

Il “neocorporativismo” – così abbiamo per anni chiamato l’attualizzazione imperialistica entro la fraternité sempre belligerante tra i capitali mondiali – deve poter sostenere il monopolio del conflitto sociale. Annulla infatti gradualmente la bilateralità reale della lotta di classe con le masse lavoratrici, ideologizzate sul mantenimento formale dell’apparente “legge uguale per tutti”, e sulla fiducia nelle “istituzioni democratiche”, garantite dallo sbandierato “stato di diritto”. Tale organizzazione, ormai mondiale, non può però ovviare alle crisi dovute allo stesso funzionamento del sistema di capitale. È in queste fasi che il ruolo dello stato mostra più facilmente la sua finzione giuridica dove il diritto è strettamente connesso all’esercizio della forza, e questa è corroborata dalla corruzione e dal privilegio. “La politica” (sintesi attuale per indicare il potere esecutivo con i suoi “bravi” e collusi) non può tollerare “l’indipendenza e l’autonomia” rivendicata dalla magistratura, ma si attiene al principio di garantire i rapporti di proprietà, formando e piegando le istituzioni in funzione di questo obiettivo. La riforma modernista o reazionaria che colpisce i magistrati dopo stagioni di vilipendio, denigrazione e umiliazione è solo l’evidenziarsi della dipendenza, in particolare dei pubblici ministeri, del “pezzo di stato” da quei rapporti di forza cui deve integrarsi, pena l’eliminazione fisica o legalizzabile. 

“Superamento del conflitto ancora in corso” 

265 sì, 51 no, 63 astenuti (Lega, Sel, Fi, Fdi, Alternativa Libera) e M5s contraria, hanno varato la legge sulla responsabilità dei giudici “con profili di incostituzionalità”. I punti della riforma sono: 1) responsabilità indiretta: il cittadino può citare lo stato che ha l’obbligo di rivalsa sul magistrato entro 2 anni dal risarcimento, fino a un massimo di metà dello stipendio. In caso di dolo il risarcimento è totale. 2) eliminazione del filtro di ammissibilità dei ricorsi (affidata oggi a un tribunale distrettuale è la verifica dei presupposti e la valutazione di manifesta infondatezza). 3) Ipotesi di travisamento del fatto o delle prove. 4) limitata la clausola di salvaguardia che esclude la responsabilità del magistrato. 5) Ridefinite le fattispecie di “colpa grave” (già esistente). Riguarda il fatto inesistente o negazione di fatto esistente, violazione manifesta della legge e del diritto comunitario o travisamento, provvedimento cautelare al di fuori della legge. La motivazione governativa di questa legge è espressa dall’“esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte, e dal superamento definitivo del conflitto ancora in corso”. A siffatta esigenza la risposta di Roberto Scarpinato sembra la più consona. «Non c’è nessun conflitto in corso, ma inchieste penali su scandali corruttivi: l’Expo a Milano, il Mose a Venezia, Mafia Capitale a Roma, processi a Milano e Palermo su collusioni tra colletti bianchi e mafia inseriti in un mondo politico, mai emarginati. È un occulto cavallo di Troia, una trama normativa che mette nelle mani dei poteri forti obliqui strumenti di condizionamento dell’indipendenza e autonomia dei magistrati, quale unico anticorpo contro il dilagare pervasivo dell’illegalità e dell’uso distorto del potere pubblico» [2]. 

La “politica” ha bisogno però di distinguere l’indipendenza simbolica dalla realtà della dipendenza del giudice. Quei magistrati ammazzati (Amato, Falcone e Borsellino, ecc.) costituiscono l’evidenza di quel potere stragista clandestino da cui si è tutti dipendenti, a dispetto delle verbalizzazioni ideologiche, e che prioritariamente bisogna sconfiggere se si aspira all’indipendenza reale. È necessario acquisire la coscienza di questa realtà per poter lottare contro uno stato al servizio delle classi dominanti, il cui unico conflitto in corso, e permanente oltreché strisciante, è nei confronti dei lavoratori da cui estrarre gratuitamente plusvalore. Ogni filtro istituzionalizzato, e non, va riconosciuto come tale senza affidarsi a un’apparente e comunque limitata libertà di stampa o di parola, “democraticamente” frapposta quale ammortizzatore della violenza del dominio.

 

NOTE: 

[1] http://www.contraddizione.it/indice_generale.htm
[2] Impotenza contro colletti bianchi genera sfiducia. Il discorso del pg di Palermo all'apertura dell'anno giudiziario di Roberto Scarpinato - 24 gennaio 2015. http://www.antimafiaduemila.com/2015012453366/societa/qimpotenza-contro- colletti-bianchi-genera-sfiduciaq.html

05/03/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Carla Filosa

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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