La pubblicazione della Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza del 2018 (Nadef 2018) ha acceso la discussione sui numeri del deficit, facendo dimenticare quanto ivi illustrato riguardo tre importanti riforme costituzionali contenute nel contratto di governo. La prima riguarda l’introduzione, nell’articolo 71 della Costituzione, di una particolare forma di iniziativa legislativa popolare “rinforzata” che può essere confermata attraverso il referendum popolare. La seconda è la riforma del referendum abrogativo (art. 75 C.) che modifica il quorum richiesto per la sua approvazione e introducendo di fatto una sorta di liberismo referendario. Queste due riforme sono in discussione alla Camera dei Deputati (proposta di legge costituzionale C. 1173-A). La terza riforma riguarda la riduzione del numero dei parlamentari (artt. 56 e 57 C.) che il Senato ha già approvato in prima deliberazione (S. 214 e abbinate).
Di queste vere e proprie controriforme e della autonomia regionale differenziata (la c.d. secessione dei ricchi) che il governo si appresta a concedere a Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (ma altre regioni potrebbero seguire) ne parliamo con Angelo Ruggeri, operaio meccanico, sindacalista, già segretario regionale del PCI in Lombardia e membro di numerosi movimenti e associazioni tra cui il Movimento nazionale antifascista per la difesa ed il rilancio della Costituzione.
Domanda. Siamo di nuovo ad un attacco alla Costituzione, ma nessuno ne parla
Risposta. Colpisce la mancanza di attenzione e il silenzio di coloro che difesero la Costituzione dagli attacchi renziani e oggi tacciono rispetto alle nuove proposte di modifiche costituzionali avanzate dall'attuale governo. Nei confronti del quale nessuno si pone il problema di svelarne la direzione di marcia, a meno che si rilanci impudicamente la “fake news” che per dare più potere al popolo serva cambiare la Costituzione. Oltretutto, le proposte di revisione costituzionale avanzate non escono dal perimetro dell’iniziativa del governo, non diversamente da quanto fu denunciato per le “revisioni” costituzionali dei governi Berlusconi e Renzi.
Colpisce anche che nessuno approfondisca e dica che per ricostruire un circuito corretto di rapporti tra forze politiche e sociali e popolo ed obbligare i governi a mettersi al passo col popolo e con la domanda sociale di uno sviluppo in cui risorse e conoscenze siano al servizio dei cittadini-lavoratori, bisogna collegare l’istituto del referendum deliberativo a una nuova forma di governo e di democrazia organizzata. Infatti, il referendum esprime una volontà collettiva che per concretarsi deve esprimersi dal basso anche per esercitarsi nel “dopo referendum”.
Domanda. Dove sta il cuore dell’attacco?
Risposta. La valutazione complessiva delle proposte di riforma costituzionale in corso - la riduzione del numero dei parlamentari, l'abolizione del divieto di vincolo di mandato (che di per sé non produce il “mandato imperativo” vigente all’epoca della Comune di Parigi e che serviva a legare gli eletti al popolo e non al partito) e la consultazione popolare sull'attuazione delle leggi, ecc. - mi sembra potersi sintetizzare nell'emersione di un disegno teso a creare un canale privilegiato tra i vertici di governo (i suoi capi) e pezzi della società civile fatti di gruppi di pressione. Non già un rapporto diretto con il “popolo”, ma un tramite sulla base di poteri mediatici e plebiscitari a vantaggio delle imprese finanziarie e industriali che dominano l'Ue e a svantaggio dell'effettiva rappresentanza popolare. Rappresentanza che avviene tramite il Parlamento, come punto di confluenza dalla “democrazia di base” e del governo parlamentare, a garanzia di diritti e poteri della democrazia sociale.
Domanda. Non possiamo dimenticare di essere in una situazione in cui il pluralismo del popolo sovrano non ha voce…
Risposta. Infatti! Perché allora, se questi signori al governo ci tengono tanto a dar voce al popolo, non rilanciano la soluzione più naturale, ovvero il sistema elettorale proporzionale integrale? Invece pongono in essere un procedimento che froda la Costituzione: i singoli atti di revisione programmati – di per sé plausibili anche perché realizzati mediante la procedura dell'art. 138 C. – tendono così a convergere verso un medesimo obiettivo: l’ulteriore svalorizzazione della “centralità” del Parlamento e, quindi, la messa in discussione del sistema di governo parlamentare come “presidio” della forma di stato di democrazia economico-sociale.
Domanda. Ancora una volta sembra una questione tutta tra giuristi.
Risposta. È ben risaputo che nell'attuale, fin troppo esasperata, divisione del lavoro accademico, si usa pensare che la forma della decisione è questione che riguarda le conoscenze esclusive dei giuristi. Questa abitudine a ritenere che nelle questioni delle decisioni c'entrano solo i giuristi, è tanto più singolare per quanti ritengono che è “scienza” solo quella “tecnica”, come la scienza esatta, mentre sarebbe pseudo-scienza, invece, tutto quello che riguarda il sociale.
Domanda. Come pensi che si dovrebbe integrare la democrazia rappresentativa oggi in crisi?
Risposta. Il solo strumento giuridico capace di dare veramente voce al popolo e attuare la sovranità popolare, non sostituendo ma integrando la democrazia rappresentativa, deve consistere in un atto autentico di democrazia diretta, cioè in un referendum politico deliberativo sugli atti di governo. Unico referendum veramente popolare in quanto incide sul vero vertice che in nome della “governabilità” domina l’intero sistema istituzionale e quindi l’intera società ed in definitiva il “popolo sovrano”, espropriandone la sua sovranità. Si inciderebbe così, e col ritorno al proporzionale puro (che in vigore dal 45 in poi è stato smontato proprio con l’inganno della governabilità a qualunque costo), sull’efficacia operativa delle decisioni prese dal governo e legittimate dalla maggioranza parlamentare semplice. Un’ideologia, quella della governabilità, che come tale è incompatibile con una prospettiva di democrazia diretta, essendo la governabilità il punto teorico di omologazione di tutte le forme sia storiche che contemporanee di organizzazione del potere dall'alto.
Domanda. Puoi darmene un esempio?
Risposta. Un potere sia autoritario che totalitario – della governabilità dall’alto – era quello mussoliniano o quello invocato da Jaruzelski in Polonia o dai vari Pinochet in Cile e in altri Paesi del Sud America, perché ogni regime ha le sue esigenze di governabilità, in quanto conservazione del potere.
Domanda. Come si può allora ricorrere a forme corrette di democrazia diretta?
Risposta. Se davvero si vuole integrare la rappresentanza con forme di democrazia diretta, serve concretare una democrazia sostanziale e non solo formale, con una diversa idoneità a governare che non presenti in forme diverse – quali quelle proposte anche dall’attuale governo – una identica idoneità alla governabilità, ovunque e comunque intesa come forma di governo immutabile. Ovvero, come funzione sostitutiva di pochi a molti e restringimento anziché allargamento alla società, se non di arroccamento di grandi centrali di potere dietro le forme apparenti della democrazia e del popolarismo. Governabilità che, appunto, continuerebbe a sussistere con l’avanzamento di proposte di “riforme” di articoli della Carta, sempre e ad opera di tutti i vari gruppi dirigenti di governo passati e presenti, “plebiscitati” tramite premi di maggioranza e collegi uninominali. Forme, in definitiva, che ricalcano quelle stesse della mussoliniana legge Acerbo del 1923 e della Legge truffa del 1953, nonché quella piduista invocata dalla Loggia P2 di Licio Gelli. Con conseguente attacco e effettiva abolizione dei partiti “veri”, delineati dagli articoli della Carta e, in particolare, dall’art. 49 C.
Domanda. La governabilità sbuca sempre a danno della sovranità popolare, o sbaglio?
Risposta. Sui referendum con cancellazione del quorum previsto dalla Carta per limitarne l'abuso antiparlamentare e di quelli “abrogativi” – proposta concepita per aggirare la Carta e la centralità del Parlamento – ci si mantiene sempre sotto il segno della ideologia della governabilità, rafforzandola con rapporti tra vertice di governo e lobby della società civile, giungendo a decapitare democrazia sociale e opposizione sociale. In definitiva, si usa la società civile contro la sovranità popolare e il governo parlamentare.
Domanda. Cosa dici allora dei referendum proposti che sono così poco indagati e sottoposti a dibattito?
Risposta. Nel feeling tra il PD della renziana sovversione costituzionale e i 5stelle, si introduce un quorum di solo il 25% per tutti i referendum, attribuendo poi la valenza di “popolo” a un gruppo che raccoglie solo 500 mila firme per indire referendum e solo 50 mila per promuovere leggi di iniziativa popolare. Se poi si aggiunge la gravissima riduzione numerica della rappresentanza popolare parlamentare (esattamente nello stesso numero di 400 indicato dal Piano P2 di Licio Gelli) emerge con assoluta chiarezza la portata dell’attacco.
L’obiettivo non dichiarato esplicitamente rimane quello della riduzione della effettiva rappresentanza popolare e della centralità del Parlamento come assemblea terminale della democrazia di base e del potere dal basso. È questo potere quello su cui è incardinato il sistema istituzionale della Repubblica delle autonomie della nostra Carta: in esso tutte le frecce direzionali del circuito giuridico democratico-sociale indicano e sanciscono la direzione del potere che va dal basso verso l’alto, dal territorio e dalle assemblee parlamentari locali fino al Parlamento, come assemblea nazionale dove si rappresentano diritti e poteri del popolo. Quel che occorre è obbligare i governi a mettersi al passo con la domanda sociale e di uno sviluppo in cui risorse e conoscenze siano al servizio dei cittadini. Si collegherebbe così l’istituto del referendum deliberativo a una nuova forma di democrazia organizzata e di base.
Aggiungo che un referendum deliberativo sugli atti di governo non richiede alcuna modifica della Costituzione, in quanto si affianca all’azione parlamentare tramite un atto inedito, quale l’attuazione dell’art. 1 della Costituzione, che prevede la sovranità popolare e, quindi, una possibile “consultazione popolare” per ogni atto governativo di indirizzo politico, da configurarsi come “decisione” finale dello Stato e vero atto di democrazia diretta (del popolo). Si contrasterebbe così il trasferimento improprio di decisioni a “consigli di gabinetto”, a “comitati interministeriali” e alla pioggia inarrestabile di decreti legge e di leggi delega, che realizzano di fatto un primato dell'iniziativa legislativa governativa a danno di quella parlamentare.
Domanda. Quindi niente referendum?
Risposta. Di certo sotto le forme proposte e sotto quelle in cui si attua non posso dire che il referendum sia democrazia diretta e di certo non appartiene alla democrazia sociale, ma è, anche storicamente, uno strumento pseudo-democratico della politica dall’alto, sia per la fonte da cui emana (vertici di potere politico, economico, lobby e corporazioni d’interesse della società civile, ecc. che li promuovono e decidono il quesito su cui il popolo può solo dire Si o No), sia per l’effetto a cui mirano (l’abrogazione in parte o in tutto di Leggi del Parlamento). Potrebbe persino trasformarsi in strumento dell’antiparlamentarismo, del “bonapartismo” e del “plebiscitarismo”, come è insito nel progetto di legge di modifica costituzionale dell’attuale governo.
Per questo è gravissimo sia che il governo proponga dei referendum, senza proporre una diversa forma di governo e di rappresentanza proporzionale; sia che abbia accettato, su proposta del Pd, di abolire il quorum del 51% previsto dai Costituenti per i referendum abrogativi. Per fare del referendum uno strumento di democrazia sociale e veramente popolare, occorre rendere incisiva la sovranità popolare, almeno raddoppiando il numero dei promotori di referendum e decuplicando quello delle leggi di iniziativa popolare, facendo crescere un potere reale dal basso dei movimenti e dei soggetti sociali, anche come promotori dei quesiti e dei referendum, come si iniziò a fare negli anni ‘80 contro l’installazione dei missili e si fece contro il nucleare civile. È cosÌ che dopo un avvio contraddittorio in cui era coerente con i principi dire NO (all’abrogazione della legge sul divorzio), si è pervenuti ad una fase in cui il SI apriva la strada all’iniziativa legislativa del Parlamento (l’epoca del No al nucleare), contro norme del governo che rendevano e rendono subalterno tutto l’assetto centrale e decentrato alle scelte governative che mettevano e mettono in pericolo il rapporto tra sviluppo e domanda sociale dei cittadini lavoratori.
Domanda. Insomma, mi pare che tu pensi ad una pluralità di strumenti che rendano la sovranità popolare determinante ed effettiva. È così?
Risposta.È necessario capire che non vi è uno strumento tipico, ma una varietà di mezzi con cui attivare e rendere incisiva la sovranità popolare, facendo nello stesso tempo crescere, non invece simulando un potere reale dei movimenti e dei soggetti sociali (petizioni, leggi di iniziativa popolare, referendum etc.). In definitiva, ritengo del tutto legittima l’introduzione, tra le leggi della Repubblica, di una legge regolativa del referendum deliberativo e, contestualmente, o successivamente, di una legge che disponga ad esempio un referendum di tale natura: “Volete che siano sospese le deliberazioni del governo in merito a ... e o… su altre parti riguardanti…”. Si noti che qui ad essere messe sotto giudizio sono le decisioni governative, non parlamentari. Altro che tribunale dei ministri! Naturalmente queste proposte dovrebbero avere congrue configurazioni procedurali, sempre in funzione di un maggiore peso del principio della sovranità popolare, come da articolo 1 della Costituzione.
Domanda. E sulla faccenda pericolosissima del trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni?
Risposta. Essa appare come la gravissima ultima conseguenza del non aver capito veramente la natura del leghismo (che ho esposto nel libro edito da Il Lavoratore con la CGIL Lombardia) e nell’essersi limitati a considerare le sue manifestazioni più “esteriori”, oltre a non aver mai veramente compreso cos’è il “federalismo” come cultura di destra, al punto che si è arrivati alla modifica del Titolo V della Costituzione ad opera del centrosinistra. Una conseguenza così grave che rischia di essere irreversibile, in quanto, come atto concordato tra governo e regioni, per essere eventualmente revocato, richiederebbe il consenso delle Regioni che l’hanno voluto.
Domanda. È un percorso che viene da lontano…
Risposta. Sì! In fondo si sta attuando quello che aveva chiesto Formigoni in Lombardia e che era stato battuto almeno sotto il profilo giuridico-istituzionale anche grazie alle lotte locali, in particolare sui temi della sanità e della scuola. Ora Salvini ha scoperto che il federalismo si può far partire dal Governo e quindi far discendere dall’alto a beneficio dei ricchi contro l’unità repubblicana. Questo federalismo, di cui Di Maio non riesce nemmeno a capire la direzione, è incompatibile non solo con uno “Stato di democrazia sociale”, ma anche con uno Stato meramente “assistenziale”, uno Stato sociale. Non a caso tutti i modelli sanitari e sociali più avanzati hanno potuto affermarsi dove lo stato non era federale, come la Svezia e l’Italia.
E non è un caso che nella proposta avallata dal governo Salvini - Di Maio non si parla mai dell’Europa, perché se si richiama il carattere di integrazione dei sistemi economici e poi politici, sia europei che mondiali, non si può fare a meno di valutare come la dimensione locale e ambientale delle politiche economiche, di quelle industriali, di quelle energetiche, di quelle agricole, di quelle sociali, non si fermano e non possono essere affrontate in una dimensione regionale, ma solo in un contesto statal-nazionale. È tramite il circuito nazionale-statale della programmazione economica democratica, cioè dal basso verso l’alto, dal territorio alle Assemblee parlamentari attraverso la rete delle autonomie locali, che lo statal-nazionale diventa collegamento intermedio, che proietta la partecipazione dal basso verso il sistema di relazioni sovra-nazionali ed extranazionali.
Domanda. Nel separatismo federalista vedi forse svanire l’orizzonte internazionalista?
Risposta. Proprio l’internazionalismo, la dimensione europea e internazionale dei problemi, porta ad escludere il separatismo federalista o regionalistico e ad esigere il rilancio e la piena attuazione di uno “stato delle autonomie” come è previsto dall'ordinamento costituzionale, perché solo in tale sistema è possibile non escludere le comunità sociali-territoriali e i poteri locali da una partecipazione piena ed effettiva (come da Art. 49 C.) alla determinazioni delle scelte nazionali ed internazionali, sia nelle sue sedi centrali che nelle sue proiezioni sovranazionali. In definitiva, per avere un esecutivo di gestione che anche nelle sue proiezioni sovranazionali sia effettivamente dipendente dalla comunità, occorre un potere diffuso che dalla società si eserciti – come nell’idea della Costituente – oltre che con i referendum, attraverso le forme istituzionali del potere democratico espresso con le assemblee elettive parlamentari e quelle locali, regionali. Innanzitutto, va abolita l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di regione, un presidenzialismo che per la sua natura antisociale è ancor più grave di quello nazionale se applicato ad assemblee elettive che debbono raccogliere e rappresentare la realtà sociale territoriale.
In assenza e nel silenzio su tutto ciò, la valutazione complessiva delle modifiche costituzionali in corso, rivela che esse sono parte di un processo strisciante volto ad aggirare la Costituzione: di conseguenza, in questa fase di rapporti di forza sfavorevoli, occorre difenderla integralmente da tutte le pseudo-riforme il cui obiettivo reale si rivela essere, paradossalmente, quello di abolire la “partecipazione”, al coperto della proclamazione della volontà popolare, sepolta sotto il presidenzialismo e uninominalismo-maggioritario delle forme di governo locale, regionale e nazionale.