Dopo lo Sblocca Italia e il Job's Act, questo provvedimento si delinea come l'ennesimo regalo alle imprese. Per i ragazzi dei tecnici 600 ore di tirocinio gratuito nell'ultimo triennio. Si crea così lavoro di qualità per i giovani? Sarebbe necessaria invece una nuova educazione per imparare a cooperare, cogestire e progettare insieme forme di produzione di beni e servizi utili alla comunità.
di Diego Chiaraluce
“Prof, io andrò a Berlino”. “Io mi iscriverò in qualche università inglese, così imparo la lingua e parto avvantaggiato!”. Queste sono alcune delle esternazioni - magari un po' affrettate - che gli studenti esprimono quando discutono del loro futuro. Di studi universitari e di lavoro di qualità. Perché è a questo che pensano. A come svignarsela da una crisi che non gli appartiene. E che rende l'università cara e poco appetibile e il lavoro una prospettiva tortuosa. Perché per i giovani il lavoro non c'è, e se c'è è precario, sottopagato e privo di tutele e prospettive. Di fatto, i “lavoretti” di berlusconiana memoria.
Tempo, attività e denaro che non corrispondono alle esigenze di vita.
Così, è più semplice immaginare un futuro a Berlino o a Londra. Realtà dinamiche assai meno asfissiate da corruzioni “amicali” e in cui - nonostante tutte le “riforme” neoliberiste - esiste uno stato sociale, un sussidio di disoccupazione e una minimum wage, un salario minimo intercategoriale. Si emigra, in circa 200 mila nel 2013, verso paesi dove il lavoro è mediamente più retribuito e meglio normato. E non in nero.
Il giovane Renzi ha da tempo esternato la volontà di rilanciare il lavoro giovanile. Lo ha fatto mediante il Jobs Act irritando visibilmente milioni di lavoratori e di giovani che si vedono negati diritti indispensabili. Stabilità, salario dignitoso e prospettive di carriera negate - ai giovani e non solo - dall'asse Renzi-Confindustria.
L'altra grande riforma messa in cantiere dal governo, quella sulla scuola, presenta un intero capitolo sul rapporto che le scuole superiori, in particolare quelle tecniche e professionali, dovrebbero intrattenere con le imprese.
Il documento renziano - con modestia intitolato “La buona scuola”- riconosce i deficit del sistema formativo, “aggravato dal fatto che la scuola ha perso costantemente risorse negli ultimi anni, in particolare per l'offerta formativa”; inoltre, viene segnalato il problema - drammaticamente classista - della dispersione scolastica a partire dalla scuola media. Il dato nazionale indica che quasi il 18 per cento dei giovani tra i 18 e i 24 anni non ha un diploma superiore alla licenza media e non è in più in formazione. In Sicilia e in Sardegna un giovane su quattro si ferma alla terza media per poi perdersi nel mercato - formale e informale - del lavoro.
Su tali questioni - storiche e croniche - il papello colorato del governo sentenzia che “il 40 per cento della disoccupazione in Italia non dipende dal ciclo economico”. Ma dalla degradata astuzia del padrone - aggiungeremmo con forza - che in assenza di una politica industriale pubblica, ha tracciato le nuove mappe dello sfruttamento - e dell'incremento dei profitti di impresa - delocalizzando le imprese altrove. Gli operai ammazzati dalle condizioni di sfruttamento a Rana Plaza in Bangladesh, non lavoravano anche - in regime di subappalto - per i nostri colossi del tessile? E il “buon” Marchionne che è pronto ad assumere, ma solo quando sarà in vigore il Jobs Act, non minacciava gli operai di Pomigliano di spostare tutto in Polonia in caso di vittoria della mozione della Fiom? Intanto, la Vecchia Signora della Fabbrica Italiana Automobili Torino ha spostato la sede - e paga le tasse - in Gran Bretagna, e ha il 77% dei dipendenti all'estero.
“La buona scuola” affronta il tema del “disallineamento tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede alla scuola di sviluppare, e ciò che la nostra scuola (...) offre.” In sostanza, se c'è una forte disoccupazione giovanile, la colpa è anche della scuola che non ha saputo cogliere appieno le esigenze delle imprese. Pertanto, la soluzione offerta dal governo è l'apertura di percorsi di formazione all'interno di realtà lavorative aziendali, pubbliche e del no profit per tutti gli studenti delle secondarie superiori. Va segnalato che l'istituto del tirocinio in azienda è già presente da anni.
Le tipologie “didattiche” individuate dal governo sono le seguenti: l'alternanza obbligatoria, l'impresa didattica, la bottega scuola, l'apprendistato sperimentale.
Nel primo caso, viene potenziata l'attività di tirocinio in azienda - già presente nei tecnici e nei professionali - attraverso la “messa al lavoro” dei ragazzi del triennio per almeno 200 ore l'anno. Viene, inoltre, concessa la possibilità di estensione del tirocinio di un anno nei professionali. La gestione del progetto formativo dei ragazzi viene effettuata in maniera congiunta dai docenti tutor e dagli amministratori dell'azienda.
In Italia circa 1 milione e 400 mila studenti frequentano gli istituti tecnici e professionali. Presumibilmente, circa 800 mila studenti frequentano il triennio. Pertanto, se ciascuno degli studenti del triennio - come indica il governo - dovrà sostenere almeno 200 ore di tirocinio, le imprese avranno a loro disposizione circa 160-165 milioni di ore di lavoro gratuito. Che magari sottrarranno qualche oretta di lavoro salariato a qualcun altro...
Di fatto per le imprese si apre un nuova dimensione dello sfruttamento del lavoro, da “istruire” nelle posture relazionali, produttive e politiche, al fine di plasmare dei lavoratori docili, flessibili e preparati alle esigenze - ideologiche e pratiche - del padrone.
Tutto questo riformare non è a costo zero. “Il costo minimo per rendere obbligatoria l'alternanza negli Istituti Tecnici e Professionali è pari a circa 100 euro a studente. Ciò significa che per far diventare l'alternanza immediatamente accessibile a tutti gli studenti degli Istituti Tecnici in tutta Italia, occorre passare dagli 11 milioni di euro stanziati nel 2014 a 75 milioni. Una somma aggiuntiva dovrebbe essere prevista per estendere l'obbligo nei Professionali, arrivando a circa 100 milioni di euro all'anno”.
Di fronte a certe cifrette, come finanziare una scuola che “estende” la mole - e i costi - delle sue attività formative?
Semplicemente, immettendola sul mercato. Col modello dell'impresa didattica “gli istituti di istruzione superiore e di istruzione e formazione professionale possono commercializzare beni o servizi prodotti o svolgere attività di “impresa formativa strumentale”, utilizzando i ricavi per investire sull'attività didattica. A tale scopo è necessario incoraggiare l'uso della doppia contabilità, al momento diffusa soprattutto negli istituti agrari, a tutti i tipi di scuole e generalizzare la possibilità di produzione in conto terzi.” Pertanto, la scuola viene messa a produrre manufatti o servizi, dai catering di un Istituto Alberghiero ai software di un indirizzo informatico dell'Itis, a opere d'artigianato artistico di un Istituto d'Arte.
La comunità della scuola ha effettivamente un potenziale produttivo inespresso. Sarebbe interessante aprire spazi di produzione creativa - slegati dalle tradizionali logiche di mercato - in cui far manifestare idee, fantasie e capacità degli alunni, al fine di esprimere al meglio le competenze acquisite e creare un attitudine alla creatività. Attitudini che spesso vengono soffocate dalle priorità del “programma” seguito dagli insegnanti e dagli “imperativi categorici” delle prove Invalsi. Ma, nel contesto delineato dalla riforma Renzi, possiamo immaginare una scuola capace di produrre che sia libera dai tempi imposti dal mercato? E chi commissionerebbe le “opere” da far produrre agli alunni, avrebbe in mente le necessità e le modalità dei tempi dell'apprendimento? O, ancora una volta, sarebbe il mercato a dettare i tempi in cambio di trenta denari? Infine, in caso di profitti, chi e come li gestirebbe?
Sempre mantenendo un profilo da agenzia interinale, la buona scuola identifica anche nella “bottega scuola” una prospettiva di “inserimento degli studenti in contesti imprenditoriali legati all'artigianato, al fine di coinvolgere più attivamente anche imprese di minori dimensioni o tramandare i “mestieri d'arte”.”
In sintesi, la riforma renziana della scuola è nei fatti la messa al lavoro della scuola e si rende chiaro che “non si parlerà più di alternanza, ma di “formazione congiunta” tra l'aula e il luogo di lavoro, tra la scuola e l'impresa” perché “le imprese e la scuola co-progettano, in coerenza con lo sviluppo delle filiere produttive, percorsi pensati per durare nel tempo”. Di fronte a questa contaminazione fra scuola e impresa, quali saranno le forme dell'amministrazione della scuola? Quali saranno i rapporti economici tra scuole e imprese? Quali nuove figure strumentali nasceranno all'interno degli Istituti? Con quale peso nella comunità degli insegnanti, nelle assemblee, nei momenti decisionali e, cosa ancor più importante, nell'indirizzare i ragazzi verso decisioni importanti?
Il progetto di riforma renziano ci pone comunque la questione di quale scuola e per quale società del lavoro. Il problema è che la scuola attuale è tutt'altro che rispondente alle esigenze della crescita di individui critici e dinamici, pronti a muoversi nella democrazia e nel lavoro. E' stata, di fatto, messa all'angolo da istituzioni altre e peggiori. L'incredibile potenza di fuoco messa in campo dalle agenzie “culturali” del berlusconismo, ma non solo, ha dipinto come looser colui che studia.
Negli anni '70 dei B movies e negli anni '80 dell'ascesa delle reti Fininvest, la scuola è stata l'allegro teatrino dove animare studenti scansafatiche, goffi professori, provocanti supplenti e genitori stravaganti. Ma si è sempre trattato di una rappresentazione comico-sarcastica che non si poneva l'obiettivo di far immedesimare lo spettatore nei personaggi per renderli dei modelli per i giovani.
È con l'arrivo melmoso dell'orda di tronisti e soubrette che si è avuto uno spartiacque nell'immaginario giovanile dei “modelli” di riferimento. Ai ragazzi sono stati proposti dei modelli di “vincenti” della porta accanto che hanno parzialmente scansato i vecchi cantanti, artisti, attori, sportivi. Per cui, perché imparare a suonare, leggere, scrivere, danzare, discutere, dipingere, competere? Andy Warhol aveva già dichiarato che tutti hanno diritto a “cinque minuti di fama nella vita”. Ma non credo avesse immaginato che sarebbero stati momenti all'insegna della più totale imbecillità.
Hanno assaltato il mondo giovanile coi mezzi di persuasione più potenti della storia dell'umanità, tentando di asfaltare con la merda la parte più gioiosa, disperata, critica, inacciuffabile dell'essere giovani: l'immaginare oltre.
Una scuola attenta è capace di aprire un percorso critico con se stessa e con tutta la società in merito al proprio ruolo e alle conseguenze che la diffusione - apparentemente inarrestabile - di modelli negativi ha sulle nuove generazioni (e, perché no, anche su quelle meno giovani)?
I tempi e le modalità di fare scuola sono realmente idonee alle necessità di una società complessa, smarrita e con un costante incremento delle contraddizioni esistenti?
“La buona scuola” tenta - a sua modo - di affrontare la questione della dispersione scolastica e del rapporto col mondo del lavoro. Ma allora, perché non discutere col mondo della scuola sui tempi, i programmi, le modalità di insegnamento, le modalità relazionali, i linguaggi e gli spazi? potremmo aprire dei cantieri di discussione formidabili, soprattutto ora che la crisi, la globalizzazione, le migrazioni e le tecnologie ci pongono nuove domande a cui dobbiamo rispondere nella più piena libertà di pensiero e azione.
Le politiche dei tagli continui, sistematici e violenti - perché lesivi dei diritti dei più deboli, come i disabili - hanno determinato un costante deterioramento della qualità del vivere la scuola. Dai salari del personale, alle infrastrutture, alle amministrazioni, alla diminuzione delle ore destinate all'insegnamento, all'aumento dell'età pensionabile (su cui la riforma Renzi non fa un cenno, nonostante l'Italia abbia gli insegnanti più anziani d'Europa). Come si inserirebbero le 200 ore di stage in azienda nella programmazione attuale? Quali ore sarebbero soggette all'ennesima contrazione di tempi e contenuti? E, questione non detta, perché a lavorare gratis ci mandano - ancora una volta - i ragazzi provenienti dalle scuole tradizionalmente destinate ai figli dei lavoratori? E con quali prospettive future, quelle delineate dal Jobs Act?
Il miracolo economico degli anni '80, quello dei distretti industriali e delle piccole e medie imprese vocate all'export non ha retto alla globalizzazione. Complici di tutto ciò, l'assenza di una seria politica industriale, la fuga di capitali, imprese, culture produttive - quel “saper fare” che piace a governo e confindustria - evidentemente subordinate ai dogmi del profitto d'impresa.
Ora, in questo contesto in cui l'economia di tutti i paesi dell'Europa meridionale arranca, sarebbe auspicabile una scuola che insegnasse a cooperare, a cogestire, a progettare insieme - attraverso un processo analitico - come sperimentare forme di produzione di beni e servizi utili alla comunità, come produrre nuove mentalità produttive slegate dal giogo dell'impresa privata tradizionale. Alle cui esigenze questo paese ha subordinato tutto.
Al contrario, il progetto di riforma appare interessato ad aprire il campo vasto della scuola alle necessità delle imprese che, secondo le affermazioni del sottosegretario Faraone, hanno già mostrato un vivo interesse. Anche perché il governo sta studiando lo “school bonus”, una sorta di defiscalizzazione per chi accoglie i ragazzi nei tirocini o finanzia le attività delle scuole. Che dare di più? L'anima.
Sì, il timore è che si stia vendendo l'anima stessa della scuola per trasformarla in qualcosa di troppo attento agli appetiti del mercato, a una sorta di centro formativo pre-agenzia interinale. È ovvio che i ragazzi meditano la fuga da quest'enorme fabbrica di precari che è l'Italia di Renzi.