I RISCHI PER I LAVORATORI
Ridurre l’orario di lavoro è possibile? La proposta dei sindacati confederali, apprezzata dall’intero centro-sinistra e che ha trovato un’insolita sponda anche da parte del Governo, punta a mantenere invariati sia il salario che il livello di produttività settimanale. Come? Istituire la settimana corta allungando parzialmente l’orario dei quattro giorni lavorativi ridurrebbe al minimo lo scarto di ore lavorate, porterebbe i dipendenti a essere psicologicamente “rinvigoriti” (in virtù del giorno extra di riposo) e, con ciò, consentirebbe un aumento della produttività oraria. Questo sarebbe il fattore chiave in grado di far recuperare alle aziende i proventi persi con la riduzione del tempo di lavoro.
Questa idea circola a livello internazionale. Nel Regno Unito, ad esempio, è stata condotta una ricerca su sessantuno aziende che si sono prestate ad adottare provvisoriamente la settimana corta. Sono stati presi in esame alcuni gruppi di lavoratori impiegati e, a ben vedere, i risultati non sono stati così positivi [1]. In Cile i sindacati si sono detti contrari alla recente proposta legislativa di riduzione dell’orario di lavoro, dichiarando che nascondeva una profonda flessibilizzazione del rapporto lavorativo e pure che tale riduzione sarebbe parzialmente rimasta sulla carta [2]. In alcuni segmenti della forza-lavoro europea la settimana corta ha già localmente comportato la scomparsa dei festivi, dei notturni e degli straordinari, nonché l’adozione di sistemi di turnazione in alternanza che presentano una varietà tale da poter compromettere l’equilibrio psico-fisiologico. Ciò sembra valere innanzitutto per i settori operai, ma non esclusivamente. L’adozione della settimana corta nel settore bancario, per esempio, ha portato ad “aumenti delle mansioni esigibili e un evidente vantaggio economico per la parte datoriale, oltre a un sensibile aumento dello stress derivante dalla crescita dei carichi di lavoro” [3].
La domanda, allora, è la seguente: esiste davvero un comune interesse alla riduzione dell’orario? Una strategia che metta insieme, da un lato, imprese e Governo, e dall’altro i lavoratori?
Nessun esponente politico disconosce veramente che tale riduzione debba comportare vantaggi anche per le imprese ma è probabile che le due parti interpretino la questione in maniera molto diversa. Pensiamo anche noi che l’interesse principale degli imprenditori stia nel tentativo di ottenere un aumento di produttività. Questo, però, deriverebbe dall’imposizione di ritmi più intensi e dall’estensione del tempo giornaliero di utilizzo degli impianti, fino al ciclo continuo 24/7 [4], piuttosto che dal grado di soddisfazione psicologica dei dipendenti. L’interesse consisterebbe anche nella riduzione del costo del lavoro: l’organizzazione di un sistema di turni che copra l’intera giornata porterebbe alla diminuzione del peso economico degli straordinari, del lavoro festivo e di quello notturno. Questi, anziché come aliquote di maggiorazione, potrebbero essere definiti direttamente all’interno del pagamento previsto per quel dato sistema di turni e perdere progressivamente peso in sede di contrattazione aziendale, viste le attuali scarse capacità di mobilitazione e resistenza di lavoratori e sindacati. Ulteriori vantaggi sarebbero rappresentati dall’aumento del grado di sostituibilità del lavoratore: l’organizzazione di un sistema di turni vario e articolato consente di coprire eventuali ammanchi di forza-lavoro molto più efficacemente che con l’orario uguale per tutti, anche in caso di scioperi. Questa capacità di riorganizzazione aziendale è oggi ben visibile in varie aziende (per esempio Amazon) capaci di approntare un sistema di turnazione talmente articolato che i lavoratori, di settimana in settimana, raramente incontrano di nuovo la stessa persona. Sono molto diffusi i contratti “a espansione”, che prevedono la possibilità di richiedere dei giorni extra di lavoro in caso di bisogno dell’azienda, anziché le giornate settimanali ordinarie (che in Amazon sono due).
A nostro parere, dunque, i rischi connessi a una politica di riduzione dell’orario derivano dal fatto che questa verrebbe gestita liberamente dagli imprenditori e dal Governo. Dipendono, cioè, dai rapporti di forza attuali tra i lavoratori e i capitalisti.
Del resto la possibilità di “gestire male” tale politica riposa su solide basi giuridiche che mostrano una linea di tendenza della legislazione italiana. Le illustreremo attraverso alcuni esempi, rappresentativi ma per la verità non esaustivi. Fin dalla Direttiva 2003/88/CE e dalla L. 66/2003 (Art. 4) si parla di orario medio di lavoro, derogando al limite settimanale assoluto di 48 ore previsto dalla legge, purché nell’ambito di alcuni mesi vi si rientri almeno come media. Il riposo di 11 ore previsto fra un turno e l’altro di lavoro (Art. 6) e la giornata di riposo aggiuntiva che di norma spetta al lavoratore dopo la fine di un turno notturno possono tranquillamente finire per coincidere, visto che la legge lo consente esplicitamente (Dir. 93/104/CE, Art. 5). Non è un caso che la L. 66/2003 (Art. 17, comma 3) permetta di non rispettare la regola delle 11 ore “per l'attività di lavoro a turni tutte le volte in cui il lavoratore cambia squadra e non può usufruire tra la fine del servizio di una squadra e l'inizio di quello della squadra successiva di periodi di riposo giornaliero”.
Questo se non vi sono conflitti col relativo contratto collettivo nazionale di lavoro, che però non è comunque difficile aggirare. In effetti se guardiamo al sistema produttivo italiano la contrattazione di secondo livello è l'ambito in cui le parti datoriali hanno ottenuto i migliori risultati. Spesso il sindacato ha scambiato deroghe ai contratti nazionali con premi detassati, che poi contribuiscono soprattutto agli interessi dell'impresa, determinando aumenti degli orari, delle prestazioni straordinarie esigibili e della flessibilità individuale. Inoltre nella contrattazione di secondo livello gli aumenti sono sempre vincolati all’incremento della flessibilità e della produttività. Questo diventa spesso il faro guida dell'operato sindacale, che per questa via introietta concetti e prospettive della controparte.
GLI OBIETTIVI DEGLI IMPRENDITORI
I governi dei paesi Ocse si sono mossi all'unisono per accrescere la produttività; finalizzati a questo scopo, sono nati persino comitati interministeriali e con le parti sociali. I richiami dell'UE all'Italia e alla Spagna vanno, infatti, nella direzione di costituire questi comitati in tempi rapidi, come se i tavoli tra aziende, parti datoriali e sindacali non si fossero già mossi negli ultimi 40 anni in questa stessa direzione. In Italia l'accrescimento della produttività ha alimentato anche il ricorso alla performance, che per esempio nella PA ha sancito una distribuzione del salario accessorio assai discrezionale e con palesi disparità dietro parametri ben poco oggettivi. E a distanza di decenni la forza-lavoro attende ancora la quattordicesima mensilità.
Dietro al mito della produttività (e del cosiddetto merito) si celano innumerevoli obiettivi riducibili alla sola crescita economica, che creano all’occorrenza un clima di paura nei luoghi di lavoro e costringono a prestazioni aggiuntive, a percorsi formativi nel tempo libero e a carico del singolo, nonché ad orari flessibili che riducono il tempo di vita.
In tempi lontani la produttività cresceva con l’innovazione tecnologica, con quei processi innovativi che nel tempo sono stati condizionati e guidati solo per aumentare gli utili aziendali… sistemi di produzione che un tempo erano negoziati con il sindacato, quando esisteva un reale potere di contrattazione. Il mito della neutralità della scienza e della tecnologia è stato funzionale a far passare un'organizzazione del lavoro sempre più alienata, oltre a sottrarre parti di salario alla forza-lavoro proprio quando aumentavano gli utili delle imprese.
Allora, è stata proprio la subalternità agli interessi datoriali ad avere spinto questo processo di incremento della produttività alle estreme conseguenze, annullando nel tempo ogni forma di reale contrattazione. L'avvento dello smart working e della settimana corta è parte dirimente di questa campagna per la produttività e la digitalizzazione produttiva, anche se è fin troppo diffusa l’idea che si tratti di innovazioni benevole e favorevoli alla forza-lavoro.
Vari autori hanno inquadrato la bassa redditività degli investimenti in capitale in Italia come un problema connesso alla scarsa capacità di investire per riconvertire gli apparati industriali, oltre che a un’economia e un mercato del lavoro relativamente “rigidi” [Bolatto, Frigero, Manello, 2014]. Al di là dell’impianto teorico, che non è detto risulti condivisibile, l’importanza di questi studi per noi risiede nel fatto che la poca redditività degli investimenti venga accostata alla dinamica della riduzione delle ore lavorate, che rispetto agli altri Paesi europei ha subito una certa contrazione (soprattutto a partire dal 2000). Tale dinamica sarebbe stata collegata a una specifica difficoltà del capitalismo nostrano a ricollocare la forza-lavoro attiva, ossia a un problema di ammodernamento produttivo (riallocazione su mercati a maggior valore aggiunto e digitalizzazione dei processi). La rivendicazione della riduzione dell’orario (alias la turnazione flessibile e l’utilizzo più esteso degli impianti) in cambio dell’aumento dei ritmi di lavoro potrebbe allora essere stata pensata come un incentivo esterno per spingere le aziende ad aggiornarsi. E se è vero che, anziché competere sul piano della redditività dei capitali e dell’implementazione tecnologica, i capitalisti italiani hanno preferito sostenere le proprie attività intraprendendo strategie di riduzione dei costi, la riduzione dell’orario lavorativo appare ancor più centrata in quanto consente margini di manovra, su un terreno giuridico sicuro, per ottenere una abbassamento del costo del lavoro potenzialmente rilevante e, allo stesso tempo, avvantaggiare quei settori del capitale in grado di sostenere i processi di ammodernamento produttivo e tornare a far crescere il “ranking” dell’economia italiana.
Sarebbe veramente una strategia da disperati, se fosse l’unica carta, ma ciò che conta sono le ragioni politiche per le quali tale proposta è attualmente sul tavolo. In che misura e maniera potrà essere attuata, se verrà attuata, non lo sappiamo. Né crediamo che si possa dire a una coppia di lavoratori con due figli piccoli a carico che non devono accettare la riduzione oraria a parità di stipendio perché potrebbe trattarsi di una fregatura… Nelle condizioni presenti una battaglia per la consapevolezza e la cultura politica è l’unica scelta che abbiamo, nel tentativo di rendere i lavoratori vigili (anche in riferimento ai propri sindacati) e in grado di ingaggiare uno scontro sul piano della regolazione della riduzione oraria. Proprio perché, come abbiamo suggerito, potrebbe riguardare principalmente la contrattazione di secondo livello. Perciò nessuno sforzo è vano. Inaccettabili, piuttosto, sono le posizioni acritiche dei sindacati (e dei partiti) promotori di questa iniziativa politica. Sarebbe necessario che questi sostenessero uno sforzo per comprendere la realtà al fine di modificarla, anziché innestare la propria lettura dei processi socio-economici su quella dominante e conformarsi al principio della riduzione del danno (o, peggio, della connivenza con la controparte): non basta ridurre (provvisoriamente) l'orario, se le conseguenze sono la crescita di produttività e plusvalore, nonché delle innumerevoli forme di assoggettamento dei dipendenti sul posto di lavoro.
La riduzione dell'orario di lavoro è stata in passato una conquista avvenuta grazie alle lotte dei lavoratori e non è stata subordinata agli interessi datoriali. Il risultato di una riduzione che invece non intacchi gli interessi del capitale è triplice: conquistare la pace sociale, affermare la supremazia dell'ideologia padronale e accrescere soprattutto la produttività e il plusvalore.
Una riduzione dell'orario che sia subordinata all'incremento di produttività, se è certamente ben vista dal datore di lavoro, non sposta di un millimetro il problema occupazionale che affligge le società moderne perché con lo stesso numero di lavoratori si riesce a produrre la stessa quantità di beni e servizi.
Note:
[1] https://pungolorosso.wordpress.com/2023/04/03/la-mitologia-della-settimana-corta-federico-giusti-cub-pisa/.
[2] https://contropiano.org/news/internazionale-news/2023/04/17/cile-sindacati-rifiutano-la-flessibilita-imposta-dalla-legge-40-ore-0159257.
[3] V. nota 1.
[4] Lo sviluppo di un’organizzazione del lavoro più produttiva tramite la riduzione oraria potrebbe preludere, nel giro di alcuni anni, a un nuovo grave aumento degli orari di lavoro.
Indicazione bibliografica:
Stefano Bolatto, Piercarlo Frigero, Alessandro Manello, La produttività dell’industria manifatturiera italiana: un confronto con gli altri paesi industrializzati, in Evoluzione della grande impresa e catene globali del valore, Fondazione Ansaldo Editore, 2014, Recco (GE).