Mentre nella baraccopoli di San Ferdinando, paesino della piana di Gioia Tauro a pochi chilometri da Rosarno, si piange l’ennesimo bracciante morto carbonizzato (Moussa Ba, ventinovenne di nazionalità senegalese), martedì a Catanzaro si è celebrata la prima udienza del processo per l’omicidio di Soumaila Sacko, il bracciante e sindacalista Usb ucciso a colpi di fucile il 2 giugno dell’anno passato in quelle stesse campagne. Due morti diverse ma dalla regia unica che si vanno a sommare alle altre decine di morti degli ultimi anni, tra cui quella di Sekine Triore, 26 anni del Mali, freddato nel 2016 da un Carabiniere.
Morti utilizzati dai vari Ministri dell’Inferno per trasformare i problemi economico-sindacali derivanti dal modo di produzione degli agrumi in un problema di ordine pubblico, da risolversi tramite ruspe, sgomberi e linciaggi (come a Rosarno nel 2010, ministro Maroni) per meglio perpetrare il barbaro sfruttamento di questa forza-lavoro e assicurare così la riproduzione del sistema.
Ogni anno, infatti, nella piana di Gioia Tauro arrivano in migliaia per lavorare come braccianti. A richiederli sono sempre gli stessi imprenditori agricoli che hanno bisogno di stagionali per raccogliere la frutta dagli alberi, in particolare arance e clementine. E quindi, a tornare da tutta Italia, sono per lo più immigrati con regolare permesso di soggiorno. Gli africani sono i più adatti a sopportare le terribili condizioni di lavoro, l’assenza o le violazioni di un qualunque contratto (meno del 30% ne ha uno), la paga da fame che non permette di cercarsi un alloggio dignitoso. Che in quelle zone costa comunque troppo per chi guadagna 20 euro al giorno e oltre al cibo deve pure pagare 5 euro ai caporali per il lavoro che ottiene e il trasporto da e verso i campi.
Il problema della baraccopoli, dunque, si presenta in maniera semplice e cristallina: salari da fame e assenza di diritti. Questioni ripetutamente denunciate in ogni sede, conosciute da tutti ma sempre ignorate. Perché la filiera produttiva richiede agli imprenditori agricoli prezzi sempre più bassi, che questi non potrebbero permettersi senza sottopagare la forza-lavoro, senza i finanziamenti europei, questi ultimi erogati sulla base degli ettari coltivati e non della raccolta, e senza la complicità delle autorità preposte che gli garantiscono manforte nella violazione dei più elementari diritti dei lavoratori, erogando una parte del salario che altrimenti spetterebbe agli imprenditori pagare. Come ad esempio avviene per l’alloggio.
Sì perché a San Ferdinando, dopo la rivolta di Rosarno del 2010, non c’è solo la baraccopoli ma anche una vera e propria tendopoli comunale, ovviamente e ufficialmente “temporanea” ma con telecamere, un sistema identificativo per entrare e per uscire e con orari di chiusura e apertura. Una tendopoli che, a detta del sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi (del Partito democratico) “sopravvive con trasferimenti episodici e incerti, erogati dal Ministero degli Interni e puntualmente rendicontati dal Comune. Con tali somme vengono garantiti servizi di prima civiltà alla ‘Baraccopoli’ e servizi di ristoro, di igiene e di sicurezza all’interno della ‘Tendopoli’, spendendo mediamente 1 Euro al giorno per ogni migrante”.
Riassumendo: siamo di fronte a una classe imprenditoriale che riceve soldi pubblici e paga ai lavoratori un salario insufficiente che deve essere integrato dalle elargizioni (in natura) da parte delle autorità locali. Una situazione tipica, come se ne sono viste tante nella storia di questo paese (e non solo).
La posizione dei partiti e dei sindacati
La Cgil Calabria, come riporta il sito di informazione del Partito Democratico, nel commentare il decesso di Moussa Ba parla di “una morte annunciata” denunciando che “questa morte, come le altre, ha precise responsabilità, politiche e istituzionali”. Il sindacato, tuttavia, secondo quanto riportato dal Quotidiano del sud, è cosciente che “non si risolvono i problemi di natura abitativa se questi braccianti guadagnano 20-23 euro al giorno, 50 centesimi per ogni cassetta raccolta, perché non sono nelle condizioni di pagare un regolare fitto”. E quale sarebbe dunque la soluzione? Per Giovanni Minniti della segreteria nazionale della Flai Cgil “la soluzione è fare come sta facendo la regione Puglia, e cioè allestire un campo di accoglienza container con moduli abitativi come prima risposta all’emergenza che qui si è creata”.
Come si vede, dunque, per la Cgil benché il problema sono le paghe basse la soluzione non consiste nell’alzarle, come ci si aspetterebbe chiedesse un sindacato. No, la soluzione consiste nel fornire container popolari (a riprova che trattasi di persone di serie B che non hanno neanche diritto di dormire in una casa in muratura). Una posizione che non deve stupire dal momento che il maggior sindacato italiano partecipa attivamente alla definizione dei piani “per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori” e dei piani di “riallineamento retributivo” come previsti dalla legge n. 199 di contrasto al caporalato varata dal governo Renzi il 29 ottobre 2016. I rappresentanti dei lavoratori, insieme agli enti pubblici e alle associazioni imprenditoriali, non solo contribuiscono alla messa in piedi e alla gestione delle tendopoli o di “modalità sperimentali di collocamento agricolo modulate a livello territoriale” ma organizzano pure l’abbassamento salariale generalizzato.
Se la tendopoli umilia la dignità abitativa, i contratti di riallineamento retributivo (detti anche di gradualità) umiliano la dignità lavorativa. Previsti esplicitamente per quei territori e quei settori c.d. “svantaggiati”, questi accordi nati negli anni ‘80 in Puglia servono a finanziare il presunto mantenimento dei livelli occupazionali e il presunto adeguamento ai salari minimi (i tabellari da Ccnl) con l’effettiva socializzazione del costo del lavoro (sotto forma di sanatorie fiscali e contributive, fiscalizzazione degli oneri sociali, ecc) e il ripristino delle gabbie salariali. Col risultato di introdurre criteri (come la residenza e il settore lavorativo) che prescindono dai profili oggettivi della prestazione lavorativa - che dovrebbe essere l’unico criterio per derogare in peggio il minimo salariale - e definire la retribuzione individuata dal contratto collettivo nazionale non più come “la retribuzione sufficiente” (ex art. 36 Costituzione) ma come la retribuzione massima. Quindi, se anche sei bravo come chiunque altro ma hai la sfortuna di lavorare in un settore o in un luogo “svantaggiato” il tuo salario può essere più basso e al massimo potrai aspirare, un giorno e se ti comporti bene, al tabellare. Una vera cuccagna, non c’è che dire, che tra l’altro è riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato. Giuseppe Di Vittorio si rivolterebbe nella tomba.
Il Partito Democratico, dal canto suo, oltre a sposare la linea suddetta (avendola anzi tracciata all’epoca dei governi di centrosinistra negli anni ‘90), tramite il presidente della regione Calabria, Gerardo Mario Oliverio, si è impegnato a supportare con un fondo di garanzia l’integrazione abitativa dei migranti nei tanti alloggi sfitti di San Ferdinando e dei comuni limitrofi, così come nei tanti beni confiscati nella zona. Per quanto riguarda il problema salariale, invece, il Pd punta a erogare un reddito aggiuntivo per quei lavoratori che vengono impiegati almeno 51 giorni nelle campagne [1].
Praticamente l’ulteriore rafforzamento del lavoro nero, che risulta già incentivato dagli speciali ammortizzatori sociali, i quali in agricoltura, come scrive l’Inps, sono “diversi da quelli accessibili dagli altri lavoratori in quanto concessi a prescindere dalla data di inizio e dalla durata della disoccupazione. In molti casi perciò, i sussidi di disoccupazione diventano una forma di integrazione al salario, volta a compensare la forte stagionalità del lavoro agricolo. Questo spiega anche perché la percentuale di lavoratori che fruisce dei sussidi sia molto alta (attorno al 50%) e rimanga tale anche in fasi di ripresa economica”. Per un totale di circa un milione di lavoratori subordinati e quattrocentomila coltivatori diretti, coloni, mezzadri e imprenditori agricoli professionali. Sussidi che incentivano la riproduzione del lavoro nero e dei bassi salari; come farà il reddito di cittadinanza recentemente varato dal governo.
Se Pd e Cgil hanno perso la loro funzione politica e sindacale, la situazione alla loro sinistra non sembra molto migliore. Per quanto riguarda il problema abitativo, infatti, la linea suddetta è molto diffusa. Domenico Lucano, il sindaco sospeso di Riace, parla di recuperare le case vuote o abbandonate. Il che potrebbe anche essere una buona idea se non fosse lecito dubitare dei reali interessi che andrebbero a essere tutelati da un’operazione del genere. Mi riferisco ovviamente ai costruttori/speculatori immobiliari, come quelli che a Rosarno hanno tirato su case (vere, non container) “con fondi europei dedicati proprio ai lavoratori immigrati. Si tratta - come riferiscono i compagni di Campagne in lotta - di 6 palazzine nuove, che possono ospitare 250 persone, in contrada Serricella”. Case nuove costruite apposta per gli immigrati e lasciate vuote a marcire. Oltretutto, come ricordato durante la riunione del neonato “Comitato per il riutilizzo delle case vuote della Piana”, a finanziare il recupero delle case vuote o abbandonate sarebbero comunque i soldi pubblici, nel caso specifico il fondo di garanzia per l’integrazione abitativa della regione Calabria a guida Pd [2].
Potere al popolo, dal canto suo, rilancia questa soluzione: “In Calabria non ci sono scuse perché qualcuno viva per strada: la casa è un diritto, il lavoro sicuro e tutelato anche; nella sola provincia di Reggio, dai dati della scorsa estate, 26mila costruzioni sono inutilizzate per 400mila stanze vuote mentre, nell’intera regione, 90mila edifici e 1 milione di stanze sono vuoti”. E anche per il partito capitanato da Viola Carofalo e Giorgio Cremaschi “I miliardi buttati in inutili, parziali e dannose soluzioni emergenziali, potrebbero essere senza difficoltà investiti per garantire ospitalità diffusa, incentivi all’affitto di case sul territorio, ottenendo non solo una vita più dignitosa per chi vorrebbe poter vivere del proprio lavoro come le persone normali, ma provando anche a superare barriere sociali che i ghetti non fanno altro che ergere e amplificare”.
La posizione dei comunisti
E i comunisti? Se non dobbiamo dimenticare l’importanza della lotta economico-sindacale non possiamo limitarci ad essa. “Le Trade Unions compiono un buon lavoro come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale - ci dice Marx in Salario, prezzo e profitto - ma esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l'abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato”.
Dunque non possiamo che sostenere le rivendicazioni provenienti dai venditori della forza-lavoro che, in ragione delle leggi dello scambio di merci chiedono salari più alti e condizioni di lavoro migliori. Una richiesta esattamente speculare a quanto chiedono i compratori della forza-lavoro, che sulla base di quelle stesse leggi vantano il diritto di utilizzare al massimo grado possibile la merce acquistata. Ma “fra due diritti uguali decide la forza” (Marx, il Capitale). E nella lotta puramente economica a essere il più forte, si sa, è il capitale; per questo se si vuole effettivamente affermare il diritto dei più deboli si deve sviluppare necessariamente un’azione politica. Che oggi sappiamo essere compito non del sindacato ma del partito.
Se dunque non si può non appoggiare quelle iniziative portate avanti da sindacati, collettivi e altre realtà più o meno organizzate che mirano a far comprendere ai braccianti i diritti di cui godono, i rischi che corrono e che li aiutano a resistere al tentativo di incarcerazione nelle varie tendopoli e container, d’altro canto non si può non rilevarne il limite oggettivo nella misura in cui non trovano traduzione sul piano politico (facile a dirsi, difficile a farsi). A parità di tutte le altre condizioni, infatti, un aumento dei salari non può che significare una diminuzione dei profitti che oltre un certo limite porta alla migrazione del capitale in un altro settore o all’abbandono del luogo. Per questo i miglioramenti economici dei lavoratori sono sempre confinati all’interno dei margini di compatibilità previsti dalle leggi dell’accumulazione capitalistica. D’altra parte, le stesse aziende agricole della piana di Gioia Tauro, malgrado tutti gli aiuti suddetti e i salari da fame che pagano, segnano il passo sia per quanto riguarda i livelli produttivi sia per quanto riguarda l’utilizzo della terra. E qui sta il punto.
Stando ai dati Istat, dal 2006 al 2017 la superficie dedicata alla coltura dell’arancio nella provincia di Reggio Calabria è diminuita del 37% e la produzione addirittura del 77%. Queste diminuzioni non sono state compensate dagli altri agrumi tanto che la produzione complessiva di questi frutti è calata del 72% e la superficie loro dedicata del 31%. Una crisi che ha colpito tutta la Regione (-38% la produzione e -16% la superficie coltivata). Una crisi, dunque, che prescinde dai livelli di sfruttamento e che si inserisce nella più ampia dinamica di sviluppo del capitalismo che porta alla rovina i piccoli produttori, all’abbandono delle terre, al rendere superflua una parte della forza-lavoro, ecc, e che soltanto la collettivizzazione dei mezzi di produzione può fermare.
Per tanto, la nostra politica non può limitarsi ad analizzare i motivi e i meccanismi internazionali che portano allo stato di cose presenti e a criticare le soluzioni prospettate, elogiandone l’umanità (quando non serve da schermo ipocrita per servire gli interessi costituiti) e denunciandole come meri palliativi fintanto che il potere rimarrà in mano a chi lucra su emergenza e speculazione in quanto funzionali alla riproduzione del sistema. Ma dobbiamo imparare a convincere ampi strati delle classi popolari, dei ceti medi, dei piccoli produttori, ecc che la nostra soluzione meglio risponde anche alle loro esigenze e non solo a quelle dei proletari. Una soluzione che non può prescindere dalla crisi, il cui spauracchio è artatamente agitato per frenare le legittime richieste dei braccianti che, come gli altri venditori di merce, chiedono soltanto di vedersi riconosciuti il “giusto” prezzo per la vendita della loro merce, quello determinato dai costi di produzione e riproduzione della forza-lavoro secondo le condizioni sociali medie vigenti in Italia; una soluzione fatta per lo più di case in muratura e non di tendopoli. Al contrario, la crisi patita nella piana di Gioia Tauro come nel resto della regione (e in gradi e forme differenti anche nel resto del mondo) è quella determinata dalle contraddizioni intrinseche del modo di produzione che soltanto un loro superamento può definitivamente fermare.
Note
[1] Tale proposta è ascoltabile dal minuto 4.40 al minuto 5.40 di questo video.
[2] Per una panoramica delle soluzioni abitative progettate e realizzate si veda Campagne in lotta a questo link.