Se tanti argomenti dividono gli esponenti del sì e del no, ce n’è uno, estremamente importante, che li unisce e da cui bisogna partire per comprendere la reale portata della riforma Boschi: il riconoscimento del legame che intercorre tra la riforma costituzionale e i cambiamenti occorsi in seno alla società civile. Il 4 ottobre, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, il ministro delle infrastrutture e trasporti, Graziano Delrio, esprime la cosa coi termini tipici del piazzista: “Se vince il no, il Governo viene sconfitto in una sua proposta fondamentale che è coerente con tutte le altre riforme che abbiamo fatto in questi anni”. Jobs act, buona scuola, riforma della pubblica amministrazione, piano casa, sblocca Italia, decreto competitività, elargizioni varie (dagli 80 euro al bonus cultura), ecc. Dunque, se si approvano questi (e gli altri) provvedimenti non si vede perché non si dovrebbe approvarne l’architettura sovrastrutturale che, costituzionalizzando il filo rosso che li unisce, rafforza gli interessi che dette leggi tutelano.
E che si tratti di un adeguamento della teoria alla pratica sono anche gli esponenti dell’altro schieramento a confermarcelo. Il Presidente emerito della Corte Costituzionale, ad esempio, il professor Gustavo Zagrebelsky, in un documento ripreso da Il Fatto Quotidiano del 6 marzo, scrive che quella su cui andremo a votare “è la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. Le ‘riforme’ costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica”.
Parole complementari a quelle di un altro professore, il Senatore a vita Mario Monti, che in un’intervista al Corriere della Sera pubblicata il 18 ottobre, dichiara: “A me risulta impossibile dare il mio voto ad una Costituzione che - per essere varata - sembra avere richiesto una ripresa in grande stile di quel metodo di governo che a mio giudizio è il vero responsabile - molto più dei limiti della Costituzione attuale - dei mali più gravi dell’Italia”. E a tal proposito aggiunge: “i problemi dell'Italia non dipendono tanto dalla forma costituzionale e dalla legge elettorale, ma da alcuni connotati fondamentali: l'evasione, la corruzione e una classe politica che usa il denaro degli italiani di domani come una barriera contro la propria impopolarità”. Dunque, il problema starebbe “nel combinato disposto fra la Costituzione, attuale o futura, e metodo di governo con il quale si è lubrificata da tre anni l’opinione con bonus fiscali, elargizioni mirate o altra spesa pubblica”. E ancora: “se prevarrà il sì avremo una Costituzione riformata, forse leggermente migliore della precedente, ma avremo con essa l'approvazione degli italiani a un modo di governare le risorse pubbliche che pensavo il governo Renzi avrebbe abbandonato per sempre. Non ha senso darsi una Costituzione nuova, se essa deve segnare il trionfo di tecniche di generazione del consenso che più vecchie non si può”.
Parole che ci confermano che, se per approvare questo stato di cose “basta un sì”, per opporvisi efficacemente non basta votare NO. Dal Ministro, infatti, capiamo che la partita è di natura politica e poco o nulla c’entra il funzionamento delle istituzioni, a dispetto del refrain che impone di buttarla sui contenuti della riforma per celare l’essenza politica del voto. Dal Presidente emerito della Consulta, inoltre, capiamo che l’opposizione piccolo-borghese ha natura resistenziale: votare no per provare ad intralciare il funzionamento di un meccanismo già ampiamente operativo su scala mondiale. Dal Senatore a vita, infine, capiamo che la grande borghesia può stare tranquilla perché il grosso è già stato fatto. Quello di Monti, a ben vedere, è un no di tipo programmatico: siccome il voto viene comprato direttamente ai cittadini (e non estorto ai loro rappresentanti come ai bei tempi dello spread) e la nuova costituzione non permette di risolvere gli ultimi problemi che rimangono (clientelismo, corruzione, evasione), il gioco non vale la candela.
Passando dalle parole ai fatti e analizzando i cambiamenti vissuti dal paese reale, si è purtroppo costretti ad ammettere che Zagrebelsky ha ragione e qualunque sia il responso che uscirà dalle urne domenica 4 dicembre, nella vita di tutti i giorni, nelle fabbriche, negli uffici, nei negozi e nelle piazze, il sì ha già vinto. Le principali innovazioni neo-costituzionali, infatti, servono a certificare una realtà economica e sociale ugualmente innovata, adeguando il funzionamento del processo ‘produttivo’ di leggi valide erga omnes - che la classe dominante controlla attraverso le istituzioni formalmente pubbliche ma privatamente gestite e finalizzate - al funzionamento dei processi lavorativi nei quali siamo quotidianamente impegnati (per lo più come lavoratori sfruttati) e ai connotati del relativo processo ‘produttivo’ di regole (per lo piu riguardanti l’uso della forza-lavoro) che devono essere osservate all’interno del perimetro aziendale (i contratti, i regolamenti di organizzazione e funzionamento, i disciplinari, le delibere di CdA e direttori generali, ecc).
Tuttavia, la natura piccolo-borghese degli argomenti che egemonizzano il fronte del no deve essere smascherata se si vuole capire che fare in quanto comunisti stanchi di rimanere alla coda dei movimenti. Se la deriva autoritaria arriva ad un passo dalla santificazione costituzionale, infatti, è perché ampiamente operativa e largamente accettata. Già oggi, a costituzione invariata, la prassi è quella di mortificare il dibattito ed il carattere parlamentare della democrazia borghese attraverso il ricorso ai vari canguri, tagliole, ghigliottine, pianisti e milioni di emendamenti-fotocopia prodotti con l’ausilio dei computer. Ma, ancora più significativi, sono il deciso e costante aumento del tasso di astensione alle votazioni politiche e ai referendum, la compravendita delle preferenze alle elezioni (primarie e ‘secondarie’), e la scarsa e decrescente partecipazione alle manifestazioni più importanti della vita democratica del paese. L’adesione agli scioperi, le votazioni sindacali (per eleggere le Rsu o i dirigenti interni a ciascuna organizzazione), la partecipazione agli organi collegiali dei lavoratori, la partecipazione alle manifestazioni e la militanza presso partiti politici sono tutti contesti in cui emerge una forte e crescente disaffezione da parte del popolo, ed in particolare dei proletari, non solo verso la democrazia nelle sue forme borghesi ma anche nei confronti di quegli ambiti della partecipazione democratica che sotto il dominio capitalistico vengono necessariamente sviati e sviliti ma che rimangono ancora l’unico terreno sul quale costruire una società realmente democratica. Per tanto, la denuncia del cattivo servizio che la riforma Boschi rende alla causa democratica impedisce di contrastare efficacemente la deriva autoritaria in atto se non la si lega alla valutazione della pochezza, quantitativa e qualitativa, raggiunta dalla partecipazione democratica dei lavoratori e della corruzione delle loro attuali organizzazioni.
Quanto detto vale anche per le manifestazioni sovrastrutturali specifiche che questa deriva autoritaria assume nel disegno neo-costituzionale. Si pensi alla predominanza del governo sull’attività parlamentare. Anche in questo caso, il dominio dell’esecutivo è già largamente operativo dentro e fuori il palazzo e con la vittoria del sì verrebbe solamente certificato e meglio organizzato. Oggi, a costituzione invariata, a decidere sono i ministri, non i parlamentari. In questa legislatura, ad esempio, il 68 per cento delle 219 leggi approvate dai deputati sono conversioni di decreti legge (che sono di diretta emanazione governativa) o leggi di ratifica vere e proprie. Il 32 per cento che rimane è meno dei decreti legge e meno della metà dei decreti legislativi (leggi emanate dal governo su delega parlamentare); percentuale che scende a meno di un terzo se si considera che l’82 per cento di tutte le leggi approvate dalle camere insediatesi il 15 marzo 2013 sono in realtà di iniziativa governativa. Inoltre, dei 145 decreti legislativi, solo il 28 per cento derivano da leggi-delega provenienti dal parlamento nazionale, mentre il restante 72 per cento serve a recepire nel nostro ordinamento disposizioni comunitarie emanate con un concorso del parlamento europeo quantomeno risibile. A questi numeri vanno poi aggiunti quelli delle norme di rango inferiore alla legge frutto di iniziative di delegificazione fatte appositamente (come dice la parola) per trasferire competenze parlamentari ai ministri e alle loro burocrazie; e quelli riguardanti il ricorso da parte del Governo alla questione di fiducia sui progetti di legge: 37 volte alla Camera e altrettante al Senato, quasi due al mese [1].
Tuttavia, se il controllo del governo sul parlamento è arrivato ad un passo dalla costituzionalizzazione, col primo in grado di dettare addirittura l’agenda dei lavori al secondo, è perché l’autoritarismo è largamente accettato nelle relazioni sociali. Che cosa fanno le leggi inizialmente citate se non prendere atto di quanto avvenuto (e non avvenuto) nei rapporti tra le classi all’interno dei luoghi di lavoro, nei contratti negoziati dalle parti sociali, nelle piazze semi-deserte delle mille mobilitazioni scollegate, nelle occupazioni indifese o strumentalizzate? Tensione bonapartista, quella della borghesia, che non caratterizza solo i suoi rapporti col proletariato ma anche i rapporti tra i suoi stessi membri. La classe dominante, infatti, è attraversata da una centralizzazione della proprietà, una concentrazione del controllo e una verticalizzazione nell’amministrazione societaria che espropria i padroni meno efficienti, priva le piccole imprese superstiti della libertà di disporre delle condizioni di produzione formalmente proprie e i piccoli azionisti della capacità di controllo sull’operato degli alti dirigenti aziendali. Una disuguaglianza sostanziale - sia che si tratti di cittadini (per via del diverso rapporto con le condizioni di produzione), sia che si tratti solo di proprietari (per via delle tendenze proprie del modo di produzione capitalistico) - che col perdurare della crisi trova un riconoscimento formale persino nella legge.
Che cosa garantisce, infatti, sempre a costituzione invariata, l’adozione del sistema elettorale maggioritario, del proporzionale con premio di maggioranza, delle soglie di sbarramento, dei doppi turni, ecc? Innanzi tutto la possibilità di formare un governo di minoranza in grado di sopravvivere e di disporre dei numeri necessari per far eleggere le più alte cariche dello stato (presidente della repubblica e presidenti delle camere), i membri del Csm e della corte costituzionale, ecc, senza dover troppo concedere alla mediazione con le altre formazioni sociali. Ma c’è un altro effetto che accompagna l’adozione di leggi elettorali truffa: quello di rendere il voto degli elettori non più eguale. Principio anch’esso ad un passo dalla costituzionalizzazione dato che, se vincesse il sì, il potere esecutivo sarà vincolato al voto di fiducia dei soli deputati e non dei senatori. Una vera e propria discriminazione fra parlamentari. Ma, ancora una volta, ciò avviene in analogia non solo con quanto previsto in altri ordinamenti (diverso ruolo delle due camere, presenza di grandi-elettori, ecc) ma anche con quanto avviene in seno a quella che in ogni società capitalistica rimane l’unica classe con diritto di voto: i proprietari.
L’abbandono della parità fra i parlamentari-elettori a favore di un approccio che rende alcuni maiali più uguali degli altri animali, come direbbe Orwell, rispecchia quanto avvenuto tra i cittadini-proprietari di società per azioni. In molti paesi, incluso il nostro, la legge oramai consente a questo tipo di imprese di abbandonare il sistema proporzionale per contare i voti dei soci a favore di un sistema in cui a qualcuno viene data la possibilità di votare in maniera più che proporzionale rispetto alle azioni realmente possedute. Dunque, alla classica esclusione di alcune tipologie di proprietari dal diritto di voto (ad es. chi acquista azioni di risparmio, per lo più l’aristocrazia operaia) si affianca l’introduzione di azioni con voto plurimo o con voto maggiorato. In Italia questo cambiamento comincia nel 2003 con la riforma del diritto societario varata dal governo Berlusconi ma è solo nel 2014 che si compie il definitivo adeguamento della normativa nazionale alle ‘migliori’ pratiche internazionali. E ovviamente, c’è sempre qualcuno che sa fare meglio: mentre da noi è consentito un massimo di tre voti per azione posseduta, in Olanda si arriva fino a dieci. E non a caso, è proprio nel paese dei tulipani che la FCA di Marchionne e la holding di controllo Exor hanno trasferito la propria sede legale.
In tale contesto, quindi, paventare il blocco dell’attività istituzionale o il caos procedurale a causa di una riforma del Senato pasticciata sembra improbabile. In presenza di organi collegiali litigiosi o dal funzionamento farraginoso non si è mai prodotta una paralisi se non prima passando per il drammatico accentramento del potere decisionale. Per utilizzare una metafora tanto cara a Renzi, quando i condomini litigano si finisce con l’approvare la proposta dell’amministratore. Accentramento decisionale che si ritrova anche nel ‘nuovo’ rapporto tra stato ed autonomie locali, che completa la riorganizzazione tra centro e periferia iniziata negli anni novanta per favorire l’abbassamento salariale con la costituzionalizzazione dei commissariamenti straordinari ed “il recepimento della giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni la quale, in nome della crisi economico-finanziaria, ha riportato lo Stato all’epoca dell’interesse nazionale” [2].
In conclusione, quello a cui assistiamo non rappresenta altro che l’adeguamento della sovrastruttura istituzionale italiana ai cambiamenti socio-economici avvenuti. Per tanto, la deriva autoritaria, la perdita della centralità del parlamento, il superamento del bicameralismo perfetto, l'approvazione della riforma da parte di un parlamento eletto con legge dichiarata incostituzionale, la votazione indiretta dei senatori, il neo-centralismo, il blocco dell’attività istituzionale, “tutti questi argomenti, che ci si vuole proporre come questioni della massima importanza per la classe lavoratrice, in realtà presentano un interesse di portata essenziale solo per i borghesi o, meglio ancora, per i piccolo borghesi” (Engels). Ciò non significa che l’approvazione della riforma sia inutile o priva di conseguenze per le nostre vite. Essa serve a chiarire e rafforzare un dominio che, col perdurare della crisi, può permettersi sempre meno compromessi e per tanto prova a tutelarsi, anche sul piano sovrastrutturale, in vista delle future, inevitabili, opposizioni. Se ci riusciranno, tuttavia, dipenderà dalla capacità dei lavoratori di diventare finalmente “nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo” (Marx).
Note:
[1] I numeri sono tratti dagli Appunti del Comitato per la legislazione: “La produzione normativa nella XVII legislatura” (aggiornamento al 15 giugno 2016) a cura dell’osservatorio sulla legislazione del servizio studi della camera dei deputati reperibile in rete all’indirizzo: http://www.camera.it/leg17/386. Questi Appunti ci confermano l’alta efficienza quantitativa del processo legislativo italiano in quanto indicano che, in media, ogni mese vengono approvati 5,6 leggi, 3,7 decreti legislativi e 2 decreti legge.
[2] “La clausola di supremazia tra Senato ‘territoriale’ e depotenziamento del ruolo delle Regioni” di Daniela Mone, reperibile in rete all’indirizzo http://www.federalismi.it/document/31052016134537.pdf
La citazione di Engels è tratta da “La questione delle abitazioni”, quella di Marx dal “Discorso sulla questione del libero scambio”.