Nel mio gruppo – da quando abbiamo iniziato a lavorare sulla valutazione, sull’INVALSI, sul servizio nazionale di valutazione – ci siamo sempre mantenuti su due piani di ricerca.Con appartenenze politiche e sindacali diverse e un retroterra marxista in comune, abbiamo puntato la barra sui cambiamenti antropologico culturali indotti dal neoliberismo, cornice senza la quale è impossibile comprendere quel che è avvenuto e avviene nella scuola. In questo orizzonte di senso abbiamo lavorato agli aspetti tecnici, ai dispositivi: i test, i frameworks europei, le guide a questo e quest’altro, provando a smascherarne la falsa ideologia scientifica, oggettiva, che li ispira.
Anche oggi, nella comunicazione che segue, mi muoverò su due livelli, una disamina sul merito, come metafora funzionale alla elaborazione di un consenso idiota, nel senso che non sa le parole, e un breve commento di carattere giuridico in cui, di quelle stesse parole, proverò a dare eco.
Due parti, diverse per registro e per riferimenti. In entrambe gli attori sono quelli che si muovono intorno alle vicissitudini del merito, come parola chiave e complesso di pratiche. Darò solo conto di alcuni versi dei due livelli. Gli attori sono molteplici, generici, e al contempo molto specifici, chi ascolta può cogliere i nessi contestuali della loro chiamata in causa. Sono: una/la comunità; un/il soggetto meritevole o immeritevole; l’altro, un altro in funzione del Grande Altro della Legge.
L’esigenza politica e culturale è di fare ordine simbolico. Non possiamo solo discutere dal basso dei contesti conosciuti, dobbiamo tentare una via che ci porti a comprendere quel che nelle parole si nasconde e quel che proprio per questo le rende performative. Dobbiamo provare ad accettare una sfida culturale, in un momento in cui sembra –per ragioni di rapporti di forza – è persa quella politica.
Primo scenario. L’origine teologica della parola merito attraverso il passaggio dal processo di secolarizzazione, avvenuto dalla fine del ‘700, verso una nuova ri-sacralizzazione.
Scrive Angelo Salento, sociologo e economista a proposito dei valori che orientano la responsabilità e la contabilità sociali, per ogni comunità-azienda, anche lui scavando nei discorsi e cavandone significanti: nel sistema delle rendicontazioni giocano diversi ordini di valori e gli attori che li incarnano si confrontano all’insegna della incommensurabilità reciproca, cognitiva, affettiva, normativa; l’intreccio è radicato nella cultura occidentale, nel cuore, ad esempio della parola inglese “wort”, già arcaicamente stima e prezzo morale, le pratiche contabilmente ricondotte al numero. Etica del comportamento e morale della legge.
Le parole oggi impiegate per dire il mondo della scuola, ologramma di un’intera società, vengono da lontano ma sono state piegate a nuovi significati senza che se ne rinvenga più l’origine e, soprattutto sono state sottoposte alla marcatura, alla piegatura violenta mediante il passaggio attraverso altri universi di senso, quello del mondo economico in primis.
Così la parola merito diventa un mot-valise, una metafora ampia, composita, e capace di chiamare in correo molte altri sostantivi, predicati e/o locuzioni: valorizzazione, capitale umano, dirigere, valutare, premiare…
Per quel che concerne l’area semantica del meritare si trova un di più. Per una paradossale torsione che chiamiamo impropriamente “secolarizzazione”, il meritare è passato dal campo teologico a quello politico, “smagandosi” (dice Agamben passando per Weber) e lo fa – qui sta il nodo che vorrei provare a scogliere - passando per il gestionale e l’economico. Ma nel sistema delle marcature linguistiche il vocabolo non perde il suo significato originale, semplicemente lo disloca. Nella teologia cristiana, nella elaborazione Patristica, la relazione fra le cose prime e le cose seconde – le umane per intenderci - si fonda su un Theos, una divinità, che si esprime come sovranità, luogo di emanazione della legge e origine del comando. Il principio-guida dell’azione del Theos è quello di una buona gestione, il provvedere-provvidenziale alla vita, e dunque la sua sfera è l’oeconmicus. La chiave di comprensione di questo passaggio alla Provvidenza come azione propria del Theos è dunque l’oikos, il far bene nella casa, per la casa come luogo della prima comunità naturale, come ordine domestico, come processo culturale della cura, soprattutto neotenica – la prole – ma anche come, più laicamente, riproduzione sociale.
Oggi assistiamo al passaggio a ritroso, ad una sorta di ri-sacralizzazione, di uscita dalla storia e dalla politica verso un destino, verso una buona gestione sovra-determinata, a cui si deve piegare il soggetto. Questa torsione, avvitamento fra usi secolarizzati e ripresa di un concetto distributivo di giustizia di origine teologica lo troviamo anche nel discorso che Francesco Primo pronuncia durante l’incontro con gli operai dell’ILVA. Al centro del suo messaggio cristiano il lavoro. Riprendo, parafrasando alcuni passaggi: se c’è solo competizione senza spiritualità…l’azienda si sfilaccia. La meritocrazia, che pare un valore, viene utilizzata come giustificazione etica della disuguaglianza. Il povero è persona senza merito, colpevole…il figliol prodigo, lo sprecone, l’indebitato, resta a mangiar ghiande. Vox clamantis in deserto…come vuole anche la nostra disastrata sinistra? Un sovrano di uno staterello medioevale parla del lavoro come metabolismo uomo–natura, provvisione per la vita, come metro, misura di giustizia. Riporta il lavoro-valore nel nodo del merito, forse, mi è stato suggerito, più di matrice ebraica che non cristiana. Il contenuto è centrato sull’equità, dare a tutti, e a ciascuno, quel che meritano. La domanda è: ancora nella direzione discendente, di rango paterno, o c’è lo spazio per un’azione dal basso di questa rivendicazione?
Del resto, il metro di misura della colpa e della corresponsione del merito trova eco anche nel commento al catechismo cattolico. Il potere della “giustificazione”, riportare al giusto: la misura è di nuovo un problema di titolarità a definire il parametro. Dal lato del Padre, ma anche dal lato del figlio, che fa ammenda, come nell’uso del verbo riflessivo giustificarsi, per una colpa. Il Padre risponde, e ne risponde, verso un’intera comunità domestica e sociale. Il paragrafo terzo, intitolato Il Merito, del commento al catechismo, recita testualmente: “ […] il termine merito indica la retribuzione dovuta da una comunità per l’azione di uno dei suoi membri riconosciuta come buona o cattiva, meritevole di ricompensa o di punizione. Il merito è relativo alla virtù della giustizia in conformità al principio di uguaglianza che ne è la norma”. Qui, le parole utilizzate sono suscettibili di quella traslazione che sto tentando di suggerire: retribuzione, comunità, virtù e giustizia fra loro coniugate, e norma ovviamente. Ma quel che ci riporta al nostro luogo è il concetto di figlialità, l’adozione, il riconoscimento, da parte del padre-sovrano che emenda, porta a riparazione dopo la caduta e, se è il caso, premia. Sia al prodigo che al giusto spetta di mettere in atto un comportamento che non riguarda solo relazioni duali, verticali, al massimo triadiche, ma una intera comunità. Una comunità su cui si riflette il potere giudicante, la restituzione dei debiti attraverso il sistema delle punizioni e delle ricompense. Come vedete il merito abita il governo del mondo, l’ordine delle “cose seconde”. Nel nostro caso ci fa fare ritorno alla comunità scolastica in cui è fin troppo facile trovare la norma, la direzione,la gestione e la conflittualità fra i figli.
Proviamo a declinare per sommi capi questo percorso, fatto di meritevoli verso prodighi o nulla facenti, o non conformi. La storia dei premialità dentro la comunità scolastica a cui il comportamento dei suoi membri dovrebbe rispondere, nel senso di costituire un impegno assolto e una rispondenza ad un mandato, va dalle Funzioni Obiettivo, alle Strumentali, verso gli incarichi dei cooptati, la contrattazione del Fondo della Istituzione Scolastica, il Comitato di Valutazione, versione legge 107/15. Siamo negli anni fra il 1998 e l’oggi, passando per gli effetti della legge Brunetta sull’azienda scuola, su cui dirò nel secondo scenario. E qui assistiamo ad un'altra contraddizione logica, semantica, politica: il lavoro vivo – mente-corpo – dell’insegnare, vocazione e chiamata, Beruf – ufficio, nell’accezione di Weber – l’incommensurabile della prodigalità, dello spreco nel senso della “depense”, il dispendio, dell’immissione di un desiderio che non ha prezzo, si auto-rigenera nel processo di scambio, e l’atto del dono si fa moneta. Chi dà, dona quel che ha e quel che spera di riottenere. Nel caso virtuoso del magistero-docente chi dona non chiede una restituzione se non mediante un investimento sul futuro, sul “derivato” , potrei dire se la parola oggi non fosse dubbia, sulla scommessa sul tempo a venire, nella buona riuscita di quello presente. Nel cono d’ombra del dono, spesso individuato nella riflessione filosofica e politica, è insita – e la storia della premialità ne dà atto - una restituzione moltiplicata, il cosiddetto valore aggiunto e dunque l’immissione del donativo magistrale nel processo di valorizzazione economica. Così dono e merito diventano il phármakon della comunità scolastica, quel che dovrebbe dare la misura della salute, ritrovata grazie ad un lungo un percorso di riforma, vecchio ormai di venti anni in cui azienda, autonomia, comunità si avvitano fra loro. Nell’autoironica comunità della competizione perenne, che la norma ha definitivamente sancito per l’azienda-scuola, c’è dunque un vincolo fra dono e debito, e su questo nodo si incista il meritare. Ciò che accomuna, vs ciò che socializza (Tönnies), rappresenta “il” proprio, una proprietà territoriale, ideale, di interesse. I portatori di interesse interni alla comunità – il dirigente, l’insegnante - e quelli esterni, gli stakeholders, pubblico come platea di spettatori plaudenti, o pollice verso. Questa inter/infra, questa intessuta rete, conserva con il prefisso cum anche il termine munus, dovere, debito, obbligo. La comunità scolastica, che rimane dopo il percorso ventennale della premialità, è un resto, resto, scarto, di quel che ancora si palesa di una vecchia socialità. Il cum di condividere, il coo di cooperare occhieggiano solo come rimasuglio burocratico nei format e nelle compilazioni documentali. Resto di quella che è stata una partecipazione diffusa, frutto di lotte condotte, di istituti nati dall’immaginario istituente negli anni ’70, anni che oggi si preferisce ricordare solo come bui. Restano i debiti da pagare per meritare l’inclusione, il riconoscimento nello staff, la compartecipazione agli utili dell’azienda, l’adesione come consenso (pensare con, pensarla come). Un salto di qualità rispetto a quel che si legge all’art. 36 della Costituzione Italiana sul diritto all’equo compenso. Esigibile, non concesso.
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