Norberto Bobbio -in "Quale socialismo? Discussione di un'alternativa", Einaudi, Torino 1976, p. 42- definisce la democrazia come " un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) che consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia un forma diretta sia in forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano tutta la collettività".
Illustre filosofo del diritto del XX secolo, Norberto Bobbio fu sempre, indiscutibilmente, un intellettuale appartenente all'area liberal-socialista e la sua definizione di democrazia qui citata, peraltro elegante ed essenziale, si colloca pienamente nella tradizione liberale, in quanto circoscrive la definizione di democrazia a livello formale. Ciò la contrappone, nell'ambito del pensiero politico, alle definizioni di democrazia su un piano sostanziale, in cui non è ritenuta sufficiente la mera potenzialità di uguaglianza dei cittadini da un punto di vista politico, economico e sociale, in quanto questa uguaglianza, per essere tale, deve realizzarsi nei fatti. Quest'ultima concezione appartiene tipicamente alla tradizione del pensiero comunista.
Per cogliere lo stato attuale della democrazia in Italia, in Europa, e nei Paesi cosiddetti liberali od occidentali, è necessario esaminarne la realtà politica e sociale oggi. Apoditticamente, noi infatti ci riteniamo i baluardi della "democrazia" -sottinteso, quella formale- essendo ormai il dibattito sulle due concezioni "formale" e "sostanziale" di democrazia completamente occultato, in parte appositamente, per ovvie ragioni di stampo ideologico, in parte indirettamente, a seguito dell'imbarbarimento culturale che ne ha offuscato l'opposizione dialettica, riducendo la "democrazia" alla sola sfera formale.
Tornando quindi alla definizione di Bobbio, è lecito sostenere oggi che le "regole del gioco" consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia in forma diretta sia indiretta, alle decisioni politiche che interessano tutta la collettività ? Se ne può ben dubitare.
Le diverse e peraltro disorganiche riforme elettorali (il sistema elettorale è ovviamente il cardine della democrazia formale), le quali si sono avvicendate negli ultimi decenni in Italia, sono andate in una direzione che sarebbe temerario definire democratica: esse sono tutte fondate su sistemi maggioritari, con soglie di sbarramento e collegi uninominali che cancellano la rappresentanza politica degli elettori su base proporzionale. Si prospettano anche riforme costituzionali che istituiscono il presidenzialismo.
Tali riforme di stampo "decisionista", come sappiamo, sono "imposte" dalla necessità che i governi agiscano con rapidità ed emergenza e senza troppi intralci; ma ci chiediamo mai per chi e per che cosa devono agire? L'emergenza è diventata infatti strutturale, essendo ormai questa la condizione della nuova "normalità". Vengono quindi adottate procedure (DPCM, decreti legge, ghigliottina del dibattito parlamentare, ecc.) che esautorano il parlamento dalla discussione e dalle decisioni.
Le politiche economiche, in particolare, le cui scelte, appunto -seguendo la definizione di democrazia di Bobbio-, interessano tutta la collettività (e, aggiungo, ne regolano le condizioni pratiche di vita, quali l'accesso all'istruzione, al lavoro, alla salute, al benessere, ecc.), non sono più una variabile politica che possa essere manovrata, costruita, modificata -se non nell'unico senso di favorire i potentati economici e i capitali finanziari, a discapito, ovviamente, delle masse e dei lavoratori-. Lo stesso Draghi ha parlato di "pilota automatico" a proposito della gestione governativa delle politiche economiche, ammonendo "la politica", e qualsiasi futuro governo, dall'intraprendere eventuali politiche che possano deviare dalle direttive già assegnate.
Le politiche economiche devono sempre tener conto del "sentiment" dei creditori dello Stato, la cui fiducia è legata alla subordinazione dei bisogni dei cittadini, con buona pace del loro "sentiment".
Un discorso analogo si può fare riguardo alla tassazione dei capitali e dei redditi elevati, in quanto i titolari, con minimo onere, possono spostare la propria sede o domicilio o solo il capitale mobiliare (appunto, mobile) in Stati che adottano tassazioni più favorevoli.
Non diversamente, i salari devono rimanere schiacciati in basso per consentire alle imprese quegli utili che ne giustifichino l'investimento nel Paese e i margini economici sufficienti per concorrere sui mercati internazionali.
Con il crollo dell'URSS e la sconfitta del campo socialista a livello statuale e di conseguenza politico, economico ed ideologico, la misura di tutte le cose, con buona pace del sofista Protagora, anziché l'uomo, diventa il mercato dei capitali e delle merci, ovvero il profitto privato.
A restringere ulteriormente gli spazi di libertà della politica rappresentativa ci sono il controllo di vari organismi sovranazionali, dalla UE alla BCE, al Patto Atlantico, al FMI alle Agenzie di rating, che, come noto, sottraggono parte della sovranità agli Stati nazionali.
Un'altra questione da considerare sono le politiche neoliberiste di flessibilità del lavoro, promosse, inizialmente negli anni '90, quali forme di flessibilità in entrata sul lavoro, sostenendo che i diritti già acquisiti non sarebbero stati intaccati mentre le assunzioni sarebbero aumentare. Tali "riforme", cui si sono aggiunte ulteriori flessibilizzazioni tra le quali lo smantellamento dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori da parte di Renzi, stanno mostrando oggi i loro drammatici frutti, esiziali sulla pratica democratica. Infatti, essendo ormai molti lavoratori non più tutelati dal licenziamento, non potranno far valere le loro rivendicazioni, i loro diritti, eviteranno di iscriversi al sindacato, non si opporranno a eventuali soprusi e non parteciperanno ad assemblee, dibattiti o a lotte politiche.
Con la riduzione all'impotenza dei lavoratori, si impediscono sempre più occasioni di confronto e partecipazione all'interno dei corpi politici intermedi, parte imprescindibile al funzionamento della vita democratica. Le uniche modalità partecipative si riducono al voto elettorale, e non è un caso che il primo partito italiano alle elezioni autunnali del parlamento sia stato quello dell'astensione dal voto.
Stando così le cose, che rimane del sistema della democrazia, non dico quella sostanziale, ormai sconosciuta ai più, ma persino quella formale?
La stessa democrazia formale, così come concepita dal grande intellettuale liberale del '900, è ormai relegata ad una parola vuota utilizzata solo ideologicamente, per autolodarci o per denigrare uno Stato concorrente o nemico, quando fa comodo. Oppure per ammonirci che there is no alternative, gli altri sono peggio, "in Iran si sta peggio" e noi siamo il migliore dei mondi possibili. Vedeva già tutto ciò molto chiaro l'ultimo Gyorgy Luckacs, grande pensatore marxista, a fine anni '60, quando nell'opera pubblicata postuma "La democrazia della vita quotidiana", con acume già definiva l'attuale fase capitalistica una democratizzazione del capitalismo manipolativo.
E se poi volessimo interrogarci sullo stato di salute della democrazia sostanziale, la situazione sarebbe ben peggiore, con la sempre crescente, da decenni, polarizzazione della ricchezza dei cittadini, povertà in aumento, e l'accesso, nei fatti, sempre più classista all'istruzione migliore, ai posti di comando, di prestigio, o semplicemente migliori e più retribuiti, alle cure mediche, alla salute, alla casa, ecc.
D'altronde non si può negare un rapporto tra democrazia formale e sostanziale, per cui il venir meno della prima non può che inficiare irrimediabilmente la seconda.
Rimane quindi necessario, nei momenti bui, battersi per la sussistenza della stessa democrazia formale, perché una volta cancellata questa, espulsa dalla sfera costituzionale e dell'ordinamento politico, non ci si potrà più appellare a nulla in difesa dei diritti sociali, non ci sarà più una iato tra i diritti dichiarati e quelli effettivi, non ci sarà più uno scandalo da denunciare, cui potersi appellare.
A questa deriva non ci si deve quindi rassegnare: essa non è ineluttabile, è comunque il risultato di determinate scelte, ricostruibili partendo da un'analisi del processo storico e dei suoi nessi con l'ideologia; allo stesso tempo urge riprendere un percorso emancipativo ideologico-culturale, politico e sociale, certamente aperto e non dogmatico, ma necessariamente su base marxista.