L'edizione cartacea odierna del quotidiano “La Stampa” di giovedì 13 ottobre, a pagina 44, riportava virgolettata un'affermazione del Procuratore Generale Saluzzo, secondo il quale le richieste di almeno 140 anni di carcere per 47 attivisti NO-TAV sono giustificate dal fatto che“la presa di distanza dai fatti contestati non ci sarà mai: la radicata convinzione di essere nel giusto e che lo Stato stia sbagliando non verrà mai ritrattata”. Il procedimento giudiziario, a cui la richiesta di condanna si riferisce, è relativo agli scontri avvenuti il 27 giugno del 2011, dopo lo sgombero del presidio permanente ribattezzato “Libera Repubblica della Maddalena”, e del 3 luglio dello stesso anno nei pressi della centrale elettrica di Chiomonte, durante una grande manifestazione di protesta. Dalla dichiarazione riportata abbiamo così appreso che l'obiettivo perseguito dalla Procura di Torino non è la valutazione degli eventuali reati commessi dai manifestanti, ma l'abiura da parte degli accusati, il loro riconoscimento che lo Stato ha ragione a fare l’Alta Velocità in Val di Susa e a militarizzare un intero territorio.
Questa frase suona particolarmente inquietante, perché non può non riportare alla mente un periodo della nostra storia lontano dal presente (anche se non troppo), quello a cavallo fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, quando il conflitto fra le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria che praticavano la lotta armata e lo Stato si fece durissimo, lasciando una lunga scia di sangue. Non è questa la sede per un dibattito storico-politico sulla complessità di quel periodo, interessa qui solo evidenziare come, sull’onda della “emergenza terrorismo”, a partire dalla metà del decennio 1970-1980 furono varati una serie di provvedimenti (come la “Legge Reale”, l’istituzione delle carceri speciali, la legge Cossiga del febbraio 1980, solo per fare alcuni esempi) e imbastiti una serie di processi (come, sempre per esempio, il “7 aprile” contro l’Autonomia padovana e parte del Processo Tobagi per quella milanese) che di fatto portarono alla sospensione a tempo indeterminato dei diritti individuali e collettivi previsti dalla Costituzione. A queste scelte, si aggiunse la legislazione sui “pentiti” (1982), tesa formalmente a contribuire alla sconfitta della lotta armata in Italia, ma che di fatto puntava anche all’ottenimento (per l’appunto) dell’abiura politica, non solo da parte dei “terroristi”, ma anche da parte dei militanti delle organizzazioni e dei movimenti “legali” che venivano messi nel grande calderone della “sovversione”.
Le leggi speciali degli anni Settanta e Ottanta, se ottennero (non da sole, ma questa è un’altra storia che si tratterà in altra occasione) la sconfitta del movimento armato, provocarono però al tempo stesso sofferenze e disastri umani e sociali irreparabili. Eppure sembra che la “filosofia dell’emergenza”, che impregnò molte Procure italiane in quel periodo, permanga ancora in modo sostanziale a Torino (e forse non solo). Le enormi differenze di contesto storico e politico fra ieri e oggi imporrebbero un maggiore buon senso, una maggiore sobrietà, soprattutto per chi si trova a giudicare degli ipotetici reati commessi in un contesto di grande conflittualità sociale come è oggi la Val di Susa. Invece, la Procura torinese sembra determinata a utilizzare una ricetta che produsse già danni all’epoca, immaginiamoci ora. Ne è riprova non solo la dichiarazione del PG Saluzzo sopra riportata, ma anche lo svolgere i processi contro i NO-TAV nell’aula bunker del carcere delle Vallette (utilizzata normalmente per i processi contro reati di mafia o terrorismo), il tentativo (poi fallito) di costituire un pool “anti NO-TAV”, ma soprattutto quello di imbastire procedimenti giudiziari relativi ad azioni violente contro cose (come l’incendio di un compressore) in attentati con finalità di terrorismo (art. 270 rivisitato dalla Legge 155 del 31 luglio 2005, la famosa “Legge Pisanu”). Finora, sia la Corte d’Appello di Torino, sia la Cassazione hanno rigettato l’accusa di terrorismo, ma la procura di Torino ha di nuovo presentato ricorso in Cassazione.
Alla fine degli anni Settanta, Norberto Bobbio, citato da Nanni Balestrini e Primo Moroni nel famoso libro L'orda d'oro, affermava che “il compito di questi apparati “disciplinari” dovrebbe essere quello di equilibrare il diritto di rappresentanza dei movimenti sociali con le esigenze di gestione e di riproduzione delle democrazie. Quando ciò non avviene, quando vengono alterati unilateralmente gli statuti e le regole del gioco, si apre un conflitto dagli esiti imprevedibili”. Oggi, nel 2016 e quindi in un contesto completamente diverso da quello in cui scriveva Bobbio, l’atteggiamento irresponsabile di Procure come quella di Torino non lascia dormire sonni tranquilli.