Qual è il senso del sapere insegnato? Qual è il senso di un discorso filosofico? Di una narrazione storica? Dell’analisi di una poesia? Di una lunga e noiosa dimostrazione matematica? Qual è la loro qualità? Per quanti sforzi la cultura della valutazione possa fare nell’ampliare alla Scuola in concetto di “misura” preso in prestito alla scienza, le attività elencate restano non misurabili. Quindi non valutabili.
di Rossella Latempa
segue da Parte I
Che Scuola vogliamo?
Rispondere a quest’ultima domanda costa fatica, ovviamente. Dissentire dalla valutazione, non accettarla come dato di fatto, richiede sforzo. Si rischia quasi di passare per conservatori, nostalgici ideologizzati, deresponsabilizzati. “La valutazione è un’opportunità”, ci si sente dire, “la valutazione non sarà l’ottimo, ma è comunque un passo avanti: il meglio è nemico del bene” [1].
Per provare a fornire argomentazioni, partiamo dai dati di fatto.
a) L’insegnamento (e la ricerca universitaria) non sono traducibili in “prodotti”.
Quando si valuta una prestazione, un’ attività, di fatto si valutano solo alcuni risultati visibili e tangibili di quell’attività. Cioè si parla di qualità conforme ad un obiettivo, mai di qualità intrinseca. Ma di quale qualità parliamo? Qualità in relazione alla soddisfazione dell’utenza (customer care)… qualità come rispetto degli aspetti formali… qualità come eccellenza (merito)... qualità come forma e pratica trasparente (accountability)?[2].
Quindi, ritenere che la conoscenza sia un “bene” tangibile, significa ammettere che l’insegnamento e il sapere debbano essere resi visibili (e quindi rendicontabili) per acquisire valore. Si incorre nel rischio di accentuare aspetti forzatamente “spettacolari” dell’insegnamento, di essere portati a “far succedere eventi”, secondo un’illuminante definizione della sociologa francese Claudine Haroche [3].
Qual è il senso del sapere insegnato? Qual è il senso di un discorso filosofico? Di una narrazione storica? Dell’analisi di una poesia? Di una lunga e noiosa dimostrazione matematica? Qual è la loro qualità?
Per quanti sforzi la cultura della valutazione possa fare nell’ampliare alla Scuola in concetto di “misura” preso in prestito alla scienza, le attività elencate restano non misurabili. Quindi non valutabili.
A ben pensarci, come sottolinea la Pinto [4], tra le tante falle della valutazione, forse, la più grave di tutte non sta nella scelta di uno strumento piuttosto di un altro o nell’azione in sé. Sta nella voragine di ciò che trascura, che non valuta e, quindi, implicitamente, nega: il lavoro del pensiero, la creatività, lo spazio vuoto, i “tempi morti” della sedimentazione, le digressioni, i ripensamenti, le deviazioni dal percorso tracciato, dall’unità didattica, dalla competenza da certificare. Insomma, ciò che c’è di invisibile ma essenziale ogni volta in cui si chiude la porta di un’aula e si comincia a costruire la relazione con gli allievi.
b) Il sapere e la conoscenza non devono necessariamente essere ricondotti a delle pratiche. Anzi, a delle “buone pratiche” (espressione abusata e imposta nella scuola dalle linee guida ministeriali e dalle indicazioni di legge).
Quindi, convogliare l’attenzione sulle pratiche genera il rischio di conformità, meccanicismo, omologazione, “metamorfosi delle condotte”. Si rischia di guidare in maniera involontaria i percorsi della conoscenza su strade già tracciate.
Porre l’accento sulle pratiche significa rendere rilevante e incentivare ciò che è codificabile e quindi, riproducibile (in senso scientifico), sulla scia della attuale infatuazione per la ”durezza” della matematica, per il “numero” come generatore di oggettività. Ascoltare la scienza (laddove conviene) non significa accumulare dati su dati [5]. Quando si ha a che fare con fenomeni complessi, bisogna anche accettare la non controllabilità e riproducibilità. E’un’illusione che dai dati emerga la realtà.
c) Non tutto ciò che conta si può contare (dal sito del Sistema Nazionale di Valutazione, citazione erroneamente attribuita ad Albert Einstein, ma in realtà di Bruce Cameron), anzi, parafrasando Guido Armellini a volte “Solo ciò che non può essere contato conta davvero” [6].
Quindi, “scomporre” nelle tabelle di descrittori che le Scuole si affannano a produrre ogni “intero” (attività, partecipazione, prestazione di questo o quell’individuo) in “parti” apparentemente contabili fa incorrere nel rischio di confrontare ciò che sopra ogni evidenza non è confrontabile.
Fatti salvi i casi (per fortuna rarissimi) di evidenti inadempienze da parte di alcuni insegnanti (nei confronti delle quali esistono già strumenti di intervento più o meno formali da parte della dirigenza), pensare di comparare le azioni educative è inappropriato, se non ottuso. Nel campo della conoscenza e della trasmissione dell’insegnamento non valgono le equazioni: impegno= risultato; sforzo=ricompensa.
Per avere un esempio noto a chiunque viva il mondo della Scuola, pensiamo alla percezione che gli studenti hanno proprio del rapporto sforzo/risultato. “Se studio 10, avrò 10 e non accetto che chi studi 3 vada meglio di me”. Negare differenze reali ed ineliminabili perché soggettive e quindi non valutabili genera risentimento, competizione, individualismo. A dirla tutta, si corre il rischio di non scovare “i mediocri” (cosa che tanto preme alla società e all’opinione pubblica), ma di aiutarli a “mimetizzarsi” nelle maglie della rendicontazione!
In che direzione andare allora?
Forse bisogna modificare la prospettiva propostaci. Cercare di delimitare il necessario da ciò che non lo è. Allontanare la tentazione alla semplificazione, non “assumere” il dato di fatto, non essere già “assorbiti” dal meccanismo valutativo, dagli adempimenti continui a cui siamo chiamati. Fermarsi a comprendere quello che ci si sta chiedendo di fare. Tenere vivo e acceso il dubbio sugli strumenti che ci si chiede di utilizzare. Per esempio partendo dal ricordare che, ad oggi, non esistono dati scientifici che testimoniano i vantaggi di una organizzazione misurabile del lavoro educativo e di ricerca [7]. Ritenere che l’istruzione migliori la sua qualità esibendo risultati migliori in base ad indicatori scelti da un’agenzia esterna (ricordiamo che, passati tre anni di sperimentazione, sarà il Sistema Nazionale di Valutazione – cioè INVALSI- ad intervenire) è chiaramente privo di senso. E’ necessario continuare un’operazione di resistenza attiva di difesa delle libertà. Ricostruire il collettivo, dinanzi all’individuale. L’incertezza, l’originalità e, perché no, anche l’imprevedibilità, sono patrimonio della Scuola, la rigenerano [8]. Gli aspetti non programmabili, non misurabili, non “dicibili” sono fondamento del progetto educativo centrato sulla persona di cui la Scuola deve farsi promotrice [9]. Non c’è indicatore, tecnologia o dato scientifico che possa tradurre il momento straordinario in cui si insegna qualcosa a qualcuno.
Note
[1] G. Cerini – intervento del Seminario di Formazione per insegnanti: La valutazione formativa e la valutazione delle competenze per migliorare la Scuola; USR Veneto, Treviso, Marzo 2016;
[2] V. Pinto, Valutare e punire, Cronopio, 2013; M. Nicoli, “L’uomo che valuta”, Le parole e le cose – letteratura e realtà, 2016.
[3] C. Haroche – L’inévaluable dans une société de defiance - Cahiers internationaux de sociologie, 2010;
[4] V. Pinto – Intervento al Seminario di Formazione per insegnanti, “Valutare il sistema o essere valutati dal sistema?”-CESP Reggio Emilia, Aprile 2016;
[5] F. Sylos Labini, Rischio e previsioni, 2016 - J. Erwin, Mathematical Intimidation, American Mathematical Society, 2011;
[6] G. Armellini, “La valutazione ermeneutica: intervista a Guido Armellini, a cura di Daniele Lo Vetere”, La letteratura e noi, 2014;
[7] V. Pinto, Per una critica (non costruttiva) della valutazione – La letteratura e noi, 2014;
[8] M. Colombo, Senso e non senso della Scuola tra istituzione e organizzazione, “Studi di Sociologia”, Università di Palermo, 2006;
[9] G. Di Michele, Seminario di Formazione per insegnanti,” Valutare chi? Valutare cosa? La qualità totale applicata alla scuola”- CESP Padova, Aprile 2016.