Sergio Cararo, nell’editoriale apparso su Contropiano il 4 gennaio, analizza la posizione che il Corriere della Sera esprime riguardo la prospettiva di “dare il potere al popolo” attraverso il suo editorialista di punta, Angelo Panebianco che scrive: “essendo la democrazia rappresentativa l’unica possibile democrazia, «superarla» significa sostituirla con un regime autoritario, nel quale per giunta gli incompetenti occuperebbero le leve del potere”. Una vera e propria “iattura”, ma evitabile, contrapposta alla “incompetenza del votante” questo sì “inevitabile tributo da pagare per avere la democrazia”.
Il compagno Cararo giustamente ci ricorda che “i «competenti» amministratori del capitale, hanno lavorato scientemente dagli anni ‘80 per ripristinare questa s/proporzione nei rapporti sociali. Hanno costruito a tale scopo apparati complessi e sovranazionali come l’Unione Europea e la Nato. Hanno condotto una guerra interna con questo obiettivo e oggi vorrebbero che tale scenario venisse accettato dalle classi subalterne e sconfitte come inevitabile, immodificabile, anzi il migliore possibile. Sanno che tale pretesa non è realistica e stanno cercando di smantellare con ogni mezzo anche gli strumenti minimi della democrazia rappresentativa”.
Una critica molto simile a quella posta due giorni prima sul portale di Potere al popolo, in cui le compagne e i compagni ricordano all’editorialista del Corriere della Sera “di cosa è capace questa classe politica: abbiamo visto gli appalti truccati, le grandi opere inutili, la logica dell’emergenza che favorisce la speculazione, la devastazione ambientale, i regali alle banche e alle imprese”. Al contrario, “gli avanzamenti progressisti in questo paese sono stati portati avanti soprattutto grazie alle mobilitazioni popolari: dalla resistenza antifascista che ha fondato la nostra Repubblica alle proteste, ai cortei, ai referendum che hanno permesso di avanzare sul piano dei diritti politici, civili e sociali”.
Ma ribadire che i presunti competenti tali non sono, o meglio, che lo sono in ragione degli interessi che rappresentano, non basta. È del tutto naturale che in una società divisa in classi i bisogni dei dominatori trovino qualcuno “competente” a rappresentarli che agli occhi dei dominati sia qualificato invece come “inetto”, e viceversa. Quello che occorre capire, invece, è che il livello di competenza che la classe dominante richiede ai propri rappresentanti (le “proporzioni e dosi” tra politici di professione, professionisti extra-politici e populisti-incompetenti, per dirla col Panebianco) non sono frutto del caso, bensì sono lo specchio del modo di produzione e del posto che il paese occupa nella divisione internazionale del lavoro che dipendono, in ultima analisi, dal grado di sviluppo delle forze produttive e dal risultato di un doppio conflitto: quello tra capitale-lavoro e quello che vede contrapposti sempre più aspramente i fratelli-nemici della borghesia (alias la concorrenza).
Con la crisi che perdura oramai da più di quarant’anni, al progressivo inasprimento delle regole che devono essere osservate dalla forza-lavoro all’interno del perimetro aziendale ed allo scemare delle mobilitazioni popolari si è aggiunta la crescente difficoltà della borghesia italiana a far fronte alla crescente centralizzazione della proprietà, concentrazione del controllo e verticalizzazione nell’amministrazione societaria che espropria i padroni meno efficienti, priva le piccole imprese superstiti della libertà di disporre delle condizioni di produzione formalmente proprie e i piccoli azionisti della capacità di verificare l’operato degli alti dirigenti aziendali. Crescenti “asimmetrie”, come amano dire con linguaggio felpato gli economisti, che si istituzionalizzano a tutti i livelli, da quello “macro” (internazionale) a quello “micro” (aziendale). In molti paesi, ad esempio, incluso il nostro, la legge oramai consente alle società per azioni di abbandonare il sistema proporzionale per contare i voti dei soci a favore di un sistema in cui a qualcuno viene data la possibilità di votare in maniera più che proporzionale rispetto alle azioni possedute. Dunque, alla classica esclusione di alcune tipologie di proprietari dal diritto di voto (ad es. chi acquista azioni di risparmio, generalmente l’aristocrazia operaia) si affianca l’introduzione di azioni con voto plurimo o con voto maggiorato.
In altre parole, il dominio del grande capitale finanziario transnazionale non ha più bisogno neanche di garantire l’uguaglianza formale in seno alla classe proprietaria, figuriamoci in seno alla società nel suo complesso se chi è subordinato non impara a farsi sentire!
Ma per farsi sentire non basta essere competenti ed essere votati in parlamento: è necessario che si siano prima sviluppati in seno alla società forme diverse di rappresentanza e sintesi degli interessi e dei bisogni della classe lavoratrice. Solo così si può arrivare a rompere l’involucro democratico-borghese che ne impedisce l’effettiva rappresentazione e sviluppo. Detto altrimenti, affinché un’assemblea di plurilaureati che elegga capo del governo la cuoca di Lenin rediviva possa effettivamente rappresentare e indirizzare, sintetizzandole, le istanze provenienti dalla società in maniera veramente competente, dunque rispondente agli interessi e ai bisogni delle masse popolari, deve poggiare sulla “competenza del votante”, e quindi su forme di democrazia consiliare (i famosi soviet) e, in ultima istanza, sulla presa del potere da parte del popolo che lavora. Solo a quel punto il socialismo potrà “organizzarsi e consolidarsi; solo quando la classe operaia abbia imparato a dirigere; solo quando le masse operaie abbiano rafforzato la loro autorità. Senza di questo il socialismo è soltanto un pio desiderio”.