Sono la comunità straniera più antica d’Italia e, allo stesso tempo, quella che appare come la più impenetrabile. Libri, stampa e immaginario comune ne dipingono un’immagine stereotipata, parziale, in alcuni casi caricaturale e falsa. Ma chi sono veramente i cinesi d’Italia? Viaggio, in due puntate, oltre il sentito dire.
di Simone Pavesi
Alla fine di marzo Il Foglio annunciava il passaggio della Pirelli a ChemChina. Per l’occasione i redattori avevano intitolato la notizia in cinese, con l’intenzione di restituire il senso dell’espressione “L’Italia parla cinese”.
Anche senza accanirsi sulla questione organizzava e strutturale del pensiero nella lingua cinese, più concreta in tal senso, tanto che possa risultare privo di logica che un’estensione geografica come l’Italia - in cinese“意大利 yidali” - sia in grado di usare il linguaggio umano, la frase era scorretta su tutti i fronti.
“Lingua cinese” veniva tradotta "中国 zhongguo” che però vuol dire “Cina”. Un esempio di goffaggine giornalistica che stimola qualche riflessione a partire da un’altra inesattezza, che sembra un vero e proprio lapsus: il verbo “说 shuo” che avrebbe significato tuttalpiù “parlare una lingua” se ci fosse stato come oggetto “汉语 hanyu” ovvero “lingua cinese”, davanti alla parola “Cina”, erroneamente impiegata, può acquisire il senso di “parlare male. Volendo perciò tradurre “意大利说中国 Yidali shuo Zhonhguo” si corre il rischio che il nostro interlocutore capisca piuttosto “L’Italia parla male della Cina”.
Prendendo spunto da questa prova di superficialità, ci si chiede, tralasciando i grandi conglomerati industriali che hanno investito su Pirelli, quanto ne sappiamo della collettività immigrata che fa parlare il nostro Paese in cinese.
Incominceremo ritrattando parzialmente quanto detto sopra, considerando l’ipotesi del lapsus recondito dietro l’errore del titolo, ovvero che l’Italia parli male della Cina, per esempio, attraverso il “sentito dire” che in cinese si traduce “听说 tingshuo”: compare sempre il verbo “说 shuo” che fa riferimento all’area semantica del parlare, preceduto da “听 ting”, ascoltare, perché il sentito dire, come in italiano, è qualcosa che si ascolta e poi si dice. Vi dice niente questo incipit?
"Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a dominare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai.”Sembra l’inizio di un hard boiled degli anni quaranta ma la voce narrante non è quella di Chandler ma di Saviano. Nel primo paragrafetto di Gomorra invece di riportare prove, documenti o indagini ufficiali, lo scrittore napoletano si affida alla testimonianza di un gruista, dando sfogo ad un immaginario quasi imbarazzante anche per i primi lettori dell’investigatore Marlowe. Proseguendo nella lettura della paginetta scarsa di questo racconto, si conoscono meglio i cinesi “cucinati nei ristorante, sotterrati negli orti d’intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del Vesuvio”, che si passano i documenti, che puzzano di involtini primavera putrefatti, con un cartellino al collo e i soldi risparmiati per farsi seppellire in Cina a bordo di un container.
Le repliche della comunità cinese e di Associna, l’associazione dei cinesi di seconda generazione, non hanno ottenuto alcuna risposta dall’autore, che preferisce rincarare la dose dei luoghi comuni sulla Cina, affidandosi sempre al sentito dire. Un’altra dimostrazione dell’immaginifico giornalismo d’inchiesta di Saviano, infarcito di genericità e di giudizi pretenziosi, è da rintracciare nella trasmissione Quello che (non) ho, nel suo monologo sui laogai cinesi. Presentando su un tavolo degli oggetti fatti in Cina, lo scrittore fa una rivelazione sconcertante da far raggelare il sangue all’amico Fazio: "potrebbero essere tutti stati fatti in un laogai. Se i container ospitavano i cinesi nostrani che lavorano nei bar, nei ristoranti e nei laboratori di pelletteria, in un laogai" ci finisce chiunque è contro l'ideologia comunista, chiunque decida di essere religioso, nei laogai si finisce se sei un imprenditore, se sei un controrivoluzionario di destra, se sei anche una persona che ha deciso di infrangere la regola del figlio unico”.
Anche in questo caso il ritmo narrativo non è sostenuto da alcun tipo di prova. Se Saviano fosse stato in Cina sarebbe potuto entrare in chiese e in templi buddhisti e taoisti, vedere i fedeli inginocchiati con in mano bastoncini di incenso, conoscere imprenditori liberi, persino dei “controrivoluzionari”, per usare la sua terminologia quasi anacronistica nella Cina di oggi. Nei laogai avrebbe visto in grande maggioranza criminali comuni e non tutti quelli che infrangono la legge del figlio unico che sono sottoposti, semma,i al pagamento di una multa, anche perché sul loro imprigionamento non ci sono notizie sicure. Tutto questo, senza che Saviano si muovesse da Napoli, glielo avrebbe potuto dire il barista cinese sotto casa sua, almeno prima di decomporsi in un container e puzzare come un involtino primavera.
Saviano, in realtà, è solo l’esempio più illustre del trattamento riservato all’universo cinese da parte dei media. La riconferma di questa tendenza giornalistica, basata sempre sul sentito dire, la si riscontra nei servizi di informazione sui cinesi d’Italia.
Una ricerca condotta dal Centro di Prato su immigrazione cinese e stampa - che ha preso in considerazione tutti gli articoli di cronaca pratese e fiorentina apparsi dal 1988 al 1994 sulle testate de “La Nazione” e “Il Tirreno” di Prato, “La Repubblica” e “L’Unità” di Firenze - mostra in particolare alcune strategie di disinformazione adottate dalle testate giornalistiche a riguardo: sorprende ad esempio che il numero degli articoli contenenti accuse di mafia, ma non specificatamente interessati a ciò, risulta più alto rispetto a quelli espressamente dedicati all’argomento; un altro dato allarmante è relativo alle fonti utilizzate che in oltre la metà dei casi è assente, mentre, negli altri, ci si limita a riportare enfaticamente, senza alcun tipo di spirito critico, le accuse lanciate dai comitati di protesta dei nativi o a far riferimento a delle generiche “voci”.
Più recentemente programmi come Striscia la notizia e Le iene si sono scontrati con i ristoranti e le attività cinesi, come se volessero appoggiare a tutti i costi il malcontento dei commercianti italiani e alimentare la tesi per cui il successo delle imprese cinesi sia possibile a condizione di violare le leggi del nostro Paese. La iena Pif, in un servizio, era entrato in un ristorante solo per intingere la testa di un gatto di peluche nella zuppa che aveva ordinato e mostrare ai clienti l’increscioso incidente; in un altro servizio, sempre delle Iene, si parlava dello sfruttamento generalizzato dei cinesi ai danni di altri cinesi; gli inviati di Striscia in più occasioni hanno colpito i negozi cinesi che non davano lo scontrino o che vendevano giocattoli non a norma (quelli fatti nei laogai?).
Questi servizi non mettono in luce un problema ma intendono legittimare un immaginario, affinchè il sentito dire acquisti lo statuto di verità, attraverso il ricorso a singoli episodi o a realtà che non vengono approfondite. L’unica fonte che viene data per certa è quella della testimonianza diretta. Ne risulta uno scenario avvolto dal mistero e dal sospetto.
Sembra paradossale che si sappia ancora così poco e che ci si basi soprattutto sul sentito dire, su ciò che riguarda la collettività straniera più antica d’Italia, l’unica presente nel nostro Paese prima della seconda guerra mondiale. Cerchiamo perciò di conoscerla meglio, utilizzando come fonti le ricerche e le indagini condotte da sinologi e non da gruisti e giornalisti in malafede, chiedendoci innanzitutto se abbia senso parlare di “cinesi” in senso lato, dal momento che gli oltre 300.000 membri titolari di un permesso di soggiorno provengono quasi esclusivamente da un’area molto circoscritta della Cina, limitata ad alcune prefetture meridionali della provincia sud-orientale del Zhejiang.
I primi cinesi giunsero, però, nel nostro Paese non direttamente dai propri luoghi di origine ma dalla Francia, bisognosa di importare manodopera che sostituisse gli operai francesi occupati al fronte durante il primo quindicennio del Novecento. Una parte di coloro che non tornarono in patria alla fine della Grande Guerra diede vita alla comunità parigina e ai primi insediamenti a Milano.
Nel capoluogo lombardo le poche decine di cinesi si stabiliscono lungo la via Canonica, per la sua tradizionale connotazione artigianale e commerciale, che diventerà nel tempo il punto di riferimento per i nuovi arrivati.
Se in un primo momento, a causa della scarsa conoscenza della lingua italiana, i componenti del gruppo lavorarono come ambulanti, vendendo collanine e cravatte, saranno poi i laboratori italiani, che producevano questi articoli, ad aprire la strada ai cinesi, assunti come dipendenti, all’impresa artigianale specializzata in cravatte e manufatti di pelle.
Nel dopoguerra e tra gli anni ’60 e ’70 nuove migrazioni e spostamenti interni ridistribuirono la presenza cinese in Italia, che oltre a Milano si insediò principalmente a Bologna e a Firenze, dove i cinesi producevano articoli di pelletteria (borse di cuoio, tela e paglia) e a Roma, dove dagli anni ’70 aprivano i primi ristoranti etnici.
Negli ultimi trent’anni il volto della collettività sinofona è diventato visibile in occasione della possibilità di regolarizzazione offerta da due sanatorie (1986, 1990), da un decreto legge (1995) e dalla fruizione degli istituti normativi inerenti al diritto di ricongiungimento familiare.
L’incremento degli arrivi dalla Cina si correla a una crescente diversificazione e diffusione delle attività: quelle nuove riguardano i servizi rivolti alla comunità stessa (erboristerie, gioiellerie, servizi immobiliari e finanziarie, agenzie di viaggio) e le imprese import-export; mentre quelle tradizionali o si sono distribuite su tutto il territorio nazionale, come nel caso della ristorazione, o si sono concentrate in alcune zone del Paese (Prato, S. Giuseppe Vesuviano), come nel caso delle confezioni.
La comunità che si è formata a partire dagli anni Ottanta si differenzia molto dal nucleo originario, non solo per il maggior numero di immigrati di questa seconda catena ma anche per quanto riguarda le dinamiche interne.
Mentre, nel primo flusso, si riscontra una notevole capacità di inserimento nel contesto italiano (quasi tutti i componenti di sesso maschile, spesso sposarono donne italiane e allevarono figli esortandoli a sentirsi italiani, in molti casi abbandonarono il cinese e il dialetto dei genitori), nel secondo, dove sono interi gruppi familiari a emigrare, non si riscontra la stessa spinta individuale all’integrazione, ma un’articolata rete di relazioni intorno alla famiglia-impresa.
La forte coesione familiare e comunitaria si coniuga a una propensione all’imprenditoria, tipica della collettività in esame, che ha sempre mostrato notevoli capacità organizzative e disponibilità finanziaria per realizzare attività produttive.
[continua nel prossimo numero]