Prosegue l’analisi della prof. Ciattini sulla controriforma in chiave liberista dell’università, architettata dal governo. La “buona università” mira a far uscire l’università dalla Pubblica Amministrazione e a introdurre anche in quest’ambito il “jobs act”, la conseguente privatizzazione del rapporto di lavoro per il personale docente.
di Alessandra Ciattini
(segue da parte 1 di 2): http://www.lacittafutura.it/italia/universita-e-scuola/la-buona-universita-e-la-societa-dell-ignoranza.html
Per esaminare l’ipotesi dell'uscita delle università dalla Pubblica Amministrazione, mi avvarrò di un articolo di un amministrativista, Enrico Carloni, uscito su Roars il 10 giugno 2015 (http://www.roars.it/online/2015-fuga-dal-diritto-amministrativo/).
La disanima di Carloni è analitica e puntuale e mette il dito sulla piaga: la fuga dal diritto amministrativo vuol dire “assenza di regole” e l'instaurazione del “regno del fai come ti pare”. Vuol dire concretamente riproporre l'idea, che il modello-azienda sia la soluzione più efficiente, e quindi esportabile senza complicazioni anche nel contesto dei servizi e delle funzioni pubbliche (ciò ovviamente vale anche per la scuola), i quali saranno dunque governati unicamente dal diritto privato. Come sottolinea Carloni, a sostenere tale trasformazione è la stessa maggioranza governativa che, contraddicendosi in modo plateale, vorrebbe imporre “la mobilità obbligatoria del personale delle province nelle università”. Certo – aggiunge il nostro amministrativista - “la fuga dal diritto amministrativo è una soluzione semplice, facile da capire, sbagliata e (aggiungiamo noi) demagogica. Infatti, “non è possibile fare a meno di regole, e se si è una pubblica amministrazione queste regole diventano diritto amministrativo”; inoltre, “non si può smettere di essere una pubblica amministrazione, quando si svolgono funzioni pubbliche, si utilizzano risorse pubbliche”.
Tale soluzione, improntata al pragmatismo di matrice statunitense, su cui si fonda la strategia del mai troppo vituperato Renzi volta a occultare il disegno politico soggiacente, appare come una formula magica dotata di poteri straordinari al cittadino comune, che si astiene dal voto e che – come i contadini lucani di Carlo Levi – considera giustamente lo Stato una potenza sovrastante e ostile.
Osserva ancora Carloni che il documento #labuonauniversità, sempre sulla stessa linea, lamenta l'esistenza di troppe regole nel reclutamento del personale universitario e vorrebbe sostituire la miriade di figure contrattuali con un rapporto di lavoro unico sul modello “jobs act” (ciò potrebbe significare per il personale docente la privatizzazione del rapporto di lavoro). Inoltre, sembrerebbe anche che – secondo alcune dichiarazioni del ministro Giannini – si voglia superare l'istituto dei concorsi (nonostante quanto previsto dalla Costituzione) sostituendolo con quello delle chiamate dirette, che – lo ribadisco – sono inevitabilmente basate su “affinità” ideologiche e politiche tra chiamante e chiamato. Sembrerebbe anche che il governo voglia procedere all'istituzione di una figura pre-ruolo unica (Ibidem), recependo un'ipotesi sostenuta con forza dai sindacati universitari, i quali chiedono da anni anche l'avvio di un una fase di reclutamento straordinario di 20.000 ricercatori (v. http://www.andu-universita.it/2015/01/26/precari/). Naturalmente bisognerà vedere se i sostenitori della logica, che ha dato vita al drammatico problema del precariato universitario e al de-finanziamento degli atenei, abbiano veramente intenzione di risolvere questi problemi, e come in concreto intendano farlo, portando avanti al contempo il progetto dell'università-azienda.
Ammesso che si unifichi il personale universitario in un'unica figura (che rapporto ha questa ipotesi con il ruolo unico richiesto dai sindacati non è dato sapere), e si si istituisca una sola figura pre-ruolo, - commenta Carloni - ciò non significherebbe che l'università debba perdere il suo status di pubblica amministrazione.
È alquanto paradossale che i creatori del clima di confusione normativa e gestionale imperante negli atenei oggi se ne lamentino e invochino provvedimenti straordinari, presentandosi come i veri risolutori dei problemi. Sono disponibili documenti sindacali che mostrano come la modifica di alcune leggi e regolamenti, il ritorno alla loro corretta interpretazione – senza nessun costo aggiuntivo – significherebbero un forte snellimento nel funzionamento e nella gestione degli atenei. Tuttavia, non si può fare a meno di ricordare che attualmente sono operanti nelle università tre ordinamenti didattici differenti, due dei quali introdotti negli ultimi decenni e che convivono malamente con il cosiddetto vecchio ordinamento; il che significa, per esempio, che non è facile comprendere su quale tipo di studente (del vecchio o dei nuovi ordinamenti) si debbano calibrare i corsi; ciò implica anche l'esistenza di programmi di studio diversi a seconda dell'appartenenza dello studente a un certo ordinamento. Ovviamente ciò crea confusione negli studenti e nei docenti, genera disservizi e produce un grave senso di spaesamento che, insieme all'aumento delle tasse, alla mancanza di sbocchi lavorativi e al non rispetto del diritto allo studio, provoca la fuga dagli atenei. E tutto ciò in un contesto in cui non ci sono i soldi per le aule, per le biblioteche, per l'acquisto dei libri, per l'aggiornamento dei computer, per assicurare la pulizia e il decoro degli edifici etc.; insomma, per l’università italiana, per la quale lo Stato stanzia annualmente una somma che è pari alla metà di quanto investito dalla media dei paesi europei.
L'ultimo punto che vorrei trattare (anche se ovviamente ci sarebbero molti altri aspetti degni di essere esaminati) è rappresentato dall'atteggiamento assunto dai docenti universitari strutturati (dei tre livelli: ordinari, associati, ricercatori) di fronte a tale snaturamento dell'istituzione universitaria (anche se come ho detto, essa non ha mai svolto di fatto le funzioni che le competono). In un convegno sull'università, di qualche anno fa, Alberto Asor Rosa ha detto che quello che sta accadendo è in gran parte colpa dei docenti che non hanno contrastato la negativa azione dei governi succedutisi negli ultimi decenni.
Concordo con Asor Rosa e credo che tale atteggiamento lassista e soccombente possa essere spiegato, tenendo conto del fatto che il docente universitario – compresi i ricercatori a tempo indeterminato più combattivi perché più insoddisfatti – lavora se non raramente in gruppo, e quindi si muove sempre in una prospettiva meramente individualistica, il cui obiettivo finale è il riconoscimento del suo prestigio e valore, indipendentemente dalla ricadute che ciò possa avere sulla società di cui fa parte. Solo raramente è sindacalizzato e guarda con disprezzo ai sindacati, giacché si considera parte di una élite, con la quale – pensa – egli può trattare e negoziare direttamente, senza dover ricorrere a lotte e scioperi, che sono lasciati a coloro che da essa sono esclusi. Nonostante il blocco dello stipendio, in vigore da vari anni, e la sempre più grande scarsezza di finanziamenti alla ricerca, egli si considera un privilegiato e si muove sempre per ottenere ciò che è necessario allo svolgimento della sua attività ricorrendo alle sue relazioni personali, o rincorrendo cariche, che rafforzano il suo potere e gli permettono di perpetuare il suo insegnamento cooptando i suoi allievi e seguaci. Nonostante sia spesso dotato di un raffinato sapere specialistico, è incapace di collocarlo nella totalità storica e culturale di cui esso fa parte, e non si preoccupa delle implicazioni etico-politiche che da tale sapere possono scaturire (ideologici sono sempre gli altri). Ammalato di “nuovismo” vede di buon occhio i cambiamenti anche nell'università, purché non tocchino la struttura oligarchica che ha sempre governato gli atenei e che costituisce la garanzia dell'intangibilità del proprio prestigio personale. Considera con atteggiamento paternalistico gli studenti, i quali a suo parere possono anche commettere l'errore di gridare (ai tempi della Moratti) “Se una riforma volete fare davvero, fateci studiare a costo zero”, ma è convinto che – del resto, il “sano buon senso” lo dice – raggiunta la maturità sicuramente si ricrederanno. In conclusione, è un moderato che magari fa appello ai grandi principi di uguaglianza e di libertà, ma che subito preoccupato si ritrae quando si rende conto che per metterli in pratica occorrerebbe adottare misure radicali.