Gli inquilini in affitto sono una minoranza rispetto ai proprietari di casa. Ma le cifre ufficiali esprimono una sproporzione crescente tra il reddito medio e i costi delle case. Anche l’espansione del fenomeno dell’immigrazione alimenta negli anni una sensibile precarizzazione dei rapporti locativi.
di Fabrizio Ragucci*
“Emergenza casa” è uno slogan ad effetto, di propaganda, che non dice nulla dell’andamento né delle sfumature che qualificano il problema casa.
Per linee generali, questo riguarda infatti categorie sociali così diverse da rendere impossibile un’associazione alla pari: piccoli proprietari in difficoltà col pagamento del mutuo, inquilini “privati”, assegnatari di case popolari, occupanti abusivi, militanti di occupazioni “politiche” organizzate etc.
Dati alla mano, una prima notazione appare ineccepibile: il problema casa interessa soltanto una porzione minima della popolazione nazionale. Gli italiani sono un popolo di proprietari immobiliari: su poco più di 24 milioni di abitazioni censite in Italia, quasi 18 milioni sono di proprietà della famiglia che vi risiede (72%), 4,3 milioni sono locate ad inquilini o assegnatari, (18%), le restanti 2,4 milioni sono abitazioni cedute a titolo gratuito o come prestazione di lavoro (10%) [1]
Il graduale esaurimento del potere contrattuale del cosiddetto “inquilinato” si spiega appunto con la crescita del numero di famiglie proprietarie, che in 30 anni è aumentato di circa il 58%, con un picco del 14% nel solo decennio 2001/2011 [2].
Il riflesso di questa tendenza sociale, è stato il progressivo “sganciamento” dell’attenzione politica da un settore (l’inquilinato) ritenuto sempre meno rilevante, con la conseguente attenuazione dell’intervento pubblico e di importanti misure di garanzia giuridica e assistenziale: l’ultimo grande piano di edilizia popolare è legato al processo di ristrutturazione capitalistica di metà anni ’70 e risale a circa trent’anni fa, lo stesso periodo in cui venne introdotta la legge sull’equo canone (1978), che vincolava i proprietari ad applicare canoni di affitto “calmierati”, attenuando gli effetti della ridotta capacità di acquisto dei salari.
Il definitivo accantonamento di questo genere di “scrupoli” giuridici e assistenziali” si ha nel 1992, con la pubblicazione della legge sui “patti in deroga” (che eliminando “l’equo canone”, concedeva finalmente ai proprietari la facoltà di poter liberamente determinare l’importo dell’affitto mensile) e l’abolizione del fondo GESCAL (istituito nel 1963 e destinato alla costruzione ed alla assegnazione di case popolari): l’intenzione era quella di accompagnare la tendenza statistica all’acquisto della prima casa di abitazione favorendo la rendita e l’economia del mattone.
Sul finire degli anni ’90, viene inoltre predisposto un diffuso piano di cartolarizzazione del patrimonio immobiliare pubblico di proprietà degli enti previdenziali (i cui affitti bassi costituivano una mediazione “ammortizzante” tra case popolari e mercato libero), da realizzare in virtù di una a complessa operazione finanziaria da affidare a “fondi di gestione” (SCIP1 e SCIP2), banche e investitori privati [3].
Nel quinquennio 2007-2012, alla stretta sui redditi da lavoro dipendente si combinano gli effetti del “boom” dei costi del mattone e del “taglio verticale” dei finanziamenti “welfare” concessi dal governo centrale a Regioni e Comuni e destinati al sostegno dei nuclei familiari in difficoltà con il pagamento del canone di affitto o del mutuo.
È il dato sull’andamento degli sfratti a descrivere un sensibile peggioramento delle condizioni dell’inquilinato: mentre tra il 2001 e il 2006 si verifica una tendenza costante (con un contenuto +25% di sfratti per “morosità”, a fronte di un calo del 10% circa degli sfratti per “necessità” del locatore e per “finita locazione), nei sei anni tra il 2007 a il 2013 si riscontra un aumento repentino della “sofferenza”, con un’impennata del 95% ed oltre degli sfratti per morosità e del 300% di quelli per “necessità” (dovuti verosimilmente all’immiserimento dei piccoli proprietari, che richiedono indietro l’immobile per poterlo vendere ad un prezzo più vantaggioso o per destinarlo a prima abitazione per sé stessi o per figli), mentre vanno a crollare le esecuzioni per “finita locazione” (e cioè non immediatamente riconducibili ad intervenuti problemi economici delle parti) [4]
Le cifre esprimono quindi una sopraggiunta sproporzione tra le capacità di reddito medio (specie delle giovani famiglie a salario precario) e i costi medi delle case (specie nei grandi centri urbani). Anche l’espansione del fenomeno dell’immigrazione alimenta negli anni una sensibile precarizzazione dei rapporti locativi: l’aumento degli immigrati si traduce in una maggiore richiesta di alloggi in locazione e ciò consente ai proprietari di mantenere alti i prezzi (anche in virtù della “coabitazione” con altri coinquilini che permette di sostenere insieme rate di affitto elevate, fenomeno questo comunemente riscontrabile presso i lavoratori immigrati), soprattutto nelle zone periferiche e per gli appartamenti a taglio medio/piccolo, cioè la tipologia immobiliare solitamente destinata alle famiglie proletarie. Altro elemento peggiorativo legato all’aumentata richiesta di alloggi in affitto da parte di immigrati è il ricorso più diffuso a forme contrattuali “atipiche” (contratti transitori simulati) nonché il fenomeno dell’affitto in nero (in quanto i lavoratori immigrati sono più spesso ricattabili, poiché privi di adeguate garanzie reddituali o di referenze). L’elusione e l’evasione dei redditi da locazione, permette così ai proprietari di salvare la quote di rendita utile, consentendo alla categoria di mantenere una adeguata forza contrattuale nei confronti degli inquilini.
Il quadro nazionale è quindi caratterizzato da un peggioramento generale delle condizioni dell’inquilino propriamente detto, colui cioè che vive in un appartamento privato e in virtù di un contratto di affitto, che paga un canone a prezzo di mercato e al quale sono stati negli anni preclusi anche minimi interventi pubblici di sostegno.
Il caso romano è come sempre rivelatore dei vizi generali del paese: qui, dove gli affitti in una zona popolare raramente scendono sotto gli €800 al mese per i tagli medio-piccoli, le famiglie “aventi diritto” all’assegnazione di un alloggio popolare (in possesso cioè dei requisiti di reddito previsti dalla vigente normativa regionale) [5] di assegnazione risale addirittura al dicembre 2009. In altri termini, sono passati oltre cinque anni da quando un cittadino romano ha potuto ottenere una casa perché inserito in una graduatoria di assegnazione legale, trasparente ed aggiornata. In mancanza di questo meccanismo “di diritto”, è cresciuto ovviamente il fenomeno delle occupazioni (sia di quelle “politiche” di grossi palazzi sono circa trentamila, ma l’ultima graduatoria ufficiale pubblici o privati abbandonati e organizzate dai cosiddetti “movimenti di lotta per la casa”, sia di quelle “spontanee”, in cui ad essere occupati sono invece singoli appartamenti) e il conseguente “racket” legato al mercato delle compravendite illegali (assegnatari che cedono la “propria” casa popolare al prezzo decine di migliaia di euro).
A Roma, le occupazioni sono al momento gli unici canali, illegali e tollerati, di assegnazione [6].
Il Campidoglio ha progressivamente depotenziato gli aiuti destinati ai cittadini in affitto: il rimborso “una tantum” del cosiddetto “contributo all’affitto” (un parziale rimborso del canone di locazione che poteva essere richiesto partecipando ad appositi bandi comunali), è passato dai circa 3100 euro del 2008 ai 700 euro scarsi del 2012 (ultimo anno in cui il contributo è stato erogato), mentre risultano assai modesti i fondi finalizzati al pagamento dei “buoni casa” per gli inquilini morosi ed erogati dai servizi sociali dei vari municipi (un anticipo mensile fino a 400 euro mensili per quattro anni).
A partire dalla giunta Veltroni e con una marcata accelerazione nella parentesi Alemanno, il Comune di Roma ha piuttosto preferito impegnare le poche risorse disponibili per alimentare il fenomeno dell’intervento “di emergenza” (i cosiddetti “residence” per gli sfrattati, che il Comune affitta da privati a prezzi enormemente maggiorati rispetto le già elevate quote di mercato e che nonostante prevedano una assegnazione di tipo temporaneo e non superiore ai sei mesi, finiscono con l’essere abitati per anni dagli assegnatari, i quali non sono peraltro tenuti al pagamento di alcun canone di locazione) [7].
Anche se le recenti inchieste su “mafia Capitale” hanno dimostrato come in effetti l’emergenza abitativa fosse un fenomeno “di strumento” per affari sotterranei per gli ambienti dell’imprenditoria parassitaria e della criminalità organizzata, non sembra attualmente probabile un effettivo sganciamento del Comune dalla pratica dei residence, per quanto essa sia torbida nelle modalità di gestione e di assegnazione e scandalosamente dispendiosa per le casse dell’amministrazione pubblica.
A Roma, come nel resto del Paese, una serie di problemi tra loro diversi (aumento dei canoni di affitto, eliminazione di aiuti welfare, mancata efficacia di “mobilità” e di controllo delle assegnazioni delle case popolari, aumento dei fenomeni di speculazione legati all’immigrazione e alla presenza di studenti fuori sede etc.) hanno contribuito negli anni a consolidare una situazione di apparente “emergenza”. Un’apparenza che però non riflette le reali necessità della città (il problema casa riguarda circa il 3-4% del totale della popolazione residente) né l’obbligo per chi la governa di intervenire con misure “eccezionali” in deroga agli strumenti ordinari.
Il Comune potrebbe legittimamente attribuirsi la facoltà di requisire parte del patrimonio immobiliare sfitto o di avviare un piano di “auto recupero” del patrimonio abbandonato.
Al momento, va da sé che questa svolta non si intravede neanche lontanamente.
Quando ci sarà, dovrà essere ascritta non all’insperata benevolenza sociale della borghesia, della sua politica e delle sue istituzioni, ma bensì alla ritrovata efficacia e consistenza delle lotte.
Sono stati i mutamenti della società italiana a svigorire l’interesse politico per la vertenza-casa. Come oggi sono i nuovi squilibri a renderla attuale ed eclatante.
Ai comunisti spetta di affrontarla con serietà e coerenza, senza caricarla di facilonerie e di auto-suggestioni.
* Fabrizio Ragucci, Unione Inquilini di Roma
NOTE:
1 Istat, censimento generale della popolazione 2011, “nuovi dati su popolazione, famiglie, abitazioni e stranieri”
3 Con il fallimento della “cartolarizzazione immobiliare” (a fronte di un patrimonio di oltre 5 miliardi di euro, le “società veicolo” riuscirono a realizzare poco meno di 2,3 miliardi), il processo di ricollocamento sul mercato del portafoglio immobiliare degli enti pubblici e privatizzati è comunque proseguito, grazie a singoli “piani di dismissione”, differenziati a seconda degli enti cedenti (INPS, ENASARCO, ENPAM) e vincolati alla sottoscrizione di accordi-quadro con le organizzazioni sindacali, grazie alle quali gli inquilini riescono in genere a spuntare notevoli agevolazioni nell’acquisto o nel rinnovo dei contratti di locazione (i prezzi di vendita vengono determinati con ribassi anche del 40% sul prezzo di mercato, mentre i nuovi affitti risultano di norma ben inferiori a quelli medi altrimenti richiesti).
4 Fonte, Ministero dell’interno, “andamento delle procedure di rilascio di immobili ad uso abitativo - aggiornamento 2013”
5 Legge Regionale del Lazio 6 Agosto 1999, n. 12, http://www.comune.roma.it/PCR/resources/cms/documents/ LR_12_1999.pdf
6 L’ultima sanatoria del 2007, a fronte di circa 10.000 richieste pervenute, ha riconosciuto come “sanabili” circa 8.000 inquilini abusivi in possesso di un reddito inferiore al tetto di accesso (3.254,00 euro lordi annui): a distanza di otto anni, si può ipotizzare che i nuovi abusivi siano non meno di 6.000, dei quali la stragrande maggioranza potenzialmente sanabili. Sono invece circa 60 le grandi occupazioni politiche dei “movimenti”, in cui sarebbero ospitati quasi 4.000 nuclei familiari.
I dati, probabilmente sovrastimati, provengono da uno studio svolto dalla Giunta Regionale del Lazio in vista dell’elaborazione di una “bozza” di delibera sulla cosiddetta “emergenza abitativa” e sono stati forniti con ogni probabilità dagli stessi movimenti (poiché non vi è ancora stato un apposito lavoro di censimento svolto dal Comune di Roma).
7 La possibile soluzione ipotizzata dalla giunta Marino per il “superamento” dei residence (erogazione di un “buono casa” una tantum di 5.000 euro più un fondo mensile fino a 800 euro) dovrebbe, nelle intenzioni del Comune, permettere agli inquilini dei residence di poter prendere in affitto una casa altrove presso un privato. Tale proposta sta però suscitando forti resistenze da parte degli inquilini, che sono per lo più maldisposti all’idea di dover sborsare una parte dei canoni richiesti dall’eventuale nuovo proprietario privato e che ambiscono piuttosto all’assegnazione di una casa popolare.