Gattopardismo di sinistra?

Scissioni e ricomposizioni a sinistra: tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima?


Gattopardismo di sinistra? Credits: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_Gattopardo_(film)

In questi giorni stiamo assistendo, perplessi, a grandi manovre di riposizionamento a sinistra, per cercare di occupare gli spazi vuoti che si sono aperti dopo il deciso spostamento a destra del Pd renziano e la sua netta battuta d’arresto a seguito del referendum del 4 dicembre. Il fatto che persino gli irriducibili sostenitori della “ditta”, come Bersani e Speranza, si siano infine decisi ad abbandonarla alla sua deriva neo-democristiana, è certamente un evento da valutare positivamente.

In primo luogo perché mette definitivamente la parola fine all’incubo di un ventennio renziano sotto il segno del Partito della nazione, in realtà già duramente colpito dalla grande mobilitazione contro la “Buona scuola”, dal primo sciopero generale della Cgil contro il governo amico e, infine, dalla disfatta del tentativo di stravolgere la Costituzione.

In secondo luogo perché contribuisce indubbiamente a una maggiore chiarezza del quadro politico e mette la parola fine al tentativo dei liberisti renziani di spacciarsi come di sinistra e, quindi – grazie alla copertura della triplice sindacale e della sinistra interna – di presentarsi al contempo come la più affidabile opposizione. In altri termini un partito sempre più affine nei fatti ai partiti Popolari europei che continua però a spacciarsi come la principale e più credibile alternativa al centro-destra. Tanto più che la scissione del Pd comporta, nei fatti, la rottura del cordone ombelicale che lo legava – coprendolo a sinistra – con la più grande forza sindacale italiana, ovvero la Cgil che mantiene, nonostante tutto, un forte ascendente su ampi settori di lavoratori salariati e della stessa classe operaia.

Peccato si tratti di una rottura solo parziale, perché con il governo restano sostanzialmente i principali sindacati “complici”, ovvero la Cisl e la Uil, con i cui vertici, la maggioranza della Cgil ha stretto un patto scellerato di unità di azione, generalmente utilizzato per giustificare la mancata risolutezza nella salvaguardia degli interessi dei lavoratori. Inoltre restano all’interno del Pd, candidandosi a rappresentare di nuovo al suo interno l’opposizione di sua maestà, dirigenti come Damiano, da sempre vicino alla direzione della Cgil.

D’altra parte il fatto che a rompere con il Pd siano stati dopo Cofferati anche Epifani e Bersani indica che un settore ormai maggioritario della Cgil avverte l’impellente necessità di rilanciare la linea neocorporativa della concertazione, segnando una cesura con la politica liberista portata avanti da sempre dal Pd, ma in maniera aperta a partire dal Pd renziano. Si tratta, in altri termini, di rilanciare la prospettiva volta a occultare la lotta di classe condotta senza tregua dall’alto dalla borghesia, nel nome di una comunanza di interessi fra i produttori – pseudo-categoria in cui rientrerebbero sia i salariati che gli imprenditori, ovvero tanto gli sfruttati quanto gli sfruttatori – in nome dei più elevati interessi nazionali ed europei.

Quanto tale linea sia disastrosa, lo dimostra in primo luogo la sua genealogia, dal celebre sofisma di Menenio Agrippa, per cui la società sarebbe assimilabile a un corpo, del quale i proprietari sono lo stomaco e i lavoratori le membra [1], da cui deriva etimologicamente lo stesso termine corporativismo, ripreso proprio in questa accezione dalla Rerum Novarum, dal fascismo, fino ad arrivare alle più recenti politiche dei sacrifici. Ugualmente devastanti sono i suoi odierni effetti, che portano a concludere contratti nazionali o preaccordi attraverso – nei fatti – una mera logica concertativa, non preceduta e sostenuta da una mobilitazione dal basso che possa tener testa alla potentissima pressione dall’alto dei principali organi di (dis)informazione.

Così, dopo anni di attesa, in particolare per il settore pubblico, si sono stipulati accordi in cui il sindacato scambia la forma dell’accordo – il suo esser nuovamente riconosciuto come soggetto sociale della concertazione – con il pieno cedimento sul piano dei contenuti, il tutto, per altro, alla vigilia del delicatissimo passaggio referendario del 4 dicembre [2].

D’altra parte la sinistra Pd fuoriuscita, vicina alla Cgil, ha subito sottolineato che diverrà la massima sostenitrice dell’attuale governo, non a caso generalmente definito fotocopia del precedente. Anzi questo suo riposizionamento porta alla spaccatura, prima ancora della nascita, di Sinistra italiana (SI), partito che avrebbe dovuto occupare lo spazio politico della socialdemocrazia, rimasto sostanzialmente scoperto in Italia dopo lo scioglimento del Pci. Così circa i due terzi dei rappresentanti parlamentari di Sel abbandonano tale progetto proprio alla vigilia del congresso che lo avrebbe realizzato, passando nei fatti dall’opposizione al supporto – copertura a sinistra –del governo fotocopia.

Certo, si dirà anche questo contribuisce alla chiarezza politica e sarà certamente rivendicato come un successo della propria linea dall’attuale maggioranza del Prc che, con la sua proposta di una sinistra unita autonoma dal Pd, è riuscita a spaccare Sel, costringendo i sostenitori di un accordo a prescindere con il Pd a uscire dalla stessa SI. D’altra parte, però, tanto SI, quanto la stessa ala ferreriana che finora ha diretto il Prc, non è affatto interessata a operare una chiara e netta rottura con la linea concertativa e neocorporativa della maggioranza della Cgil, rispetto alla quale vuole, al più, porsi come fronda interna.

Del resto, come enunciato chiaramente dal neoeletto segretario di SI, degno nipotino di Padre Bertinotti, il partito è pronto da subito ad aprire un dialogo con i dalemiani e bersaniani usciti da Pd, a patto che questi ultimi rompano con il governo filorenziano. Tanto più che, come ha recentemente chiarito il segretario romano Paolo Cento, dal congresso fondativo di SI deve uscire “una sinistra aperta” che “ha la responsabilità democratica e costituzionale di indicare anche una prospettiva di governo e le necessarie aggregazioni elettorali”. Il che significa, nei fatti, mirare a ricostruire il vecchio sedicente centro-sinista, una volta tolto di mezzo il principale ostacolo, ovvero Renzi.

Per altro i fuoriusciti dal Pd, per non parlare dei fuoriusciti da SI, o dei “progressisti” di Pisapia, hanno come scopo finale proprio la ricostruzione dell’Ulivo, senza ovviamente tener conto del fatto che, avendo la crisi di sovrapproduzione ulteriormente eroso i profitti non vi sono più i margini per una politica socialdemocratica di parziale redistribuzione del plusvalore estorto. Perciò un nuovo governo di centro-sinistra finirebbe, volente o nolente, per tornare a coprire da sinistra le politiche liberiste.

Così abbiamo a una delle polarità della sinistra istituzionale, D’Alema, il grande regista della scissione del Pd, che fa apertamente riferimento ai governi tecnici in stile Ciampi quale modello da seguire, ossia quei governi che sono riusciti a far trionfare la lotta di classe condotta dall’alto, nascondendola dietro la logica corporativa dei superiori interessi nazionali.

Alla polarità opposta abbiamo la maggioranza che ha diretto finora il Prc e che continua a sostenere il governo di Syriza, in coalizione con la destra nazionalista di Anel, ossia un governo che nei fatti ha prodotto sostanzialmente gli stessi effetti dei governi tecnici esaltati da D’Alema, coprendo da sinistra le politiche di austerità dell’Ue e del Fondo monetario.

Non a caso in questo ampio schieramento della sinistra istituzionale, che va da Pisapia a Ferrero, non c’è nessuno – con la parziale eccezione di Fassina, responsabile economico del Pd durante il governo Monti – che osi quantomeno minacciare, anche solo come arma di pressione, la possibilità di uscire dall’UE. Allo stesso modo, sulle orme di Tsipras, nessuno della sinistra istituzionale mette in discussione l’appartenenza alla Nato, ovvero alla più spaventosa alleanza di potenze imperialiste che la storia abbia conosciuto. Tanto più che tutte le forze che per i più diversi motivi si oppongono o si sono opposti a tale superpotenza imperialista sono generalmente considerati, da tutti gli esponenti della sinistra istituzionale, come un rimedio peggiore del male. Per cui non sono motivo di scandalo, ad esempio, né occasione utile a una presa di distanza, i trattati di alleanza stretti dal governo di Syriza con Israele o con l’Ucraina di Poroschenko.

Dunque, sembra che, nonostante la grande occasione offerta dal 4 dicembre – che non a caso nessuno nella sinistra istituzionale ha preso in considerazione per rilanciare dal basso la lotta di classe e mettere in discussione le misure liberiste del governo Renzi – le attuali grandi manovre a sinistra non siano riuscite a rompere con l’attuale fase di restaurazione, in cui tutte le forze politiche istituzionali tendono a riposizionarsi a destra, con uno strabismo che porta a non guardare mai nella direzione di chi sta alla propria sinistra, bollato apriori come ininfluente. Abbiamo così il Campo progressista di Boldrini-Pisapia, che si candida a coprire da sinistra le politiche liberiste renziane, cui guardano i transfughi da SI. Con questi ultimi mirano da subito a fare gruppi parlamentari comuni i fuoriusciti dal Pd. A queste forze mira principalmente SI, nella speranza che accettino un’alleanza in grado di creare un polo di sinistra di governo, autonomo dal Pd renziano. Abbiamo, infine, l’attuale maggioranza del Prc che mira principalmente a questi ultimi per costruire un soggetto autonomo della sinistra, autonomo dal Pd.

Purtroppo la stessa sinistra del Prc, l’unica a non essere prigioniera della logica istituzionalista – per la quale è un successo avere un eletto perdendo la metà degli elettori – ha finito con il sacrificare una parte significativa della propria identità a un’alleanza in chiave elettoralistico-congressuale con i transfughi del vecchio gruppo dirigente. Anche in questo caso, purtroppo, si rischia di non cogliere l’occasione per rompere con la logica opportunista, figlia dei tempi, che porta a guardare esclusivamente alla propria destra, rischiando così di perdere sempre più pezzi, spesso preziosi, alla propria sinistra.


Note

[1] Perciò se gli arti (le classi popolari) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (la classe dominante) non riceverebbe cibo. In tal caso, però, lo stomaco (in quanto classe dirigente) non potrebbe poi redistribuire il cibo in piccole frazioni a tutto il resto dell'organismo. Quindi la lotta di classe, condotta beninteso dal basso, fa sì che l'intero corpo (l’intera società), braccia comprese, deperisce per mancanza di nutrimento (di sviluppo economico), non rendendolo, per altro, competitivo nei confronti degli altri organismi (popoli-nazioni).

[2] Ciò ha molto probabilmente fatto sì che la sconfitta non si tramutasse in una vera e propria disfatta, che avrebbe rischiato di travolgere il “governo amico”, senza lasciargli la via di fuga dell’auto-clonazione.

25/02/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_Gattopardo_(film)

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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