I comunisti hanno bisogno oggi in Italia di definire un programma massimo, sulla cui base rifondare un partito comunista all’altezza delle sfide del XXI secolo, e di un programma minimo a partire dal quale costruire un fronte unico antiliberista e anticapitalista. Tale fronte deve essere costruito a partire dai conflitti sociali e non nella prospettiva di semplice occupazione degli incarichi nelle istituzioni borghesi. Altrimenti i comunisti non potranno vincere la decisiva lotta con le forze democratiche piccolo-borghesi con cui dovranno necessariamente fare i conti nel fronte unico.
di Renato Caputo
Il senso comune del popolo di sinistra ritiene un valore essenziale per battere le destre, da troppi anni dominanti, l’unità della sinistra. Troppo spesso, però, il termine “sinistra” proprio perché noto non è in realtà conosciuto. Dal punto di vista empirico, al quale si ferma il senso comune sotto l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, è di sinistra chi si autodefinisce tale. Tanto più che storicamente il termine, come una parte significativa degli elementi costitutivi della filosofia moderna, è sorto con la consuetudine sviluppatesi durante la Rivoluzione francese, per cui gli esponenti più progressisti del parlamento occupavano l’ala dell’assemblea legislativa posta a sinistra del suo presidente.
In tal modo però l’identità della sinistra resta piuttosto incerta, in quanto è troppo soggetta ai diversi rapporti di forza fra le classi sociali e alle diverse forme di selezione dei deputati nelle assemblee legislative. Così, già nel corso della Rivoluzione francese, a seconda del prevalere nelle sue diverse fasi delle componenti più radicali o moderate e del conseguente mutare delle modalità di selezione dei rappresentanti mutava in modo sostanziale il contenuto concreto dei termini destra e sinistra. In altri termini, in fasi molto progressive anche alla destra del presidente dell’assemblea prenderanno solitamente posto esponenti del centro sinistra, mentre in fasi come la nostra di Restaurazione anche nei banchi di sinistra troveranno posto esponenti del centro destra.
D’altra parte è evidente che fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e che, dunque, l’identità politica di chiunque vada considerata essenzialmente non sulla base di come si definisce, o pretende di essere, ma su ciò che realmente è, deducibile unicamente dai risultati del proprio operare. Da questo punto di vista è evidente che può essere considerato realmente di sinistra chi con il proprio operato favorisce le classi subalterne a discapito delle classi dominanti. Proprio, perciò, maggioranze dichiaratamente di sinistra che hanno nei fatti favorito le classi dominanti hanno generato smarrimento e disaffezione nelle loro basi sociali, come è apparso generalmente dal termometro elettorale, che in questi casi segna generalmente un aumento più o meno rilevante dell’astensionismo dei ceti sociali subalterni.
Tale confusione e perdita di identità non può che favorire le forze populiste e i demagoghi, in quanto tale di destra, che ne approfittano per sostenere la vecchia tesi qualunquista della perdita di significato delle distinzioni fra destra e sinistra. Tesi, per altro, che trovano da sempre terreno fertile nel ceto medio e nella piccola borghesia, classi sociali intermedie dotate di un’ideologia spesso eclettica e pronte a spostarsi a destra piuttosto che a sinistra a seconda del prevalere delle forze progressiste o reazionarie.
Proprio perciò la collocazione politica di questi strati intermedi diviene determinante nei rapporti di forza all’interno del conflitto fra classi dominanti e subalterne. La palude, la maggioranza silenziosa, la massa passiva degli indecisi privi di una chiara coscienza sociale e politica è sempre determinante all’interno di un’assemblea. Ne consegue l’importanza decisiva della politica nelle alleanze per la costituzione dei due principali blocchi storici, sociali e politici, che nelle società capitalistiche contrappongono i capitalisti ai proletari, ossia a coloro che per potersi riprodurre come classe devono alienare per uno stipendio, generalmente modesto, la propria capacità di lavoro.
Proprio perciò i due blocchi storici antagonisti tenderanno a presentarsi come coalizioni di centro-destra o centro-sinistra. Tale necessaria convergenza fra proletari dotati di coscienza di classe e gli elementi maggiormente progressisti dei ceti intermedi è di natura tattica e sottende strategie generalmente sensibilmente differenti. È, dunque, indispensabile la definizione nel blocco storico dei rapporti sociali fra i gruppi sociali in esso rappresentati, che passa necessariamente attraverso la lotta per l’egemonia.
All’interno del fronte unico potrebbero prevalere le forze antiliberiste, ossia la componente piccolo borghese che si illude sulla riformabilità del sistema capitalistico, che sogna un capitalismo dal volto umano, che idealizza il capitalismo concorrenziale delle origini e considera un accidente il suo sviluppo in senso monopolistico, finanziario e imperialistico. Ben diversa sarebbe la situazione se a prevalere fosse la componente anticapitalista che ritiene necessario e, dunque, irreversibile tale sviluppo, come ritiene strutturale e non temporanea la crisi del modo di produzione capitalistico, a causa della caduta tendenziale del saggio del profitto, per cui gli attuali rapporti di produzione costituiscono un ostacolo insormontabile per il necessario sviluppo delle forze produttive.
Da questo punto di vista determinante sarà le definizione degli obiettivi verso cui orientare il fronte unico, ossia le basi programmatiche su cui sperimentare nella prassi la tenuta e l’incisività del blocco storico politico-sociale. In primo luogo occorrerà che la componente anticapitalista sia consapevole che gli obiettivi comuni debbano corrispondere al proprio programma minimo, mentre costituiranno il programma massimo della componente riformista. In secondo luogo sarà necessario ricordare che tali programmi non solo non coincidono, ma sono necessariamente differenti. Proviamo, dunque, ad analizzare le principali differenze.
La componente riformista tenderà a contrapporre le politiche economiche keynesiane alle liberiste, ritenendo non solo le prime la soluzione di tutti i mali, ma considerando una mera opzione culturale, indipendente non solo dalle condizioni strutturali dell’accumulazione capitalistica, ma dagli stessi rapporti di forza fra capitale e forza lavoro a livello nazionale e internazionale. Al contrario la componente anticapitalista dovrà insistere sui limiti e sulla natura necessariamente contraddittoria di tutto ciò che è pubblico e statale in una società capitalista e ancora di più imperialista, dove a essere dominanti sono gli interessi privatistici e la sete di profitto che animano la società civile. Questo comporta che non sia un’eccezione, un accidente, che la spesa pubblica nella società capitalista generi corruzione e disservizi, ma la regola a meno che non si sia in grado di mantenere vivo il controllo delle masse sulla sua gestione.
Dal punto di vista politico la componente riformista tende a naturalizzare lo Stato e la società civile borghese, considerando entrambi non solo neutri, ma come delle strutture in quanto tali essenzialmente progressivi, anche se la componente di origine proudhoniana si illuderà sulla natura in sé e per sé progressiva della società civile, mentre la componente di derivazione lassalliana considererà idealisticamente progressivo lo Stato. Nel primo caso si svilupperanno posizioni di rifiuto tanto del pubblico quanto del privato, che comportano un sostegno acritico al cooperativismo del terzo settore, dove si registrano non di rado livelli di sfruttamento e autosfruttamento ancora più elevati non solo del settore statale, ma anche del settore privato. Nel secondo caso si finalizzerà l’azione politica all’occupazione delle istituzioni, illudendosi del loro carattere neutrale e della possibilità di utilizzarle ai propri fini grazie al suffragio universale. Al contrario le forze anticapitaliste dovranno insistere sulla natura di classe delle istituzione borghesi, in quanto tali di ostacolo alla realizzazione di una società più giusta fondata su un modo di produzione più razionale. Dovranno inoltre sempre ricordare la natura antidemocratica della concezione liberale della delega, denunciando come un ossimoro la democrazia borghese. Al di là dell’uso distorto e ideologico del termine, imposto del pensiero unico liberale oggi dominante, gli anticapitalisti dovranno insistere sul reale significato di democrazia, etimologicamente e storicamente intesa come forza e potere delle masse popolari, dei subalterni.
Da questo punto di vista determinante sarà anche la prospettiva prevalente nella costituzione del fronte, ossia se prevarrà il principio della delega a un “ceto politico” della sua governance o se si mirerà a favorire per quanto possibile una reale partecipazione di esponenti delle lotte socio-economiche, di delegati dai posti di lavoro e dai luoghi di formazione della forza-lavoro. Anche perché a livello del ceto politico finiranno necessariamente per prevalere gli intellettuali tradizionali, di provenienza essenzialmente borghese, e non si favorirà la formazione di intellettuali di tipo nuovo, organici ai subalterni, meno soggetti alle prese di posizione individualiste e ai tentativi di cooptazione delle classi sociali dominanti.
Tanto più che la componente anticapitalista potrà evitare ogni tentativo di infiltrazione e contaminazione con posizioni antitetiche in senso reazionario al capitalismo soltanto se non si limiterà alla pur indispensabile funzione negativa di contrasto e lotta al modo di produzione dominante. Al di là della necessaria battaglia ideologica per l’egemonia all’interno del fronte, fra le componenti comuniste, socialiste, anarchiche, socialdemocratiche, democratiche diverrà decisiva la sperimentazione di forme embrionali della società futura che si mira ad affermare.
Da questo punto di vista il fronte unico non potrà certo fondarsi su una coalizione fra diverse forze politiche, diretta da addetti ai lavori, che rischiano spesso di rimanere generali senza esercito. Al contrario dovrà mirare in primo luogo a unire, ampliando così gli orizzonti al di là dei rischi di soluzioni corporative, i protagonisti delle lotte sociali ed economiche. In secondo luogo dovrà favorire il sorgere nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari, nei luoghi di formazione della forza lavoro strutture consiliari in cui sperimentare quella democrazia reale, diretta e dal basso che si intende contrapporre al fondamento oligarchico delle attuali liberal-democrazie fondate sulla delega della sovranità popolare a professionisti della politica. Come sosteneva già Rousseau [1], ben prima di Marx o di Gramsci, il vero padre della democrazia moderna, la sovranità popolare è, in quanto tale, inalienabile e, dunque, non può essere demandata a un ceto politico per quanto radicale possa essere.
Note
[1] “La sovranità non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non è soggetta a rappresentanza: o è essa stessa o è un’altra, non c’è via di mezzo. I deputati del popolo dunque non sono, né possono essere suoi rappresentanti; essi non sono che suoi commissari, non possono concludere niente definitivamente. Ogni legge che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla: non è assolutamente una legge. Il popolo inglese pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: appena questi sono eletti, esso è schiavo, è un niente. L’uso che esso fa della libertà, nei brevi momenti che ne gode, è tale che merita bene di perderla” (Rousseau, Il contratto sociale).