Ancora una volta una tragedia si è consumata in una fabbrica, in un luogo di lavoro che in teoria dovrebbe essere il posto più sicuro dopo la propria abitazione. Ancora una volta dei lavoratori non torneranno più alle loro famiglie, ai loro affetti più cari. In provincia di Chieti, nel comune di Casalbordino, esiste una fabbrica, la Esplodenti Sabino, da noi abitanti del comprensorio chiamata sbrigativamente “la polveriera”, che occupa circa una settantina di dipendenti, specializzata nel recupero dei materiali provenienti da munizioni militari e più in generale nello smaltimento di prodotti contenenti esplosivo. Il 13 settembre è stata teatro di un gravissimo incidente sul lavoro che ha comportato la morte di tre lavoratori. Non è la prima volta! Nel dicembre 2020, il luogo era già stato teatro di una tragedia simile, anche allora persero la vita tre operai mentre stavano trattando delle polveri esplosive.
Il 13 settembre 2023 dopo investimenti sulla sicurezza, dichiarati dall’azienda nell’ordine di un milione di euro, dopo ripetuti corsi di formazione e sulla sicurezza, di diverso c’è stato solo che invece delle polveri a detonare è stata una bomba, più precisamente una granata d’artiglieria, di quelle che con qualche grammo di T4 tirano giù un’intera palazzina, non tanto dissimile da quelle che vengono usate in questi giorni in Ucraina e in tante altre parti del mondo.
Una prima riflessione che viene da fare è in cosa siano consistiti gli investimenti dichiarati dall’azienda se ancora quel maledetto mercoledì l’addetto alla produzione stava disinnescando la granata manualmente e neanche dietro una blindatura protettiva. Quanto può valere la vita di un lavoratore? Dieci granate bastano? O forse cento, o forse mille?
Una seconda riflessione è la seguente: questi ordigni vengono realizzati secondo precisi progetti redatti dopo svariati esperimenti, ma quando vanno in dismissione non sono accompagnati da schemi che ne illustrino il disinnesco. Vale a dire che il recupero dei materiali è una fase non prevista nella progettazione degli ordigni bellici, il che comporta che la capacità di eseguire questo lavoro possa essere acquisita solo con la pratica. Non c’è caso più evidente di conflitto capitale - lavoro: il capitale intravede un’opportunità di profitto e pur di ottenerla è disposto a rischiare l’incolumità e perfino la vita dei lavoratori.
In questi primissimi giorni sono tornate in primo piano le polemiche che già tre anni fa avevano portato ad attribuire le responsabilità dell’accaduto a diversi livelli: la VIA rilasciata dalla Regione Abruzzo troppo facilmente, senza approfonditi controlli; la contestuale direttiva Seveso non rispettata; il Piano di Emergenza Esterno inesistente. Già tre anni fa un noto esponente politico comprovò le inadempienze sopra elencate e presentò un esposto al tribunale competente di Vasto. Il risultato del lavoro della Magistratura fu il rinvio a giudizio dei vertici aziendali per i reati di cooperazione in omicidio plurimo, imprudenza, imperizia e negligenza. Mentre la Magistratura compiva il proprio dovere, la fabbrica fu messa sotto sequestro per sette mesi. Dopo circa tre mesi di sequestro dell’impianto assistemmo ad una manifestazione dei lavoratori davanti alla sede del tribunale per chiedere la riapertura dell’impianto perché con il fermo produttivo la proprietà rischiava la tenuta dei conti e soprattutto i lavoratori con già il lockdown alle spalle e con il protrarsi della CIG, erano seriamente provati economicamente. La quasi totalità dei lavoratori si presentò lì con le sole bandiere del gruppo ES chiedendo di tornare al lavoro, implicitamente assumendosi il rischio e la responsabilità di riaprire una fabbrica potenzialmente pericolosa pur di poter tornare a percepire un salario, l’unico sostentamento per le loro famiglie. Riguardo a ciò, bisognerebbe mettere sotto accusa l’intero sistema capitalistico, non solo i vertici aziendali, che ha progressivamente ridotto le garanzie e le tutele dei lavoratori tagliando sempre più a fondo lo stato sociale. Morire di lavoro o morire di fame! Questa la scelta che si palesava ai lavoratori, perché reinventarsi e cambiare lavoro a cinquant’anni in questo Paese è difficile se non impossibile. E cambiare per cosa poi? Per un futuro fatto di precarietà, di contratti a sei mesi o ad un tempo indeterminato ma che indeterminato non è perché non esistono più le tutele dell’art. 18?
Se la Esplodenti Sabino riaprirà, questi lavoratori si troveranno di nuovo di fronte a questo bivio, se si deciderà di agire ancora una volta nell’interesse padronale anziché nell’interesse dei lavoratori.
Giuseppe Redondi è operaio Fiat/Stellantis Abruzzo, già dirigente FIOM-CGIL; è militante di “Costituente Comunista” e membro del gruppo di lavoro “Lavoro e Sindacato” del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.