Per la prima volta nella storia della Repubblica, la Colombia sarà guidata da un tandem presidenziale progressista: Gustavo Petro e Francia Màrquez; un ex guerrigliero del gruppo M-19 traghettato alla politica con gli accordi di pace del 1990 e un’avvocata afrodiscente, femminista, ambientalista, lideresa social della regione del Cauca.
Vincono portando al voto i gruppi marginalizzati, movimenti etnici e indigeni, campesinos, giovani e lavoratori delle periferie urbane, e tutti quei settori della popolazione a cui il sistema dominante nega ogni tipo di futuro. Non pensate al vostro comodo seggio elettorale, votare in Colombia può essere difficile: molti di loro hanno dovuto viaggiare per giorni – nella selva, nelle praterie o tra le montagne – per poter raggiungere il luogo delle votazioni, altri hanno sfidato le minacce esplicite dei gruppi paramilitari che impazzano sul territorio per rendere impossibile questa storica svolta, che finalmente fa esplodere il finto bipartitismo liberale di destra – più o meno autoritario ma sempre convintamente iperliberista – che ha finora dominato e controllato il paese.
Vincono nonostante una campagna elettorale aggressiva portata avanti contro di loro, caratterizzata da menzogne, calunnie e minacce di morte. Una vittoria lenta e sofferta, maturata in un contesto caratterizzato dalle enormi mobilitazioni sociali dell’anno scorso – el Paro Nacional – nate contro una assurda e iniqua riforma fiscale, poi ritirata dal Congresso, che però si sono allargate a macchia d’olio a comprendere istanze strutturali di pace, uguaglianza e giustizia sociale sulla falsariga di quanto successo in Cile nel 2019. Protesta soffocata nel sangue dal governo di Duque, esattamente come in Cile ha fatto quello di Pinera. In Cile ciò ha contribuito alla vittoria di Boric, in Colombia ha portato a quella di Petro.
È proprio in questo scenario di forte mobilitazione sociale, infatti, che irrompe la proposta politica del Pacto Historico: coalizione di 18 diversi partiti e movimenti di sinistra e di centro-sinistra che propongono di trasformare la Colombia nella putencia mundial de la vida contro la politica de la muerte del capitalismo estrattivista del modello di sviluppo colombiano, attraverso un processo democratico che si fondi sulla ricerca della pace – a partire dall’implementazione degli accordi di pace del 2016 –, sull’uguaglianza, sulla godimento effettivo dei diritti fondamentali, sulla giustizia sociale e ambientale, sulla sovranità sulle risorse.
La coalizione ottiene un primo significativo successo alle elezioni politiche di marzo 2022 imponendosi come seconda forza con l’elezione di 25/182 rappresentanti al Congresso e 16/102 al Senato. Parallelamente si svolgono le primarie interne alla coalizione per decidere il candidato presidente alle successive elezioni di maggio e Gustavo Petro si impone primo con oltre 4 milioni di voti, dopo di lui Francia Màrquez con oltre 800 mila preferenze. Ed è proprio lei la vera rivelazione politica di questa tornata elettorale.
Petro è ormai un politico navigato e di crescente popolarità, alla sua terza campagna presidenziale e al secondo ballottaggio; Màrquez, invece, una agitatrice radicale arrabbiata che riempie le piazze.
Donna nera di 40 anni, madre sola di due figli di cui uno avuto a 16 anni, costretta ai lavori più umili per sopravvivere. Ma non solo: femminista radicale di sinistra, avvocata, militante ambientalista. Durante le primarie è risultata la più votata nelle regioni più isolate e povere, più colpite dalla violenza, più sfruttate dalle attività minerarie illegali, più trafficate dai percorsi dei narcos. È lei che ha mobilitato al voto le regioni più sperdute del paese: l’hanno acclamata e voluta alla vittoria proprio in quelle sacche di miseria in cui lo Stato non si è mai degnato di intervenire, e dove ella non è solo “una donna nera”, ma rappresenta per ciascuno di loro la più vera e concreta possibilità di una vita degna, di un vivir sabroso. In quei luoghi in cui le élite tradizionali vanno solo a lavarsi la coscienza in campagna elettorale, lei ci vive: viene dal Cauca, ed emerge lideresa social nelle lotte del suo territorio contro le imprese minerarie ed estrattive che da sempre lo devastano, depredando e distruggendo interi ecosistemi. In queste lotte nasce e si forma, ed oggi è lì a rappresentare anche tutte quelle centinaia di lideresi e liderese social assassinati a causa delle loro lotte negli ultimi anni, a dimostrare che il loro sacrificio non è stato vano.
La loro relazione all’inizio non è facile, ma hanno trovato il modo di rendersi complementari: lei riconcilia Petro con le femministe, e con le regioni maggiormente abitate dalle popolazioni afrodiscendenti, con i radicali. Petro, dal canto suo, dà forza alla voce della Màrquez con i suoi milioni di voti.
Non basta vincere le elezioni per conquistare ed esercitare il potere; la vittoria è stata storica, ma ora arriva la parte veramente difficile: avranno la forza di smantellare quel sistema così consolidato e sostituirlo con uno più fedele e rispondente ai propri obiettivi politici? Quali sono le forze e i processi in gioco?
La destra colombiana mantiene una grande capacità di manovra politica e continua a controllare interi settori delle forze armate, tra le più brutali del pianeta; senza contare che le fila degli apparati burocratici e giurisdizionali sono nutrite di individui legati in maniera clientelare al vecchio sistema di potere. Non solo, mantiene stretti legami con gli esponenti del narcotraffico e ha creato inedite commistioni tra istituzioni e criminalità che le sono valse la qualifica di “NarcoStato”.
L’uribismo non è sconfitto, si sta solo riorganizzando.
Dunque, il presidente uscente incontra una scarsissima popolarità che gli ha impedito persino di candidarsi alle primarie, e Uribe deve riorganizzare la sua scuderia. Il proprio candidato ufficiale, “Fico” Gutierrez, non ha centrato il risultato del ballottaggio, eppure tale risultato non sembra essere stato vissuto come una sconfitta. In realtà non ci hanno mai creduto veramente.
Lo sfidante di Petro al ballottaggio, Rodolfo Hernandez, è molto più legato a Uribe di quanto non abbia voluto far intendere durante la campagna elettorale, e tale atteggiamento, probabilmente, sembra sia dettato da una mera necessità strategica: non poteva certo scaricare Duque in maniera plateale, ma era anche ben cosciente che il danno di immagine apportato dalla gestione della crisi pandemica e dalla repressione delle proteste era irrimediabile nei tempi brevi, e conveniva “diversificare” i propri interessi.
Hernandez è un imprenditore edile molto ricco, dal linguaggio acceso e modi violenti, tanto da essere soprannominato “il Trump colombiano”. La narrazione offerta di sé è che, preso dalla rabbia per la corruzione e il malaffare che imperversano nell’amministrazione, ha deciso di scendere in campo per combattere questi flagelli in prima persona. Ha fatto una campagna elettorale solo sulle reti sociali, soprattutto su tiktok, e ha rifiutato tutti i confronti con gli altri candidati. Non ha mai espresso alcun interesse a parlare ad altri che ai propri seguaci e consolidare la propria base di consenso: persone arrabbiate e deluse che non avrebbero mai più votato Duque o qualcuno a lui direttamente riconducibile, ma nemmeno la sinistra. In Colombia essere di sinistra è pericoloso, e la fobia comunista è alimentata quotidianamente dalla propaganda: una grossa fetta di scontenti sarebbe rimasta senza bandiera, e allora…
Considerata la svolta trumpista dell’uribismo che si è concretizzata con la presidenza di Duque, la figura di Hernandez sembra cadere a fagiolo: l’imprenditore di successo che si oppone alla malapolitica professionista nell’interesse esclusivo del paese. D’altronde sono le stesse traiettorie narrative che riscontriamo altrove: l’idea del superuomo, ricco, che da solo salva la nazione grazie alle proprie doti eccezionali è da considerarsi la normalità nella modernità capitalista.
Ed è proprio la vicinanza a Trump degli uribisti, forse, lo stesso motivo per cui l’amministrazione Usa sembra non aver reagito in maniera esplicitamente negativa alla notizia della vittoria di Petro. Non è un mistero che il Partito Democratico abbia preso molto male il sostegno pubblico espresso da Duque a Trump durante la campagna per le presidenziali del 2020, ed era altresì evidente la necessità avvertita da Biden di assicurarsi un alleato più affidabile per l’amministrazione di quel territorio.
L’amministrazione Biden da una parte non voleva veder vincere Uribe, e ciò si è chiaramente manifestato nella prontezza con cui il segretario di Stato Blinken, a differenza di tutte le precedenti volte in cui in una regione dell’america latina vince un candidato progressista, si è congratulato con Petro facendo, addirittura, espresso riferimento alla regolarità delle elezioni (fairy election), ma dall’altro sente di non poter fare affidamento sul nuovo gruppo di potere che si va formando, e infatti si è affrettato a dare impulso a una radicale riorganizzazione dei rapporti bilaterali Usa-Colombia in questi ultimi mesi di presidenza Duque, con iter legislativo incardinato al Senato a Febbraio 2022.
Nel documento al Senato si certifica la Colombia come il più stretto alleato Usa al di fuori dalla Nato e si rinnovano e rinsaldano gli interessi commerciali e strategici yankee: si prepara a essere, in buona sostanza, una versione riveduta e corretta del Plan Colombia, che ne ha retto le relazioni negli ultimi venti anni, nel tentativo di ingabbiare – attraverso l’esercizio di questi penetranti vincoli esterni – la volontà popolare di cambiamento radicale. D’altronde la Colombia è fondamentale per gli Usa, e per questo si sono ben assicurati di essere nelle condizioni di intervenire, se e quando necessario: gli yankee vantano una presenza capillare sul territorio con 7 basi militari proprie, oltre i rapporti di addestramento, aggiornamento ed equipaggiamento che mantengono con tutti i settori delle forze armate. Anche i Fiscal, i pubblici ministeri, sono formati dagli americani così come i dirigenti della pubblica amministrazione.
D’altronde Petro non ha mai sfidato apertamente gli Usa durante la campagna elettorale, anche se molti punti del suo programma confliggono in maniera evidente con gli interessi statunitensi, a partire dal ristabilimento di relazioni diplomatiche ordinarie con il Venezuela, ma anche la riforma agraria che colpisce direttamente gli interessi delle grandi agroindustrie americane che lì operano, oppure la tutela ambientale e la sovranità sulle risorse. Insomma, seppure mai tirati in ballo in maniera esplicita, appare evidente che delle due, l’una: o il Pacto Historico potrà compiere il proprio programma di rinnovamento, oppure gli Usa saranno in grado di tutelare i propri interessi attivi sul territorio colombiano e, assieme a essi, mantenere la propria influenza sulla regione.
L’influenza regionale esercitata dagli Usa, però, va scemando a ogni tornata elettorale che si svolge nella Nostra America: Bolivia, Argentina, Cile, Honduras e Messico hanno cambiato postura nei confronti delle ingerenze Usa, anche se con intensità politiche diverse. A ciò si aggiungono i bastioni di Cuba, Venezuela e Nicaragua. A Ottobre si voterà in Brasile. La guerra in Ucraina e gli obiettivi strategici contro la Cina distolgono attenzione e risorse degli Usa, che potrebbero essere costretti a cambiare il proprio atteggiamento in America Latina se la regione saprà consolidarsi come soggetto politico autonomo e sarà in grado di far valere il tutto il proprio potenziale in sede di trattativa.
Si avanza, insomma, in una situazione di instabilità e grande rischio: La presenza di Francia Màrquez alla vicepresidenza, e il successo elettorale che l’ha imposta alle primarie con il suo programma obiettivamente anticapitalista, parte del quale è confluito nel programma presidenziale, ci dimostra quanto peso abbiano avuto le istanze più radicali nell’attivare quei processi che hanno portato al successo delle urne, anche in un paese dove la sinistra non ha mai governato. D’altra parte, il Pacto Historico non ha la maggioranza in Parlamento e sarà costretto a cercare alleati altrove, di volta in volta e necessariamente alla propria destra, per poter incamerare qualche risultato legislativo. Questo certamente rassicura gli Usa, come anche la presenza di partiti di centro nella coalizione, ma quanto sarà in grado di frenare il cambiamento che adesso il popolo si aspetta?