Nelle colonie israeliane si schiavizza il lavoro minorile palestinese. Invece di stigmatizzare Israele per le sue politiche di sfruttamento della terra, dell’acqua, di donne, uomini e bambini palestinesi, l’Italia invece offrirà una vetrina alle aziende israeliane a Expo2015.
di Stephanie Westbrook
Una doppia illegalità. Nelle colonie israeliane costruite in Cisgiordania, occupata in violazione del diritto internazionale, si sfrutta anche il lavoro minorile palestinese. È quanto è emerso dal nuovo rapporto di Human Rights Watch, la nota organizzazione internazionale impegnata per i diritti umani.
Il quindicenne Saleh, che ha lasciato la scuola alla seconda media, porta un serbatoio di 15 litri di pesticidi sulle spalle. Spruzza le piante per mezz’ora alla volta, poi riempie di nuovo il serbatoio. Ripete questo ciclo 15 volte durante la sua giornata lavorativa.
La maggior parte dei bambini intervistati afferma di lavorare con i pesticidi. Non sanno molto delle sostanze chimiche che trattano, ma degli effetti sì. Soffrono di “giramenti di testa, nausea, irritazioni agli occhi ed eruzioni cutanee”. I ragazzi che lavorano nei vigneti dove si usa il pesticida Alzodef, vietato in Europa dal 2008, si riconoscono dalle desquamazioni dell’epidermide. I bambini palestinesi lavorano 6-7 giorni alla settimana, per 8 ore al giorno, anche nelle serre a temperature che si avvicinano ai 50 gradi. Portano carichi pesanti e usano macchine pericolose. Secondo uno studio del 2014 sugli infortuni tra i minori palestinesi che lavorano, il 79% aveva subito un infortunio sul lavoro nei precedenti 12 mesi. E tutto questo per una paga di meno della metà di quella minima garantita dalla legge israeliana e senza assicurazione sanitaria e altri benefit, assicurando così maggiori guadagni alle aziende agricole delle colonie.
Il rapporto di HRW si incentra sulla Valle del Giordano, noto come il granaio della Palestina, dove le grandi estensioni di piantagioni e coltivazioni delle colonie contrastano con i campi aridi dei palestinesi, evidenziando l’iniqua distribuzione delle risorse idriche. I palestinesi che ci vivono, scesi da circa 300.000 nel 1967 agli 80.000 di oggi, hanno accesso solo al 6% dell’area. Il restante 94% è riservato ai 9.500 coloni e alle loro piantagioni, oppure chiuso in zone militari.L’87% della Valle del Giordano si trova in un’Area C che, secondo gli accordi di Oslo, è sotto il controllo totale di Israele. I palestinesi che ci vivono devono ottenere permessi dalle autorità militari israeliane per qualsiasi costruzione che siano case, stalle, strade, pozzi o cisterne, ma anche per coltivare la terra o pascolare il bestiame. I permessi approvati sono una rarità. Guadagnarsi da vivere dall’agricoltura, senza terra e senza acqua e con una serie di check-point tra i campi e i mercati, diventa impossibile. I minori sono costretti a lavorare per aiutare le famiglie e non hanno altra scelta che l’agricoltura delle colonie. In alcuni casi, i bambini finiscono addirittura per lavorare le terre che sono state confiscate alle proprie famiglie. Altri hanno raccontato di genitori malati, morti o in prigione – sono 6.000 i prigionieri politici palestinesi attualmente nelle carceri israeliane. Ai bambini tocca, quindi, provvedere per la famiglia e lasciano la scuola per farlo.
Queste condizioni sono in violazione delle convenzioni sui diritti dell’infanzia nonché della stessa legge israeliana, che si estende ai lavoratori nelle colonie e secondo la quale è vietato ai minori l’uso di sostanze chimiche, di lavorare con carichi pesanti e a temperature alte. Sarebbe anche obbligatorio per i datori di lavoro fornire assicurazioni sanitarie e remunerare i periodi di malattia. Nessuna di queste leggi invece viene applicata per i bambini palestinesi. Le ispezioni sulle condizioni di lavoro nelle colonie sono superficiali se non addirittura inesistenti. Per la forza lavoro, le aziende agricole delle colonie inoltre si servono di intermediari palestinesi, spesso ex lavoratori, anche minori, nelle colonie così da evitare una responsabilità diretta. Una bambina che ha lavorato nella colonia di Kalia dall’età di 13 a 15 anni racconta di essersi nascosta sotto i sedili del furgone dell’intermediario per non farsi vedere dai soldati o dai guardiani, anche se spesso bastava dire che aveva dimenticato i documenti a casa per passare.
Infatti, viene tollerato di aggirare problema dei permessi necessari per consentire ai palestinesi di entrare nelle colonie, perché i campi e le serre si trovano comunque al di fuori dai cancelli. I lavoratori palestinesi, bambini e adulti, non hanno contratti né buste paga. Non hanno nessuna prova di aver mai lavorato per la colonia, nessun diritto lavorativo, nessun ricorso possibile. Chi si azzarda a cercare di far valere i propri diritti finisce spesso nella lista nera con l’intera famiglia senza possibilità così di trovare un altro lavoro.
Visti gli abusi sui minori palestinesi, e le altre violazioni del diritto internazionale da parte di Israele, Human Rights Watch raccomanda di interrompere “i rapporti di affari con le colonie, compresa l'importazione dei prodotti dell'agricoltura delle colonie”. Anche tutte le principali organizzazioni agricole palestinesi, insieme al movimento per il boicottaggio di Israele, invitano a porre fine ad “ogni commercio con le aziende agricole israeliane che sono complici con il sistema di occupazione, colonizzazione e apartheid di Israele” . L’Europa è il principale mercato per i prodotti agricoli israeliani.
Nel rapporto di HRW è finito anche il ruolo della Mekorot, società idrica nazionale di Israele. La Mekorot sottrae l’acqua illegalmente dalle falde idriche sottostanti la Valle del Giordano e rifornisce il 70% del fabbisogno di acqua delle colonie della valle. L’Acea SpA ha firmato un accordo di cooperazione con la Mekorot nel dicembre del 2013.
Il Comitato No all’Accordo Acea Mekorot ha denunciato ripetutamente al Comune di Roma, azionista di maggioranza, e ad Acea le complicità di Mekorot con il regime israeliano di occupazione. Ora si aggiunge il ruolo della Mekorot nello sfruttamento del lavoro minorile palestinese. Nel comunicato del Comitato, si chiede: cosa altro ci vuole affinché si “prendano misure per assicurare che l’accordo non abbia un seguito in modo da evitare complicità con le violazioni dei diritti?” La principale società idrica dell’Olanda, la Vitens, ha già interrotto un analogo accordo con la Mekorot a causa delle violazioni del diritto internazionale.
Invece di stigmatizzare Israele per le sue politiche di sfruttamento della terra, dell’acqua, di donne, uomini e bambini palestinesi, l’Italia invece offrirà una vetrina a Israele a Expo2015. Al padiglione di Israele, che si trova in una posizione strategica, accanto a quello italiano e all’incrocio delle due principali assi del sito, si propaganderanno le menzogne delle meraviglie dell’agricoltura israeliana che ha fatto “fiorire il deserto”, in linea con l’ipocrisia del mega evento che pretende di parlare di agricoltura sostenibile mentre porta le sponsorship di McDonald’s e Coca-cola. Le verità scomode non verranno raccontate dentro i padiglioni, ma fuori sì.
Milano, infatti, si sta preparando per sei mesi di contestazione contro la speculazione e lo sfruttamento rappresentati da Expo2015 a partire dalla cinque giorni di “laboratorio sociale di resistenze e alternative” dal 29 aprile al 3 maggio. E in tutto il mondo crescono le campagne di boicottaggio dello stato di Israele, per isolarlo a livello internazionale, come è stato fatto con il Sudafrica dell’apartheid, fino a quando non rispetterà i diritti dei palestinesi.