Il bell’editoriale della redazione e l’articolo di Alessandra Ciattini nel n. 336 di questo giornale hanno ottimamente esplicitato le ragioni della totale solidarietà al popolo palestinese e del pieno sostegno alla causa palestinese. Mi propongo in questo articolo di esaminare le questioni dello scontro in atto sulla base delle dinamiche interne e internazionali che interessano il Medio Oriente, in cui il conflitto (ex?) arabo-israeliano e la questione palestinese si sono sviluppati.
La Palestina scomparsa: l’occupazione dei territori e l’esproprio coloniale trasformata in una guerra Israele-Hamas
È da pochissimo iniziato il cessate il fuoco rispetto alla ennesima aggressione di Israele ai palestinesi, che già si delinea chiaramente uno slittamento di senso con i titoli di giornali e telegiornali: innanzitutto l’erompere della violenza israeliana viene definita “guerra”, mentre si è trattato di una vera e propria operazione militare di rappresaglia, pianificata a tavolino, che Netanyahu ha scientemente provocato (per motivi di politica interna ed estera che analizzerò) avviando la deportazione forzata, mascherata da sfratto, delle famiglie arabe dai quartieri di Gerusalemme Est, a cui hanno fatto seguito le comprensibili manifestazioni degli arabo-palestinesi sulla spianata delle moschee e nei territori occupati che hanno fatto scattare la predisposta repressione di polizia ed esercito israeliano; il lancio di razzi dalla striscia di Gaza sulle città israeliane e sulle colonie ebraiche da parte di Hamas è la risposta indotta e provocata, che è stata presa come giustificazione per definire l’ennesima aggressione israeliana una “guerra tra Israele e Hamas”. Nella propaganda occidentale, euro-atlantista, la Palestina è scomparsa, il popolo palestinese viene semplicisticamente descritto come succube e ostaggio di Hamas, mentre la popolazione palestinese, nella striscia di Gaza e nelle enclave dei territori occupati, è sequestrata e segregata da Israele. I diritti che si evocano e riconosciuti sono ormai a senso unico: solo Israele ha diritto a difendersi, mentre gli arabo-palestinesi devono solo accettare le condizioni dell’occupazione israeliana nei territori loro riconosciuti dall’Onu nel 1947 (e che un pezzo alla volta la politica colonialista ebraica, sostenuta praticamente da tutti i governi sionisti israeliani, sta sottraendo ai palestinesi), di cui si parla sempre meno. L’intero arco politico parlamentare italiano, con l’imbarazzata eccezione di Sinistra Italiana (che però vuole ricostruire il centrosinistra con Letta, apertamente schieratosi con lsraele), ha dichiarato la totale subalternità al progetto colonialista e segregazionista dello stato sionista di Israele.
Politica interna nell’Anp e in Israele
Isma’il Haniyeh (leader di Hamas) ha dichiarato di aver imposto la tregua ad Israele, mentre Benjamin Netanyahu (leader del partito di destra Likud) ha sostenuto di aver umiliato Hamas e di essere pronto a riaprire le ostilità: al di là delle dichiarazioni e dei toni trionfalistici e propagandistici, e della “narrazione” di una guerra scatenata da Hamas, la verità delle forze in campo si misura sul ferale conteggio delle vittime, 227 di parte palestinese e 12 israeliana, tra cui 65 bambini palestinesi e 2 israeliani (dati Unicef). La doppia partita politica che si è giocata innanzitutto sulla pelle della popolazione civile arabo-palestinese, e che ha acceso scontri etnici (in particolare in città multietniche come Acri, Haifa, Bat Yam, Tiberiade, Lod), vede l’asimmetrica crisi politica sia dell’Autorità Politica Palestinese (che ha di fatto sostituito l’Olp) che di Israele: da una parte, la leadership ormai logora e sbiadita di Abu Mazen (Mahmūd Abbās) – incapace di offrire una prospettiva dignitosa, prima ancora che pacifica, al popolo di Palestina, tra scandali e corruzione, appoggi internazionali sempre più inconsistenti che alimentano il consenso al movimento fondamentalista (filiazione dei Fratelli Musulmani) Hamas soprattutto nella striscia di Gaza – che ha rinviato le elezioni di maggio attese da oltre 15 anni (nel 2005 si erano tenute le presidenziali e nel 2006 le politiche, da cui scaturì la guerra civile intestina tra Hamas, in netta crescita, e al-Fatah che si contendevano la Presidenza dell’Anp) con la giustificazione che Israele avrebbe impedito di votare a Gerusalemme Est; dall’altra un Netanyahu sempre vincente, ma incapace di costruire una maggioranza in parlamento e soprattutto indebolito dal processo per corruzione e abuso di ufficio a cui è sottoposto.
Nel campo palestinese, le elezioni avrebbero probabilmente rafforzato Hamas, quantomeno nella striscia di Gaza, rischiando di consegnare la Palestina al fondamentalismo religioso (non al terrorismo, come afferma la propaganda filosionista), ma avrebbe fatto altresì emergere una nuova lista costituita dai fuoriusciti da al-Fatah – in opposizione alla leadership ultramoderata di Abu Mazen – guidata da Nasser al-Qudwa (nipote di Arafat) e Fadwa Baghouti, con l’appoggio del popolarissimo Marwan Barghouti (definito “il Mandela palestinese”, nelle carceri israeliane dal 2002 con una condanna all’ergastolo per aver guidato l’Intifada da – allora – leader di Fatah) che avrebbe corso per le elezioni presidenziali contendendo la presidenza ad Abu Mazen. Nel campo israeliano, Netanyahu stava per essere sostituito alla guida del governo dal leader del partito laico-progressista Yesh Atid, Yair Lapid, il quale dovrebbe ricevere l’incarico dal presidente d’Israele Reuven Rivlin per costruire una maggioranza nella Knesset (il parlamento israeliano). La situazione è molto complessa in quanto, se il Likud ha più seggi di tutti, è però in netto calo a vantaggio di forze ultrareligiose e della destra sionista, mentre l’opposizione è frammentata e vede la presenza di liste arabo-israeliane che difficilmente, in questa situazione, potranno sostenere qualsiasi governo se non a condizione di un ripristino dei diritti arabo-palestinesi quantomeno a Gerusalemme Est (impegno che verosimilmente nessun governo israeliano potrebbe assumere nell’immediato). Per ulteriori approfondimenti sulla situazione interna in Israele, segnalo un’ottima analisi di Andrea Vento sulle dinamiche politiche degli ultimi anni, fino ai risultati delle recenti elezioni.
L’improvvisa impennata dello scontro ha consentito a Netanyahu di ripresentarsi come figura centrale nella vita politica di Israele, mentre ha appannato ancora di più la figura di Abu Mazen e permesso a Haniyeh di Hamas di ergersi a difensore dei diritti del popolo palestinese (e perfino degli arabo-israeliani), rivendicando la guida della lotta contro l’aggressore sionista. Il rinvio delle elezioni palestinesi indebolisce ulteriormente le forze laico-progressiste e di sinistra: sarebbe necessario che si svolgessero al più presto le elezioni (chiedendo l’intervento di osservatori internazionali affinché siano garantite le condizioni che permettano a tutti gli arabo-palestinesi di espletare il proprio diritto al voto in sicurezza) per consentire l’emergere di un nuovo gruppo dirigente dell’Olp e dell’Anp capace di contrastare la diffusione di Hamas e ricondurre la lotta per la liberazione della Palestina ad obiettivo politico e non religioso.
Il quadro geopolitico: Israele con le petromonarchie sunnite (Emirati Arabi Uniti Barhein) e la lotta con il blocco sciita (Iran, Hezbollah) e la Turchia di Erdogan
La nuova vampata di violenza in Palestina deve essere inquadrata nel contesto geopolitico dell’area mediorientale: si vanno delineando due schieramenti che si contendono il dominio dell'area, particolarmente importante per il controllo delle fonti energetiche e dei grandi giacimenti petroliferi e al contempo strategico per gli equilibri degli scenari globali nella corsa planetaria alla spartizione dei settori geopolitici, delle rotte commerciali e militari tra l’imperialismo euro-atlantico e le formazioni economico-sociali asiatiche in ascesa (Cina in primis).
Israele ha alzato la posta con l’operazione degli espropri e delle deportazioni delle famiglie arabo-palestinesi da Gerusalemme Est senza che vi sia stata nessuna reazione dei paesi arabi, a parte qualche rimostranza formale, ma evidentemente senza alcuna intenzione di contrapposizione militare. L’area tra il Mar Rosso e il Mediterraneo è interessata da decenni da un processo di pacificazione che vede paesi arabi intraprendere con Israele relazioni diplomatiche (l’Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994); sotto la presidenza Trump, sono stati stipulati gli Accordi di Abramo, firmati da Emirati Arabi e Bahrein (con l’implicito benestare dell’Arabia Saudita) con Israele per avviare rapporti prevalentemente economico-commerciali, propedeutici a più organici trattati di pace.
Gli accordi dovrebbero normalizzare le comunicazioni e i viaggi tra questi paesi, nonché consentire la mobilità (religiosa per gli arabi verso Gerusalemme, turistica per gli israeliani verso le città del Golfo come Dubai) ha interessi ben più ampi: da una parte la possibilità per Israele di creare un’alleanza con i sunniti in chiave anti-iraniana, dall’altra la volontà degli Emirati di acquistare F35 aspirando a diventare una potenza regionale (non solo turistica) tra le petro-monarchie.
Vi potranno essere risvolti importanti anche per i paesi europei: a seguito degli Accordi, una società israeliana (Europe Asia Pipeline Co. – Eapc) ha raggiunto un’intesa per trasportare petrolio verso l’Europa dagli Emirati, con un oleodotto da Eilat sul Mar Rosso al porto di Ashkelon, sul Mediterraneo. Il nuovo baricentro dell’asse mediorientale comincia a delinearsi come assetto strategico anche per la componente europea dell’imperialismo euro-atlantico, oltre alla prospettiva di “normalizzazione” in zone come la Libia, la Siria, lo Yemen.
L’altro obiettivo è quello di costruire un assetto strategico anti-iraniano: nella rappresaglia costruita a tavolino da Netanyahu contro la popolazione palestinese e Hamas, oltre alle questioni interne c’è senza dubbio la volontà di richiamare il presidente Usa Biden rispetto alla riapertura dei negoziati con l’Iran sul programma nucleare, che Trump aveva interrotto. Netanyahu ha così ottenuto che Biden ribadisse il sostegno (mai mancato) a Israele, permettendo così di proseguire nel processo di occupazione di Gerusalemme Est e di espulsione degli arabo-palestinesi dai territori destinati ai coloni, ma anche di frenare la ripresa del dialogo tra Usa e Iran.
La partita è estremamente complessa, e si gioca su più tavoli: da una parte quella di Israele, avamposto dell’imperialismo euro-atlantico in Medio Oriente, retrovia del fronte occidentale nell’area; dall’altra quella tra sunniti e sciiti per il dominio sul mondo musulmano (che potremmo definire la Guerra dei Trent’Anni dell’Islam). In questo quadro assai complicato vi sono anche gli interessi di potenze regionali - come la Turchia di Erdogan, il quale si erge a paladino dei palestinesi nel mondo sunnita – e della Russia di Putin che vuole difendere le posizioni nel Mediterraneo e il ruolo assunto nei conflitti libico e siriano. Infine, sembra che un pensierino cominci a farlo anche la Cina di Xi Jinping, che si è proposto come mediatore nel conflitto israelo-palestinese.
La comunità internazionale e le responsabilità nella crescita del fondamentalismo religioso
L’accusa che gli integralisti islamici (terroristi a prescindere, che siano sunniti come Hamas o sciiti come il movimento libanese Hezbollah) strumentalizzerebbero e sfrutterebbero il popolo palestinese per i propri scopi è la giustificazione sbandierata dalla cosiddetta comunità internazionale (la parte egemonizzata e ricattata moralmente da Usa e Israele, con l’accusa sempre pronta di antisemitismo) rispetto all’attribuzione di responsabilità per il riaccendersi delle “violenze” (eufemismo per mettere tutto insieme e non distinguere le rappresaglie militari israeliane, le risposte con i razzi lanciati sulle città israeliane e le colonie ebraiche, la ribellione arabo-palestinese). Anche la difesa da parte dell’Iran e della Turchia, con l’iniziativa di Erdogan, è stata considerata negativamente: come se non vi potesse essere una presa di posizione internazionale difforme da quella imposta dagli Usa e dettata da Israele. In realtà, la crescita dei movimenti religiosi sono causati proprio dalla mancanza di alternativa che riconosca concretamente e non solo formalmente i diritti negati a popoli martoriati (come i palestinesi, ricordiamo qui anche i kurdi): la “comunità internazionale” è la principale responsabile (quando non direttamente sostenitrice, in un gioco perverso come per la nascita dell’Is) della radicalizzazione, con imposizioni coloniali e imperialistiche che, anziché alimentare processi di emancipazione e liberazione da valori oscurantisti e da confessioni religiose reazionarie, hanno sottomesso i popoli a forme di dominio politico-economico e ideologico-sociale esercitate da dittature filo-occidentali garanti degli interessi delle potenze occidentali. Anche in questo caso, Hamas rappresenta un’ancora per la disperazione del popolo palestinese, mentre le componenti laiche e di sinistra vengono abbandonate al loro destino dalla “comunità internazionale” che teme svolte rivoluzionarie nei processi di liberazione: le lacrime da coccodrillo non faranno che rafforzare i fondamentalismi (soprattutto quelli razzisti e segregazionisti della destra ebraica, oltre a quelli islamici) e acuiranno le contraddizioni, anziché innescare reali processi di pace.
Quale soluzione? Dai “due popoli, due Stati” allo Stato unico (modello Sud-Africa)
In uno scenario sempre più intricato, in cui la partita va ben oltre la terra di Palestina, non è per niente facile individuare un obiettivo realmente realizzabile, ancorché attraverso tappe e step successivi.
La parola d’ordine “due popoli, due Stati”, elaborata sulla base del piano dell’Onu del 1947 (risoluzione n. 181) che divideva la Palestina in due territori su cui costituire lo Stato di Israele (risarcimento fondato sul senso di colpa degli europei per la Shoah) e lo Stato di Palestina, così come il diritto al rientro dei profughi (risoluzione n. 194), sembra ormai inattuabile: le occupazioni che dal 1948 proseguono incessantemente da parte di Israele, stigmatizzate dal 1967 con la risoluzione n. 242 (e da numerose altre, tra cui la n. 2334/2016 del Consiglio di Sicurezza, che ribadisce il non riconoscimento dei confini scaturiti dall’occupazione da parte di Israele dei territori della Cisgiordania, del Golan e di Gerusalemme Est), accompagnate negli ultimi decenni dal processo di colonizzazione affidato a ebrei provenienti prevalentemente dall’Est Europa dopo la caduta del blocco socialiste e la fine dell’Urss, hanno determinato la frammentazione del territorio che dovrebbe costituire lo Stato di Palestina, in cui la popolazione vive segregata in enclave che ricordano l’apartheid sudafricano.
Allo stesso tempo, dismettere l’obiettivo dei “due popoli, due Stati” significherebbe abbandonare la validità giuridica delle risoluzioni (risultate inefficaci nell’applicazione, ma quantomeno riconoscimento di diritti da rivendicare dal popolo palestinese); nella risoluzione del 2012 (voluta da Abu Mazen), con 138 voti favorevoli su 193, la Palestina è entrata nell’Onu come membro osservatore: non è il riconoscimento pieno dello Stato di Palestina, ma dell’entità Autorità Nazionale Palestinese, un passo verso il riconoscimento formale. Pur essendo un territorio martoriato, senza continuità territoriale, diviso in enclave e separato da barriere fisiche (il Muro) e militari (i check-point dell’esercito israeliano per transitare da una città all’altra, persino anche da un quartiere all’altro nella stessa città), la Palestina è riconosciuto come un’entità statale: certo questo può essere considerato una forma di ipocrisia da quella “comunità internazionale” di cui sopra, ma è cmq un punto fermo che Israele vorrebbe eliminare (e che sta cercando di fare con i fatti).
La costruzione di un unico Stato, magari federale, è un progetto che al momento sembra ancor più irrealizzabile, in quanto i sionisti vogliono imporre una visione razzista su base etnica e religiosa (il sionismo è una ideologia ipernazionalista fondata sulla religione, con tratti discriminatori evidenti verso i non ebrei), mentre le forze integraliste come Hamas non riconoscono Israele e ne vorrebbero l’eliminazione (come anche l’Iran), posizione accusata di antisemitismo che suscita reazioni durissime soprattutto nella “comunità internazionale” dilaniata dal senso di colpa (buona giustificazione per nascondere gli interessi imperialisti euro-atlantici che lo Stato di Israele incarna e difende in maniera coloniale nell’area).
Nel frattempo, crescono generazioni di israeliani che iniziano a rigettare la violenza esercitata da polizia e militari nei territori occupati, e profilano una prospettiva diversa: se anche nel campo palestinese le forze laiche e di sinistra, alleandosi con i movimenti rivoluzionari piuttosto che con le componenti moderate, riusciranno a riprendere forza, si potrebbe prospettare l’avvio di un processo analogo a quello avvenuto in Sudafrica, che ha prodotto il superamento del regime segregazionista e razzista dell’apartheid (anche se le contraddizioni etniche e di classe permangono profondamente) e la costruzione di una nuova Costituzione. La differenza è che il Sudafrica non rappresentava un baluardo strategico dell’imperialismo, ma solamente un residuo reazionario da rimuovere: per la Palestina è comunque l’unica alternativa non per distruggere Israele, ma per costruire un processo che porti al riconoscimento reciproco di arabi-palestinesi ed ebrei-israeliani all’interno di un unico Stato democratico e federato.
Una prospettiva che, ancora, non può che passare dal riconoscimento dei diritti negati del popolo palestinese.