Milioni di indiani hanno invaso l’8 gennaio scorso le città di tutti gli stati dell’India, per il più imponente sciopero generale che sia mai stato inscenato nella storia del paese, che già aveva registrato record senza precedenti con le mega-mobilitazioni del 2 settembre 2015 (con circa 120 milioni di lavoratori in marcia), e poi ancora nel settembre 2016 (la bellezza di 180 milioni) e infine con la due giorni dell’8 e 9 gennaio dell’anno scorso.
Mercoledì 8 gennaio, i lavoratori unitariamente in sciopero in tutta l’India e da ogni settore economico, sarebbero stati addirittura 250 milioni. Le strade di Delhi, Mumbai, Kolkata, Patna, Hyderabadh, ovunque una marea di bandiere e di delegazioni in marcia, in rappresentanza di tutte le confederazioni sindacali - che in India sono parecchie, a cominciare dal formidabile CITU, e non sempre d’accordo fra di loro. Fatta eccezione per il RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh) affiliata al partito BJP, ovvero al governo di Narendra Modi, gli striscioni c’erano proprio tutti.
Particolarmente numerose le organizzazioni del settore agricolo, molto colpito dalle politiche liberiste dei vari governi indiani dall’inizio degli anni ’90 in poi e in gravissima sofferenza soprattutto in questi ultimi anni di Governo Modi. Ben 208 diverse organizzazioni, in rappresentanza di 480 distretti, si sono raccolte sotto le bandiere dell’AIFSCC (Comitato di Coordinamento delle lotte contadine in tutta l’India).
Non meno numerose le rappresentanze dell’immenso settore che chiameremmo metalmeccanico: umili minatori, accanto ai meglio ‘qualificati’ operai delle tante fabbriche, acciaierie, impianti manifatturieri, uniti nella stessa protesta contro condizioni di lavoro che in molti casi non hanno mai conosciuto un vero e proprio contratto e sono spesso classificate come lavoro schiavista dalla stessa ILO (l’Organizzazione internazionale del lavoro).
Ma a sfilare negli stessi oceanici cortei, ecco anche le legioni di impiegati, insegnanti, ferrovieri, dipendenti del settore pubblico, persino impiegati di banca - lavoratori insomma di settori più formalmente ‘garantiti’, ma non meno vulnerabili nel quadro della generale svendita e privatizzazione di assets importanti per l’economia dell’India.
Per tutti il Bharat Bandh (Grande Mobilitazione) dell’8 gennaio, ha fornito l’occasione per rivendicare migliori condizioni di lavoro, sullo sfondo di un’economia che è da tempo in contrazione. Indici di crescita in discesa da tempo, declinante potere d’acquisto di salari da sempre troppo esigui, disoccupazione dilagante: contrariamente alle promesse di Narendra Modi, l’India definita ‘shining’ solo pochi anni fa, ha inaugurato il nuovo anno in un clima di incandescente tensione, soprattutto per quella vasta popolazione di studenti che è stata protagonista, nelle ultime settimane, di vari episodi di protesta contro la cosiddetta Legge di Cittadinanza, approvata dal Parlamento Indiano l’11 dicembre scorso.
E non a caso infatti erano moltissime le organizzazioni studentesche che, da una sessantina di Università in tutto il paese, si sono unite ai lavoratori in marcia, non solo per esprimere la loro solidarietà ai lavoratori, ma per segnalare appunto le preoccupanti dimensioni della disoccupazione giovanile, sullo sfondo di una stagnazione economica che è tra l’altro causa di un insostenibile caro-vita.
Non sono mancati ovviamente i momenti di tensione: a Patna, capitale dello stato settentrionale del Bihar, la polizia ha disperso i dimostranti che occupavano il centro-città a colpi di canna di bambù, tutto sommato meno letali dei lacrimogeni di casa nostra; a Kolkata, in varie città dell’Odissea, come in Assam, gli scioperanti hanno dovuto stendersi sui binari per bloccare il passaggio di alcuni treni; e blocchi stradali si sono verificati praticamente ovunque. Ma il maggior impatto, diciamo pure ‘danno’, si è registrato nelle varie zone industriali: ovunque chiusura completa degli impianti, sia per i grandi marchi del settore auto (Honda, Maruti Suzuki & Co), come per il mosaico delle medie e piccole industrie concentrate soprattutto alla periferia di Delhi e Mumbai.
La risposta del governo di Narendra Modi dinnanzi a una mobilitazione di questa magnitudine è stata tipicamente indifferente. Sul tappeto, oltre alla rivendicazione di migliori salari e condizioni di lavoro, c’è quella contro la messa in discussione dello stesso diritto di sciopero.
Un nuovo disegno di legge, in attesa di approvazione al Parlamento indiano, avrebbe infatti l’effetto di modificare radicalmente il quadro (già così sofferente) delle relazioni industriali nel sub-continente, rendendo ancora più difficile qualsiasi attività sindacale in India. E già oggi, nonostante l’esistenza dei sindacati, non si contano le fabbriche a tutti gli effetti operative come campi di concentramento: vere e proprie fortezze, sorvegliate giorno e notte da guardie armate, pressoché impossibili da penetrare. La mano d’opera in tutti questi casi viene ‘assunta’ senza alcuna tutela, spesso importata da territori lontanissimi, privata di documenti e costretta a lavorare per ripagare il ‘debito’ del viaggio, o del precario ricovero messo a disposizione dai padroni - condizioni di totale disumanità.
E in queste precarie condizioni, che la stessa solidarietà di classe viene meno, e cresce invece la tensione sociale. E la guerra tra poveri diventa, come ben sappiamo, il terreno fertile per ogni genere di soprusi, o fascismi. Anche in questa luce dunque, l’enorme partecipazione al Mega-Sciopero dell’8 gennaio, può essere considerata un enorme e significativo successo.