Le vicende che hanno tenuto al centro dell’attenzione per settimane il popolo greco e il governo Tsipras si sono risolte drammaticamente con un epilogo che lascia scontenti da più parti. È comunque l’occasione per analizzare la natura dell’UE, le tensioni conflittuali tra imperialismi nazionali e la lotta di classe su scala nazionalista e europeista che determinano le dinamiche all’interno dell’eurozona.
di Giovanni Bruno
Le vicende che hanno tenuto al centro dell’attenzione per settimane il popolo greco, il governo di Syriza e il tandem Tsipras-Varoufakis si sono risolte drammaticamente in una specie di “terza via” al ribasso, che lascia scontenti da più parti. È comunque l’occasione per studiare la situazione analizzando una volta di più, alla luce di quanto accaduto (e in prospettiva cercando di capire quanto potrà ancora accadere), la natura dell’UE, le tensioni (economico-politiche) conflittuali tra imperialismi nazionali e la lotta di classe su scala nazionalista e europeista che determinano le dinamiche all’interno dell’eurozona, nella più ampia comunità europea (con le zone periferiche in funzione di colonie di fatto, che qualche “Stranamore” - di cui è espressione Schäuble – avrebbe voluto diventasse anche la Grecia), e infine nell’alleanza sempre più in espansione e aggressivamente protesa verso est che è la NATO.
Considerare l’operato di Tsipras un “tradimento” o l’azione di un “venduto”, è poco significativo, esprime insipienza politica e non consente di comprendere le reali dinamiche in cui si muove la “sinistra europea”: certamente Tsipras, forte del consenso raggiunto nel referendum in cui ha stravinto il NO e che ha usato per rafforzare la sua posizione non riuscendo a scalfire le linee politiche dell’eurogruppo (probabilmente sapeva già da prima che non sarebbe riuscito in questo intento: il referendum è stato una sorta di plebiscito per condividere con il popolo l’unica strada possibile per mantenersi dentro la moneta unica, avendo scartato l’incognita della Grexit), ha cambiato la linea del suo governo, ha disgregato Syriza emarginando prima Varoufakis, poi Piattaforma di Sinistra, ha accettato i voti delle opposizioni di Nea Demokratia, Pasok e To Potami (con la formazione di una maggioranza delle larghe intese alla greca), e infine dovrà avviare riforme che provocheranno una inevitabile svolta moderata nell’ambito della “sinistra europea”.
Senza cadere nel massimalismo ed evitando di esprimere giudizi inopportuni sull’operato di Tsipras (sia di censura che, altrettanto inutili, di appoggio incondizionato, come inopinatamente ha fatto Ferrero in questi giorni, forse per presentarsi come “responsabile” di fronte ai distributori di carte della Costituente della sinistra, Civati e Vendola/Fratoianni), ed esprimendo una doverosa solidarietà ad Alexis Tsipras e al governo di Syriza (che hanno condotto una battaglia letale, un corpo a corpo mortale con il mostro imperialista dell’UE per riuscire a rimettere in discussione i rapporti di forza nell’Eurogruppo, senza riuscire a scalfire la pelle della Bestia), bisogna invece capire se e quali errori siano stati fatti, più che nella trattativa, rispetto alla linea politica (obiettivo di riforma dell’eurozona, referendum sul testo di Junker, accettazione del diktat finanziario) e come cambia la situazione dell’UE con questa battuta d’arresto della “sinistra europea”, al primo vero test di governo con l’esponente simbolicamente più significativo, l’ex candidato a Presidente della Commissione Europea per il GUE: appunto, Alexis Tsipras.
La partita del governo greco è stata durissima, non si è ancora conclusa e comunque è una sconfitta subita da chi, quantomeno, ha tentato, illudendosi che l’UE possa essere riformabile, che i trattati potessero essere rivisti, che fosse possibile introdurre elementi di contraddizione con l’obiettivo di cambiare, in prospettiva, le politiche europee e i principi del rigorismo economico e dell’austerità. La sconfitta è sonora e insegna, una volta di più, che non esistono margini di riformismo in questa fase storica, nell’Unione Europea, nella moneta unica dell’euro.
Ho sempre sostenuto in questi anni che il problema non fosse l’uscita dall’Euro, in quanto tornare a sovranità monetaria con governi e/o regimi borghesi avrebbe potuto esporre i Paesi a politiche di chiusura xenofoba, iper-nazionalista, fino ad avventure filofasciste, mentre la questione principale è invertire i rapporti di forza tra borghesia alta/piccola e settori popolari/ceti medi impoveriti (in via di proletarizzazione), sia all’interno che a livello europeo. Ho finora ritenuto che - pur considerando impossibili riforme del sistema e del meccanismo monetario - aprire la battaglia per allentare la morsa dell’austerità, rivedere alcuni parametri del rigorismo economico, porre la questione della revisione dei trattati (non della disobbedienza, concetto inconsistente) potesse diventare un cavallo di Troia per accumulare forze antiliberiste e, più coerentemente, anticapitaliste per affrontare la guerra di classe in atto, su scala europea e mondiale. Ritenevo che la prospettiva di uscita dall’euro come orizzonte di lotta di classe fosse impraticabile, e che semmai se ne sarebbero avvantaggiate le forze della destra estrema, neofascista e neonazista, come dimostra chiaramente la presenza di queste organizzazioni nei governi dei Paesi della cintura coloniale dell’UE come la Lituania, Lettonia, Estonia, o candidati ad esserlo come l’Ucraina.
In questo senso, la battaglia di Syriza e di Tsipras è parsa, non solo ai sostenitori dell’Altra Europa, ma anche a settori critici verso la “sinistra europea”, un primo passo verso un’accumulazione di forze popolari e di classe per poter sfidare con una massa critica adeguata il moloch (meno compatto di quel che non si creda, come hanno dimostrato anche le tensioni interne durante le trattative con Tsipras) dell’UE e dell’euro. Purtroppo, sarà per le dimensioni della Grecia, sarà per l’inconsistenza politica della Sinistra Europea, sarà infine per la mancanza di coordinamento politico e la debolezza strutturale in molti Paesi, tra cui l’Italia, di una sinistra anticapitalista (o anche solo antiliberista), la partita è finita con una sonora sconfitta, e la svolta moderata in atto a cui abbiamo accennato precedentemente.
Tuttavia, dobbiamo inoltre chiarire che il problema non è la Germania in sé: non è possibile continuare con un’analisi di stampo nazionalistico perché, se è pur vero che in questo momento la Germania sta conducendo una politica di colonialismo e imperialismo a bassa intensità (cioè con gli strumenti economico-finanziari e non militari) verso i paesi dell’Europa mediterranea, analogamente a quanto accaduto nel 1989-90 con la DDR e in seguito con i paesi dell’Europa Orientale, non si può neppure dimenticare che è il PPE nel suo insieme, con l’appoggio sconsiderato e interessato del PSE, a fornire il sostegno politico inter-nazionale alle politiche di rigore fiscale, di austerità, di privatizzazione e svendita del patrimonio pubblico e di smantellamento (e appalto/vendita ai privati) dei servizi essenziali (sanità/diagnostica, istruzione/recupero, università/formazione, trasporto e mobilità, ). È il PPE con le sue componenti nazionali quando affidabili, altrimenti con i governi “tecnici” o prestanome di area socialista-democratica, che distribuisce le carte e detta legge sulla zona euro, al di là delle conseguenze.
Chi servono? Sono al servizio dell’arricchimento delle classi parassitarie, speculativo-finanziarie, e degli strati aggrappati alla greppia dei dominanti spiega chiaramente in nome di chi agiscono i governi dell’eurozona: le risibili reazioni di alcuni stati membri, come Francia e Italia, a fronte dell’aggressività tedesca e dei paesi satelliti del Nord-Europa, evidenziano che la speculazione si annida in tutti i paesi, perfino in quella Grecia tartassata in cui non solo stranieri e banche, ma anche gli armatori e l’indotto a loro collegato, si sono finora arricchiti sulle spalle della popolazione. Certo, le banche franco-tedesche hanno grandi responsabilità, ma l’alta borghesia greca ha determinato il disastro con una evasione fiscale incontrollabile e politiche incoerenti e peggiorative.
Il governo di Syriza aveva rappresentato una speranza che, in una situazione drammatica, si è accartocciata come il guscio di un uovo.
Cerchiamo allora di comprendere quanto sta accadendo: è chiaro che l’irriformabilità del sistema capitalistico ha raggiunto in UE l’apice, impedendo anche tiepide politiche di riformismo keynesiano, figuriamoci socialdemocratico o addirittura di politiche alternative. È solo per l’ottusità della Germania di Merkel e del Ministro delle Finanze Schäuble che si procede in questa direzione, o non è piuttosto che la stessa Germania agisce così in quanto essa stessa è giunta ad un punto di non ritorno (di sovrapproduzione di merci e, ormai, anche di capitali) e cerca di tutelarsi scaricando la propria crisi interna (produttiva e speculativa) sui paesi deboli, a partire dalla Grecia?
Se così fosse, la giostra non si è certamente fermata, ma vi saranno ulteriori problemi innanzitutto per la Grecia (a cui arriveranno, con un meccanismo di usura speculativa “legalizzata”, alcuni miliardi per pagare la rata del debito in scadenza con il FMI e poi altri per le rate del debito con le banche sovrane, quelle sì, dei Paesi europei, solidali a parole come l’Italia, interessati a riprendersi i lauti interessi dei prestiti erogati attraverso i dispositivi di salvataggio delle banche creati da UE e BCE) e per altri, tra cui noi: ricordiamo che il siamo ad oltre il 120% del rapporto tra debito e PIL (il doppio del consentito in eurozona), che abbiamo inserito in Costituzione il pareggio di bilancio, che entro due anni dovremo tagliare cento miliardi di spese (pensioni, sanità, scuola, servizi pubblici) per iniziare il rientro secondo le regole folli imposte dall’eurozona (che, non dimentichiamo, non è un’entità aliena, ma un’accolita di ministri e funzionari dei vari Paesi che scelgono come strozzare i propri popoli).
Il bagno di sangue imposto alla Grecia è pronto anche per noi: i profitti in calo scatenano gli spiriti animali di tutte le borghesie europee, che tentano di galleggiare nonostante il perdurare della crisi di sistema, spolpando le ricchezze altrui, ma certo non disdegnando quelle interne. La svendita alle multinazionali delle attività dei servizi pubblici, della gestione dei “beni comuni”, del patrimonio immobiliare e dei “gioielli di famiglia” produttivi (Finmeccanica, Ansaldo) non è solamente la perdita di ricchezze a vantaggio di potenze straniere, ma soprattutto la redistribuzione della ricchezza interna a vantaggio dei piraña delle borghesia nazionali.
A fronte di questa situazione sommariamente descritta, e riconosciuta l’impossibilità di linee alternative antiliberiste (non risolutive, ma politicamente significative) con l’obiettivo di “correggere” o “mitigare” le politiche capitalistiche del rigore fiscale e dell’austerità economica, si pone la questione di quale sinistra, nazionale ed europea, sia possibile in questo contesto.
Il fallimento riconosciuto ormai universalmente della socialdemocrazia, stampella di politiche indicate dal PPE e dettate dalle borghesie imperialiste nazionali e dalle oligarchie sovranazionali, non basta a delineare una alternativa: la linea della Sinistra Europea, con Syriza in prima fila nella guerra di classe tra Paesi dell’eurozona, che puntava a ridiscutere le politiche economiche e i trattati ha fallito. Anche un riformismo inteso tatticamente come accumulazione di forze parrebbe, ormai, impraticabile: la Grecia è stata trattata come il Cile del 1973 o, come sostiene Varoufakis, ha subito un golpe politico-finanziario (quello militare sarebbe improbabile nell’attuale contesto dell’UE, che preferisce ricorrere a strumenti altrettanto violenti e altrettanto, evidentemente, efficaci).
La partita in gioco per i popoli europei, e soprattutto per le classi sociali popolari e proletarie di questo continente (e del suo esercito industriale di riserva, i migranti), non può essere più nell’orizzonte del riformismo gradualista, né di un “neoliberismo temperato” né tantomeno quello di un “capitalismo dolce” di stampo neo-keynesiano, ma in quello del rovesciamento del sistema, con un brusco ribaltamento dei rapporti di forza tra le classi. Poiché non basta enunciare il principio perché questo accada, occorre che si lavori per un programma realmente alternativo, che veda nel controllo degli apparati statali da parte delle masse popolari l’obiettivo prioritario, rilanciando il principio dell’autodeterminazione dei popoli (parola d’ordine molto più chiara rispetto al presunto e ambiguo obiettivo della riconquista di “sovranità”).
Occorre ripartire da una chiarificazione delle prospettive, di un programma chiaramente anticapitalistico, evidenziando che solo un’economia programmata e pianificata potrà fare uscire dalla crisi economica i Paesi dell’UE. Ciò significa che le forze della “sinistra europea”, i comunisti innanzitutto, non possono più permettersi di dividersi tra un massimalismo “sovranista” che predica l’uscita dall’euro come panacea da un lato, e il riformismo impraticabile dell’UE che indica l’obiettivo nella riformabilità dell’euro. Occorre una vera e propria azione di ricomposizione politico-sociale del fronte anticapitalista, promosso dai comunisti, comunque organizzati, su scala nazionale ed internazionale.