Recentemente un grande regista e attento osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”. L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale importanza. Coglie, infatti, l’assoluta centralità della questione della diffusione tra le masse popolari dello scontento, della frustrazione e della rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita: la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di massa e le devastanti politiche di austerità sono gli ingredienti della montante insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
Gli ultimi anni di crisi hanno conosciuto una forte delegittimazione popolare dell’UE. L’Unione – e, tra i paesi dell’area euro, la moneta unica - è vista dai popoli europei – a ragione – sempre più come uno dei principali ostacoli alla tutela dei diritti dei lavoratori, alla giustizia e al progresso sociale. Tanto è diffuso il discredito che lo stesso presidente della Commissione Europea ha parlato di una “vera crisi esistenziale”.
Ma è bene fare attenzione a che tipo di critica si formula: sul fatto che l’UE sia da sempre una costruzione istituzionale antidemocratica non vi sono dubbi. I metodi decisionali seguiti a livello comunitario ce lo ricordano di continuo. A dimostrarlo vi sono inoltre i quasi quotidiani scandali che riguardano le massime autorità comunitarie: da J.C. Juncker che ha favorito per anni l’evasione fiscale, a J.M. Barroso che dopo l’incarico da presidente della commissione è passato senza colpo ferire a lavorare per Goldman Sachs.
La presa d’atto di queste “disfunzioni” e peccati di origine sui meccanismi di funzionamento, tuttavia, non ci aiuta a elaborare un benché minimo programma politico per mutare i rapporti di forza. E’ necessario cioè qualificare il nostro dissenso verso l’UE partendo da un’analisi della natura di classe delle istituzioni comunitarie. Partendo da tale natura va letto anche il rifiuto che l’UE incontra tra i lavoratori e le lavoratrici.
La tentazione a sinistra di criticare l’UE come architettura istituzionale anti-democratica salvandone però una inesistente ispirazione “internazionalista”, intesa come progetto di federazione dei popoli europei, è da sempre una tentazione irresistibile. Una tentazione che nelle articolazioni più progressiste, sia politiche che sindacali, ha fatto leva su concetti quali quello di modello sociale europeo (MSE).
Insomma, i paesi europei come un ideale spazio comune caratterizzato da avanzati sistemi di welfare e di diritto del lavoro. Mentre il concetto di MSE, come è stato notato, non ha alcuna utilità analitica, tuttavia esso ha – purtroppo – ricoperto una specifica funzione di sostegno alle politiche neoliberiste europee: l'immaginario relativo ad una supposta (ma inesistente) comune “Europa Sociale” ha fatto da contraltare – proprio mentre gli stessi sistemi di welfare venivano progressivamente smantellati - a fondamentali indirizzi di riforma che con il supporto normativo e ideologico dell’Ue sono stati attuati nei vari contesti nazionali: mercato comune, riduzione della progressività fiscale; liberalizzazione nei movimenti internazionali dei capitali; riduzioni e restrizioni dei sistemi di sussidio alla disoccupazione; progressiva eliminazione delle protezioni contro i licenziamenti; decentralizzazione della contrattazione salariale; eliminazione dei meccanismi di indicizzazione salariale (com’è il caso della scala mobile in Italia); privatizzazione delle imprese pubbliche ed esternalizzazione dei servizi pubblici locali. E la lista sarebbe anche più lunga. Ma, soprattutto, il risultato è stato una enorme perdita di potere contrattuale dei lavoratori e, con essa, una progressiva e altrettanto sensibile perdita di quote di ricchezza sociale a tutto vantaggio di profitti e rendita. Esattamente l’antitesi di qualsiasi progetto di creazione di un’area caratterizzata da alti standard di politiche sociali: per sintetizzare l’importanza del ruolo ideologico svolto dal MSE è possibile citare una celebre frase di J. Delors, ex Presidente della Commissione Europea: “you cannot fall in love with a common market”.
D’altra parte tutto questo non è frutto di contingenti scelte politiche di destra, poiché avviene in un contesto internazionale di crisi organica del capitalismo non risolvibile con ricette “socialdemocratiche” fatte di semplici palliativi di sostegno al consumo, qualche briciola di redistribuzione o con l’illusione di poter “temperare” il neo-liberismo o “democratizzare” istituzioni antidemocratiche non elette e che sono espressioni degli interessi sovranazionali di settori del capitale finanziario, quali BCE e Commissione Europea.
Dentro questo solco i governi dei paesi della UE (soprattutto quelli più deboli, i cosiddetti PIIGS) stanno procedendo spediti nel loro programma di smantellamento dei diritti e del welfare, di attacco ai salari, concessione al padronato della mano libera sulla manodopera flessibile e precaria e di limitazione della democrazia alla funzione di servizio alle esigenze del grande capitale (vedi deforma costituzionale di Renzi). Con il ricatto del debito si sta procedendo a un ulteriore gigantesco spostamento coatto di ricchezza dal lavoro al capitale per tamponare gli effetti della crisi e il restringimento dei profitti. Coi vincoli dei Trattati euro-monetaristi (Maastricht, Lisbona, Six Packs ecc...) ed euro-atlantici (Nato, TTIP, CETA ecc…) si stanno comprimendo i salari verso i livelli di sussistenza, aumenta la disoccupazione di massa, si incentiva la tendenza alla guerra e alle spese militari, si cancella ogni possibilità di controllo degli scambi commerciali.
Anche a partire dall’esperienza greca, bisogna prendere atto allora che il Piano A, la riforma in senso anti-liberista delle istituzioni europee, è fallito ed è inattuabile perché le istituzioni europee o sono liberiste o non sono. I vincoli di Maastricht, Lisbona ecc... lo sanciscono nero su bianco e nella lettera dell'Ottobre scorso, indirizzata alla sinistra italiana, anche Oskar Lafontaine faceva notare che “voler cambiare i trattati [attendendo] la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico”.
Ma come radicare oggi a livello nazionale uno spazio politico e sociale che, in una connessione internazionale di lotte, si ponga in una prospettiva alternativa al modello europeo della UE e della BCE? Non si può che partire dalla domanda se sia possibile oppure no, restando all'interno dei vincoli dell'eurozona, applicare politiche alternative di redistribuzione verso il basso, recuperare parte della produttività di questi decenni andata unicamente a vantaggio delle imprese per una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, rilanciare investimenti pubblici e pubblicizzazione dei settori strategici sotto controllo popolare, sostenere i salari, contrastare precarietà, disoccupazione e disuguaglianze sociali, difendere l’ambiente dalla distruzione della valorizzazione capitalistica del territorio, aprire a politiche di integrazione e solidarietà coi popoli che migrano, chiudere con le politiche di guerra che generano questi esodi, ecc...
Il modello a cui fa riferimento la UE e che i suoi Trattati impongono è unicamente quello della competitività internazionale dell’Eurozona basata sulle capacità di traino dell’economia tedesca e delle sue esportazioni. E' un fatto che se il “treno” è quello, alla compressione dei salari e del welfare operati dalla “locomotiva” tedesca segua gioco-forza quella ancora più selvaggia degli altri “vagoni”, in primis dei Paesi dell'Europa del Sud, con il risultato che in questo periodo di crisi l’economia dominante tedesca (dati Eurostat) è riuscita grosso modo a tutelare i suoi livelli di produzione industriale mentre l’Italia ha perso una quota del 25%, la Spagna del 30% e la Grecia addirittura del 35%. Inoltre l'indebitamento delle banche viene sempre scaricato sulle spalle degli Stati, costretti a nuovi tagli e privatizzazioni oltreché al rispetto dei “vincoli europei”. Così come è chiaro ormai che la logica monetarista dell’eurozona è finalizzata a costruire una “gabbia” che imponga la compressione dei salari e favorisca le esportazioni tedesche. In qualche dichiarazione stampa lo stesso Renzi ha cercato far vedere che si possono allentare questi vincoli e ricontrattare un po' le “rate” del debito al fine di giocarsela come vittoria di fronte a un elettorato italiano. Alla fine però, col placet di Confindustria, ha applicato le misure di austerity richieste. In questo quadro il cappio dei vincoli europei al collo di popoli e classi lavoratrici può essere in qualche caso allentato, ma non tolto.
Bisognerebbe ormai prendere atto che una qualsiasi idea di Europa sociale e dei lavoratori è impossibile all’interno dell’architettura liberista delle istituzioni della UE.
E invece, in direzione opposta, l’eco delle posizioni pro “Europa sociale” si è evidenziato con forza anche a sinistra nel caso del recente referendum britannico, il cosiddetto referendum sulla Brexit. Le posizioni post referendum si sono concentrate, sia a destra che a sinistra, sulla denuncia del carattere xenofobo e reazionario della scelta compiuta dal popolo britannico, in parte ovviamente vera ma che descrive un effetto esteriore e nasconde le cause reali di questo malcontento.
Da una parte, le forze di centrodestra e centrosinistra europee – ossia quello che è stato definito l’arco delle forze di “estremo centro” – dopo una martellante campagna terroristica sui mali dell’uscita dall’UE ha cercato di archiviare l’accaduto come uno dei frutti del crescente “populismo”. Non sono mancate inoltre vere e proprie espressioni di disprezzo della volontà popolare e, soprattutto, di disprezzo di classe verso la pretesa inadeguatezza “culturale” dei lavoratori e lavoratrici britannici a decidere su temi che sfuggirebbero alla inevitabile superficialità, inciviltà ed emotiva rozzezza popolare: giovani londinesi, raffinati cosmopoliti e fautori convinti del “remain” vs alticci operai e disoccupati delle zone deindustrializzate e periferiche dell’Inghilterra e del Galles.
Seppur con toni differenti, non sono mancate – anche a sinistra dei partiti socialdemocratici – argomentazioni che hanno tentato di spiegare il risultato come un enorme abbaglio delle masse popolari britanniche, preda della propaganda reazionaria dell’Ukip e degli altri sostenitori del “leave”. Per inciso la parte sinistra dei laburisti (con in prima fila J. Corbyn) nel corso della campagna referendaria ha fatto più volte ricorso alla tesi dell’Europa sociale. Secondo il leader laburista l’UE è “garanzia dei diritti sociali dei lavoratori britannici” (?!)
In sintesi i precari con bassi livelli di istruzione, i disoccupati che dipendono dall’assistenza sociale, i lavoratori manuali a bassa qualifica e gli anziani pensionati a basso reddito – spaventati e confusi dalle tesi sull’impossibilità di gestire il fenomeno migratorio nel quadro della UE – hanno optato per l’uscita.
Questo ragionamento è decisamente superficiale e risulta viziato da un macroscopico errore di analisi: è senz’altro vero che il grosso delle posizioni per l’uscita era caratterizzato da una strumentalizzazione del fenomeno dei flussi migratori. Non solo. A ben vedere si trattava – come sempre in questi casi - di tesi che si alimentavano di false teorie sulla volontà dei migranti di sfruttare il welfare britannico a discapito proprio dei cittadini della GB.
Ciò non elimina ovviamente la necessità di comprendere le radici sociali del Brexit così come della sfiducia totale nei confronti della UE. Ma tali radici vanno cercate nella progressiva perdita di sicurezze economiche sul posto di lavoro e nella frustrante consapevolezza di doversi confrontare con un welfare pubblico sempre più misero e in cronica mancanza di risorse che le direttive della BCE e i vincoli dei Trattati europei hanno imposto. Radici che quindi, essenzialmente, esulano da una mera deriva razzista che, semmai, rappresenta uno sbocco compatibile di tale insofferenza, perchè rivolge verso il basso, tra le classi subalterne, l’insoddisfazione sociale, in assenza di una chiara alternativa anticapitalista che indirizzi il conflitto verso l’alto, nei confronti delle classi dominanti e del modello economico-sociale attuale.