O si rompe con il meccanismo infernale del debito, ponendosi nella prospettiva dell’estromissione dall’euro e dalla stessa UE, e si fa pagare il costo della crisi a chi la ha provocata, oppure si chiedono nuovi prestiti, accettando il meccanismo infernale del debito che impedisce spese sociali e presenta il conto della crisi a chi ne ha sinora subito i devastanti effetti. Nel primo caso si dovrà affrontare la violenta reazione della borghesia nazionale e internazionale, nel secondo caso si finirà con il perdere progressivamente la credibilità acquisita a tutto vantaggio del populismo di destra.
di Renato Caputo
Syriza, Podemos venceremos. Il noto slogan lanciato da Pablo Iglesias nella campagna elettorale greca al fianco di Tsipras ha fatto immediatamente breccia nel popolo della sinistra italiano. Niente di strano visto che nella sua semplicità, immediatezza, chiarezza è indubbiamente efficace per un popolo di sinistra che negli ultimi 35 anni è passato da una sconfitta all’altra.
Non altrettanto scontato è che tale slogan sia stato fatto immediatamente proprio anche da una parte consistente di chi aspira a essere avanguardia di questo popolo, indicandogli come soluzione delle contraddizioni della società capitalista la prospettiva di una rifondazione del comunismo.
Nell’attuale clima di campagna elettorale in Spagna, l’offerta dei dirigenti di Izquierda Unida (IU), coalizione egemonizzata dal Partito comunista spagnolo (PCE), di un’alleanza elettorale della sinistra di alternativa, è stata sdegnosamente rifiutata da Pablo Iglesias, leader maximo di Podemos. Nonostante che l’alleanza della sinistra di alternativa abbia consentito, nelle recentissime elezioni amministrative, la vittoria nelle principali città spagnole ai danni della destra e del partito socialista, Podemos ha chiuso a qualsiasi forma di cooperazione con Izquierda Unida, asserendo: «Che si tengano la bandiera rossa e ci lascino in pace. Noi vogliamo vincere».
Ed ecco svelato da parte del suo stesso ideatore il pericolo insito in uno slogan tanto efficace nella sua immediatezza. Un’attitudine minimamente riflessiva, da parte di chi aspira a divenire avanguardia del popolo della sinistra, avrebbe dovuto portare altrettanto immediatamente a domandarsi: potremo forse vincere, ma che cosa?
In primo luogo, evidentemente, con le elezioni potremo vincere una battaglia e non la guerra. L’alternanza di governo garantita dalla democrazia borghese consente, in determinati casi, alle forze della sinistra di poter governare per un certo periodo un paese, che non significa affatto conquistare il potere. Si tratta al contrario di tentare di governare da sinistra, una macchina statale ideata per salvaguardare il modo di produzione capitalistico, fondato sulle crescenti diseguaglianze sociali fra una minoranza che vive nel lusso senza aver bisogno di lavorare, in quanto sfrutta a proprio vantaggio la grande maggioranza della società che tanto più lavora, quanto meno potere reale di acquisto possiede. Tanto più nel caso in cui si tratta di governare un paese che è parte integrante della più potente alleanza economico-militare imperialista della storia, e che mira, attraverso la Nato, ad imporre con la violenza gli interessi dei paesi a capitalismo avanzato al resto del mondo, schiacciando con armi sempre più micidiali chiunque non sia pronto ad adeguarsi al pensiero unico dominante.
Proprio per questo i classici del marxismo, Lenin in primis, hanno sempre messo in guardia i dirigenti del popolo della sinistra dalle piccole ambizioni di gestire il potere per conto dello Stato capitalista e ancora di più imperialista. In tal modo, infatti, si perde qualsiasi credibilità dinanzi alla massa dei subalterni, la cui fiducia si finisce inevitabilmente per tradire. Il penoso declino della sinistra radicale del nostro paese, tragico portato di due sciagurati governi di un paese imperialista, è lì a dimostrarlo.
Tornando allo slogan da cui siamo partiti e al contesto spagnolo, è necessario riportare quanto osservato in una recentissima intervista da Cayo Lara, dal 2008 coordinatore federale di IU, e tra i massimi fautori dell’alleanza elettorale della sinistra di alternativa, sotto l’egemonia di Podemos, per contrastare il bipolarismo, ossia l’alternanza al governo fra il centro-sinistra e il centro-destra della grande borghesia. Dinanzi al giornalista che lo incalza, osservando: “Se aveste intercettato meglio e prima il malcontento della popolazione, adesso occupereste il posto di Podemos” [1], Lara fa notare che prima dell’emergere di Podemos, ancora alle ultime europee, IU e il PCE erano in forte e rapida crescita e avevano prospettive ancora più incoraggianti. La crescita è divenuta presto declino e le prospettive sono divenute scoraggianti con il rapido affermarsi di Podemos. Ma quali sono i fattori principali che hanno portato nel giro di pochissimo tempo a trasferire le simpatie del popolo della sinistra dai comunisti spagnoli a Podemos? Lara individua il fattore principale, che definisce “costitutivo”, nella “duttilità ideologica che permette” a Podemos “di adattare il discorso politico alle circostanze” [2]. Tanto che tale partito a momenti si pone decisamente a sinistra della maggioranza della sinistra radicale spagnola e anche italiana, rifiutando le alleanze di governo con il centro-sinistra della grande borghesia, altre volte si distingue poco dal populismo di forze come il M5S. Subito dopo, fra i fattori principali, Lara sottolinea i fattori esogeni, ossia il sostegno dato, alla sostituzione di IU da parte di Podemos alla dirigenza del popolo di sinistra spagnolo, da parte della società civile borghese. Quest’ultima, grazie al controllo dei grandi mezzi di comunicazione, anche presunti di sinistra, “ha generato un effetto chiamata che ha aperto a Podemos uno spazio mediatico enorme: più grande”, sostiene ingenuamente Lara, “di quello che abbiamo mai avuto noi in tutta la nostra storia”. In altri termini Podemos è riuscita a scalzare e a mettere in un angolo Iu grazie a “l’appoggio esplicito dell’establishment, che preferisce incarnare il malcontento in una forza liquida come Podemos piuttosto che in una ideologicamente marcata come IU” [3].
Passiamo ora al più avanzato scenario greco. Qui come è noto l’alleanza postcomunista di Syriza ha ottenuto un notevole successo elettorale, grazie alla netta rottura con il centro-sinistra borghese e ai grandi movimenti di lotta dei lavoratori. Ciò gli ha permesso di costituire un governo, sebbene in coalizione con una formazione politica esplicitamente di destra. Questa vittoria ha galvanizzato il popolo di sinistra e ancora di più i suoi dirigenti italiani, che hanno visto in Syriza un modello vincente, quella sinistra di governo a cui ormai da anni aspirano [4].
Cosa è avvenuto in seguito è noto. Come la storia insegna l’accesso al governo di un paese o di un grande centro capitalista è generalmente reso possibile da una grave crisi della gestione borghese, che altrimenti, controllando le istituzioni dello Stato, della società civile, i grandi mezzi di comunicazione, con il sostegno dei poteri forti e di leggi elettorali ad hoc non può che imporsi nelle tornate elettorali. In tal modo però l’attività di governo della sinistra è da subito gravemente osteggiata in primo luogo dal diabolico meccanismo del debito, che consente ai creditori, capitalisti nazionali o internazionali, di dettare legge dal decisivo punto di vista economico, vanificando la democrazia formale borghese. In secondo luogo dinanzi a qualsiasi misura a favore delle classi dominate e, dunque, a sfavore delle classi economicamente dominanti, è osteggiata da operazioni speculative che portano a far fuggire dal paese verso nuovi paradisi fiscali i capitali nazionali e internazionali.
Tutto ciò impedisce oggettivamente di governare indirizzandolo a sinistra lo stato capitalista, in modo particolare nella sua fase imperialista. Inoltre le misure speculative e il controllo dell’opinione pubblica, da parte dei mezzi di comunicazione privati, controllati del capitale, mette rapidamente in difficoltà l’egemonia da poco conquistata dalla sinistra.
A questo punto la sinistra di governo si trova necessariamente dinanzi a un bivio, accettare la logica infernale imposta dal nemico di classe, e quindi gestire la crisi per conto del grande capitale, continuando a farne pagare i costi ai lavoratori, giocandosi la credibilità conquistata quando si era all’opposizione, oppure operare una rottura radicale dell’ordine costituito, aprendosi così a una prospettiva potenzialmente rivoluzionaria.
Il nodo principale resta quello del debito e di chi deve pagare i costi della crisi. Evidentemente se si accetta il meccanismo del debito, si chiedono nuovi crediti, non si può che sottostare alle condizioni dei creditori che necessariamente impongono alti tassi di interesse, che impediscono le politiche sociali, e ogni misura volta a far pagare i costi della crisi non a chi la ha provocata, scaricandoli su chi la ha subita e ne sta pagando da anni i durissimi effetti. Tertium non datur.
Al contrario rompere con il meccanismo del debito significa aprirsi a degli scenari necessariamente rivoluzionari e di conseguenza contro-rivoluzionari. Evidentemente chi non ne accetta le regole sarà quasi certamente estromesso dal sistema economico dominante in Europa che si regge sulla moneta unica e più in generale sull’Ue. Evidentemente se ci si ostina a presentare quest’ultima come l’unica possibilità di una società benestante, libera e democratica, difficilmente si potrà chiedere al proprio popolo di accollarsi i rischi che un’uscita, al momento in solitaria, da questo contesto imporrebbe.
Da tale punto di vista illuminante è l’intervista rilasciata dall’ex ministro Yanis Varoufakis a Harry Lambert del “New Stateman” [5]. Varoufakis, decisamente più lucido ora che è stato estromesso dal governo [6], sostiene apertamente che l’unica alternativa alle misure capestro e apertamente antipopolari imposte dall’Unione europea in cambio di nuovi crediti, sarebbe il prepararsi a “un Grexit in modo appropriato” [7]. Tuttavia, Varoufakis sa bene che la sinistra di governo non ha “tutte le competenze tecniche e finanziarie per gestire l’uscita della Grecia dall’euro”. Evidentemente fra il pensare, il dire e il fare c’è di mezzo il mare, per cui Varoufakis pur sostenendo di aver pensato “alla Grexit fin dal primo giorno”, non può che ammettere di non averla preparata a sufficienza. “Avevamo un piccolo gruppo, un ‘gabinetto di guerra’ al ministero fatto da 5 persone. Ci siamo preparati sulla carta, in teoria, ma una cosa è parlarne tra 5 persone, un’altra preparare un’intera nazione. Serviva un ordine esecutivo per farlo. Che non è mai arrivato. Io pensavo che non dovessimo essere noi a decidere per il Grexit” [8].
Qui non si tratta tanto di un’opinione soggettiva, ma di una necessità oggettiva. Evidentemente se il popolo greco non è stato adeguatamente preparato, formato dagli intellettuali, dalle avanguardie a tal compito preposte, non potrà mai da solo spingersi su una strada tanto impervia. Una strada che, come ricordava Lenin, porterà certamente benefici all’intero genere umano, ma potrebbe comportare per il popolo che per primo apre questa nuova strada, di cui tutti abbiamo bisogno, enormi difficoltà e sacrifici. Al contrario abbiamo assistito a una costante apologia dell’Unione europea, e alla costante ripetizione della menzogna per cui era possibile riformare l’Unione europea, rimanere nell’euro, e al contempo uscire dall’austerity, rilanciando la crescita economica, realizzando ambiziose politiche sociali, redistribuendo il debito dall’alto verso il basso.
Che tali menzogne possano essere strumentalmente utilizzate da politici greci in chiave populista è anche comprensibile, anche se certamente non giustificabile, che siano invece pappagallescamente ripetute dai dirigenti della asinistra italiana non può che riportarci alla mente quanto sostenevano gli antichi greci: “gli dèi accecano coloro che vogliono perdere”. Peggio per loro si potrebbe dire, se tali dirigenti non avessero condotto il popolo della sinistra italiana da una disfatta all’altra.
Note
[1] “Un patto di unità popolare”. Intervista – Cayo Lara (Izquierda unida) e il “modello Barcellona” per le politiche, in “Il manifesto” del 15/7/2015, p. 5.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem. Detto fra parentesi decisamente grotteschi sono i discorsi, che tendono a emergere anche all’interno di quanto resta della tradizione comunista in Italia, che inneggiano al superamento della forma partito, assumendo la forma liquida di Podemos. Si tratta, mutatis mutandis, del discorso di M. Cacciari, per cui la sinistra per potersi affermare deve il più possibile coincidere con il modello vincente della destra.
[4] Si tratta di una delle principali eredità del processo che ha portato alla dissoluzione del Pci, compiutosi proprio nel momento in cui qualsiasi riferimento al comunismo è stato considerato d’impaccio alla costituzione di una sinistra di governo.
[5] Nonostante la solidarietà e la simpatia che oggi proviamo per questo ministro estromesso dal governo su esplicita richiesta della parte più aggressiva dell’imperialismo europeo, non possiamo che osservare come ancora una volta siamo dinanzi al fenomeno per cui ci si ricorda che la verità è rivoluzionaria solo nel momento in cui si è estromessi dal potere e, quindi, si è persa la possibilità di far seguire alle buone intenzioni i fatti.
[6] Non a caso, su questo giornale, ai tempi in cui era ministro, è stato pubblicato un articolo dall’emblematico titolo “Le Confusioni di un marxista eccentrico. Note a margine” dell’economista Francesco Schettino, http://www.lacittafutura.it/mondo/europa/le-confusioni-di-un-marxista-eccentrico-note-a-margine.html.
[7] Harry Lambert, intervista a Varoufakis, in New Statesman, trad. it. da “Il manifesto” del 14 luglio 2015.
[8] Ibidem.