Chi ha recentemente affermato che i modesti risultati delle prove INVALSI dimostrerebbero la scarsa qualità dei professori italiani - soprattutto in relazione alle drammatiche prove in professionali e “scuole di frontiera” - probabilmente non è mai entrato in una di queste scuole o, se lo ha fatto, ha capito poco o niente di come funzionano le cose. In Italia ci sono dei pessimi professori? È sicuramente vero. Nell’esperienza scolastica di chiunque si annovera qualche personaggio più unico che raro, egregio rappresentante del mondo dell’incompetenza o con delle spalle tondissime. Per capire quali professori rispondano a questo identikit sono necessari studi pedagogici, sofisticate tecniche o procedure altamente formali? No, in genere basta parlarci cinque minuti, anche informalmente, per chiarirsi le idee. Pare evidente che non ci sia alcuna intenzione di individuarli (e non si nascondono). Ciò detto, se ne può dedurre che tutti i professori siano così? Be’, questo è semplicemente senza senso e, evidentemente, offensivo per un’intera categoria. Parlare delle persone senza i contesti è una facile scorciatoia e un modo per non affrontare davvero le molte questioni sul tavolo.
Prendiamo le famigerate scuole di frontiera, i professionali. Il nostro professore, per lo più supplente, viene mandato incontro a un branco (purtroppo quasi mai in senso metaforico) di ragazzi in genere non scolarizzati (nel senso che non riescono a stare a sedere per più di dieci minuti, non sanno rispettare le regole minime di una conversazione, a stento conoscono la lingua italiana), interessati alla scuola come un vegetariano alla carne, con capacità di attenzione modeste. Spesso sono anche parecchi. È come andare in una gabbia di leoni affamati armati di sgabello giallo dell’ikea e righello di plastica morbida da 20 centimetri. Sfido chiunque, soprattutto i nostri cari amici espertoni, a raggiungere gli egregi risultati che si auspicano. E che ovviamente non vengano a fare una lezione sull’inclusione spiegando quali tasti, quali tecniche ecc. ecc… no... devono venire in classe e vedere loro che bella figura fanno; e che belle facce espressive che hanno quando escono dopo le prime lezioni. Ci sarà poi anche l’educatore super talentuoso che apre bocca e ammalia i popoli, però, guarda un po’, la scuola è un’istituzione di massa e i professori-fenomeno sono rari; abbastanza inutile quindi additare il campione, ci vogliono invece delle procedure efficaci generali. Non si tratta nemmeno, ovviamente, di dare la colpa ai ragazzi, che sono le prime vittime di un contesto socio-culturale che non dipende certo da loro e nel quale si trovano invischiati loro malgrado. Ma senza lavorare sui meccanismi del contesto con una strumentazione sia umana, sia tecnica idonea, non si fa un passo avanti.
Dal lato educativo, i problemi di base da cui partire sono molto semplici: in una situazione scolastica del genere un professore, semplicemente, può fare molto poco. Tutte queste classi “di frontiera” hanno problematiche di ogni tipo: cognitive, sociali, comportamentali, di integrazione, ecc. ecc. In ogni classe, se va bene, ci sono svariati casi certificati (e gli altri, ricordo, sono in media scarsamente scolarizzati). Per non parlare ovviamente di quelle zone in cui si deve aggiungere la delinquenza vera e propria. Queste scuole, quindi, sono potenzialmente il luogo in cui l’integrazione e il recupero potrebbero effettivamente avvenire; a questo fine tuttavia ci vogliono i mezzi e in questo, evidentemente, non si vuole investire: larga parte dell’organico è supplente, viene nominato di anno in anno a programma già avviato, a volte addirittura dopo mesi interi. L’anno successivo si ricomincia da capo. Sono supplenti moltissimi dei docenti del sostegno che, spesso, non hanno il titolo ma hanno dato comunque la loro disponibilità. Quasi tutti, curricolari e sostegno, cercano di fare del proprio meglio, ma nessuno di loro è psicologo, assistente sociale; queste professionalità non si inventano dalla mattina alla sera e i poveretti si trovano costretti a improvvisarsi in un ruolo che non è il loro. Ma dato che siamo a ballare, si cerca di farlo nel modo migliore possibile. I risultati, inevitabilmente, sono quelli che sono. In una situazione del genere si configurano inevitabilmente alcune tipologie di docente: il missionario, che, nonostante tutto, vuole fare il possibile per i ragazzi e si sfinisce; il fuggitivo, che, non appena se ne presenti l’occasione, lascia il professionale per un altro tipo di istituto; il rassegnato, che, abbandonata qualunque velleità educativa, tira ad arrivare alla fine del mese. Bisogna capire che non è solo indole, sono contesti. Quindi, invece di pontificare stolidamente: che si regolarizzino i precari, che si formino i docenti del sostegno, che si aggiungano all’organico psicologi, assistenti sociali e via dicendo, figure che regolarmente assistano quelle tipologie di studenti che si trovano in una forte condizione di disagio sociale, psicologico, culturale. La scuola, adesso, semplicemente non è nelle condizioni di affrontare queste situazioni. Ci si accontenta di tenere i ragazzi in classe, se ci si riesce; di più, in media, non è possibile fare.
Non ci si deve neppure ingannare sull’importanza pratica dell’educazione, ecc. ecc. Questi ragazzi sono convinti che non “serva” a niente e, spesso, è difficile dar loro torto. Le probabilità di avere “successo” nella vita per loro sono legate di più alla presenza sui social, dove magari vincono la lotteria e una delle bischerate che si sono inventati fa il botto. Il luccicante mondo dello spettacolo, da “Amici” a “Tik tok”, non solo non ha niente a che fare con la scuola, ma quest’ultima è addirittura controproducente perché dovrebbe fornire gli strumenti per capire che si tratta di effimere sciocchezze. E poi c’è il docente stesso, laureato ma, nella sostanza, un povero sfigato che guadagna poco, fa un lavoro di m… scarsa soddisfazione, o almeno così è percepito dagli studenti che non si fanno problemi a dirti: “io non voglio mica diventare come lei”. Le prospettive lavorative legate allo studio purtroppo sono quelle che sono ed è difficile spiegare perché lo si dovrebbe preferire rispetto alla scommessa del successo effimero, scommessa che altri, in tutto e per tutto identici a loro, hanno vinto proprio per il loro non avere qualità particolari, non saper far niente di speciale, non avere niente da dire, ecc. Perché mai imparare qualcosa, a dire, a fare? Non solo non è utile, è controproducente. Del resto leader politici di primissimo piano non sono laureati, ministri non sono diplomati, altri taroccano il curriculum aggiungendosi titoli inesistenti, altri hanno posizioni per meriti diciamo non politici… dov’è l’esempio pubblico di alto livello che mostra l’utilità dell’impegno, dello studio, ecc. ecc.? Infine, nella società di squali in cui si trovano a vivere, dove il motto mors tua vita mea è la regola fondamentale del gioco, promuovere i valori costituzionali di solidarietà, uguaglianza sostanziale, ecc., il rispetto reciproco, ecc. ecc. mette in una posizione di debolezza, di difficoltà competitiva rispetto ai simpatici stronzi che ci circondano. Bisogna impare a essere stron… competitivi pure noi! Diciamo che il prossimo tuo, più che un fratello, è un competitor, e poco evangelicamente piuttosto che amarlo bisogna essere pronti a temerlo e, al momento giusto, sopraffarlo.
La scuola così (dis-)organizzata è dunque un anello di un ingranaggio complesso, che parte da alcune premesse generali legate allo stadio “crepuscolare” di sviluppo del modo di produzione capitalistico. Lavoro per tutti, nel senso di lavoro che valorizzi il capitale, non ce n’è. La massa di esclusi è grande e crescente. La produzione di neo-plebe, nel senso di una pletora di esseri umani cui il sistema non riesce a dare un ruolo attivo nella riproduzione sociale e che sopravvive al suo interno nelle forme più variegate, è una tendenza sistemica. Le dinamiche di gestione di questo complesso stato di cose pongono la scelta tra alternative possibili, che riguardano non solo la scuola, ma la dinamica sociale nel suo complesso. Le determinanti sovrastrutturali nel riassorbimento della massa di disoccupati divengono una questione squisitamente politica, ovvero si può cercare di compensare il processo attraverso politiche economiche e sociali che spostino la grande quantità di ricchezza disponibile dal plusvalore o dalla rendita al salario (diretto o indiretto) per la creazione di possibilità che, a dispetto della loro incapacità di valorizzare il capitale, forniscano un lavoro e permettano l’espletamento di attività sociali necessarie se non, in certi casi, essenziali. È questa una scelta non da estremisti comunisti, ma socialdemocratica, borghese progressista, cristiano-sociale. Oppure si può assecondare il processo e, nel caso specifico, favorire la formazione di una neo-plebe culturalmente azzerata che si immagina più facile da manipolare; una manipolazione che tuttavia è tutt’altro che scontata e rischia di esplodere in forme riottose e violente in particolari occasioni di crisi (anti-sistema, ecc.). I potenziali esiti estremi di questo processo sono già evidenti, per es., in alcuni paesi dell’America latina, dove, a fronte di una povertà debordante, si assiste a fenomeni di vero e proprio brigantaggio che rievocano un passato ottocentesco che ormai si immaginava superato definitivamente. Il ribellismo, nelle sua varie forme criminali, anarcoidi e via dicendo, raramente però si configura come forza politica alternativa e quindi, alla fine, dal punto di vista delle classi dominanti è decisamente preferibile. La questione di fondo è in sostanza se le classi dirigenti si trovino in una condizione in cui valorizzare il capitale non consenta più, strutturalmente, forme organiche e culturali di direzione o egemonia, in cui esse si impongano per coercizione e comando; se questa è la scelta, ciò appare decisamente più semplice in una società atomizzata, ignorante e priva di soggetti organici. La domanda è ovviamente se un sistema possa stare in piedi basandosi solo sul dominio, senza forme di direzione/egemonia. È stata questa una tentazione costante delle classi dirigenti italiane, ma adesso la questione potrebbe essere di scala, vale a dire che la scelta dirigistica si potrebbe delineare non come una opzione per i capitalismi periferici, ma come un problema strutturale di sistema anche delle economie più sviluppate.
Avere una scuola più o meno funzionante è un ingranaggio di questi processi, soprattutto per quegli istituti che hanno a che fare con la popolazione scolastica sulla soglia di scivolare nella neo-plebe o essere “recuperata” in una dimensione di cittadinanza attiva. Se si desse un orientamento, da dettato costituzionale, volto all’inclusione sociale - che implica dunque garantire i diritti fondamentali per tutto l’arco della vita di un individuo, a partire dalla scuola per poi passare alla vita lavorativa vera e propria e quindi alla pensione, ecc. ecc. - il primo e più semplice passo da compiere è, molto prosaicamente, investire, partendo da quanto si suggeriva in precedenza (stabilizzare i precari, formare il corpo docente e del sostegno, affiancare professionisti come psicologi, ecc. ecc.). È una scelta politica di fondo sul futuro che, in poche parole, coincide più o meno con il contenuto sociale della Costituzione. Promuovere una scuola - e una società - coerente col dettato costituzionale costituisce oggi un vero e proprio programma politico, che purtroppo nessun partito di caratura nazionale pare voler far proprio.