Componente decisiva della tragedia è la catarsi che permette di tesaurizzare le esperienze vissute, per quanto dolorose, individuando delle soluzioni progressive. Dinanzi all’ulteriore verifica dell’impossibilità di governare da sinistra la crisi delle società a capitalismo avanzato, diviene indispensabile ricostruire un’opposizione antimperialista. Tale opposizione ha bisogno di un’avanguardia compatta, determinata e radicale, il che chiama necessariamente in causa la questione della ricomposizione dei comunisti in Grecia, ma anche in Italia.
di Renato Caputo
Se fino a questo momento, per quanto concerne la questione greca, abbiamo dato il più ampio spazio all’ottimismo della volontà, è ora venuto il momento di tenere conto del pessimismo della ragione. In effetti, sino a quando la partita era ancora aperta e il governo greco si trovava praticamente isolato a condurre il necessario confronto-scontro con l’Unione Europea era necessario serrare i ranghi e sostenere tale coraggioso sforzo. Soprattutto vivendo e operando in un paese come l’Italia, oggi purtroppo molto più arretrato della Grecia dal punto di vista dei rapporti di forza nel conflitto fra capitale e forza lavoro. Dunque, fatte le debite proporzioni, appariva sensato preoccuparsi in primo luogo della trave nel nostro occhio piuttosto che occuparsi della pagliuzza nell’occhio della sinistra greca. Tanto più che la componente maggioritaria della sinistra radicale del nostro paese aveva fatto la scelta malaugurata di legare le proprie sorti al nome di Alexis Tsipras.
Purtroppo la linea seguita da Syriza, sotto la direzione di Tsipras, ha tentato sino all’ultimo di tenere una contraddizione destinata inevitabilmente a esplodere, ossia farla finita con l’austerità, ridistribuire le ricchezze ai lavoratori, senza però rompere con la logica liberista che da sempre domina l’Unione Europea. Se tale contraddittoria posizione ha indubbiamente pagato in termini di consenso elettorale – dal momento che tale prospettiva appariva ingenuamente preferibile, fra le masse prive di una coscienza adeguata di classe, sia al salto nel vuoto di una rottura con l’Ue, sia alla continuità delle politiche di austerità – nel medio periodo non poteva reggere. La prospettiva di un accordo fra gentiluomini nelle trattative con l’Unione europea o del confronto scientifico fra due concezioni dell’economia si è rivelata da subito impossibile. Chi difende i propri privilegi, come denunciava già il giovane Hegel [1], non è certo disponibile a metterli in questione sulla base del semplice dialogo, ma fa valere tutto il peso dei rapporti di forza favorevoli.
Così il governo greco si è trovato dinanzi a una scelta, che aveva tentato vanamente di procrastinare sino a quel momento, accettare le regole neoliberiste dell’Unione Europea che impongono la continuità della logica dell’austerità, volta a far pagare i costi della crisi ai ceti sociali e ai paesi subalterni, o aprire un conflitto aperto, correndo il rischio di arrivare a una rottura con l’Ue. La necessità di sacrificare una delle due componenti del proprio programma non poteva che portare Syriza alla spaccatura. Dinanzi alla sinistra comunista intenzionata a dare la priorità alla lotta all’austerità e a una destra, apertamente socialdemocratica, intenzionata a rimanere a ogni costo all’interno dell’Unione Europea, l’ala centrista di Syriza ha lasciato la patata bollente agli elettori, con il referendum, in qualche modo rinunciando al proprio ruolo di avanguardia.
Come è noto le masse greche in questo caso si sono dimostrate maggiormente risolute di una parte delle proprie avanguardie, indicando in modo piuttosto netto la strada della rottura con l’infausta logica dell’austerità. Ciò nonostante l’ala centrista maggioritaria in Syriza non se la è sentita di farsi carico di questa indicazione “rivoluzionaria” e ha preferito spendere il proprio ancora vasto consenso popolare nella linea riformista del confronto con la logica liberista dell’Unione Europea. In tal modo la componente centrista ha dovuto rinunciare al proprio ruolo di equilibrio fra le due anime del partito, sacrificando colui che aveva incarnato questa contraddittoria sintesi: Yanis Varoufakis. In questa tragica decisione non poco hanno influito le posizioni della direzione della Sinistra europea, da sempre in netta maggioranza schierata con questa utopica soluzione mirante a riformare l’Unione Europea.
Tale scelta non poteva che portare la maggioranza del partito a ricercare il sostegno della destra liberista greca, per poter seguire questa linea senza curarsi del necessario dissenso della sinistra. Già prima delle elezioni la scelta di non mettere in programma lo scontro con l’Unione Europea aveva significato l’impossibilità di un qualsiasi accordo con la componente più ortodossa e radicale della sinistra greca, rendendo, dopo le elezioni, necessario l’accordo di Syriza con la destra di Anel. Se prima e subito dopo le elezioni tale scelta poteva essere comprensibile, il che non significa giustificabile, per le posizioni spesso decisamente settarie dell’ala ortodossa e radicale della sinistra, ora questa scelta non può che entrare, almeno nel medio periodo, in contraddizione con il blocco sociale che ha consentito alla sinistra di affermarsi elettoralmente.
Tanto più che la decisione, dopo il successo nelle elezioni politiche, di risolvere la contraddizione classica nella sinistra fra gli opposti pericoli del riformismo di destra e dell’opportunismo di sinistra, varando un governo di coalizione con la destra militarista e xenofoba non ha certo favorito l’azione di governo e la realizzazione del mandato popolare ricevuto dal proprio blocco sociale. Tale scelta e la successiva concessione alla destra della presidenza della Repubblica e del decisivo ministero della Difesa, in un paese uscito da non troppi anni da una dittatura militare di estrema destra, indicava chiaramente la rinuncia in partenza a ogni rottura radicale dello status quo.
Ciò si è tradotto in un’azione di governo che non ha invertito la tendenza rispetto ai governi precedenti. Così, ad esempio, non si sono messe in discussione l’appartenenza alla Nato o i muri costruiti in funzione anti-immigrati. Inoltre, insieme a misure volte ad attenuare alcuni dei più radicali tagli dei governi precedenti, come la chiusura della televisione greca, il governo guidato da Tsipras ha preso decisioni decisamente discutibili. Ad esempio non solo ha confermato, ma ha addirittura rafforzato la cooperazione militare con un governo israeliano ostaggio dell’estrema destra sionista [2].
Dal punto di vista economico e sociale il governo ha rimesso parte significativa della propria sovranità nelle mani della troika per i prossimi anni, in cambio di finanziamenti destinati a ripagare il debito internazionale e a finanziare le banche, fra i principali responsabili dell’attuale tragedia greca. Per fare ciò non ha esitato dinanzi a nessuna delle richieste della destra europea, che contravvengono in pieno all’esito del referendum e al proprio mandato elettorale, compresa la caduta dello stesso governo Tsipras. Tali misure non potevano, infatti, essere sostenute dalla componente non riformista del partito che ha fatto perdere la maggioranza al governo, destinato a ricorre al sostegno della destra liberista.
Non a caso l’accordo è stato difeso dai rappresentanti della grosse Koalition tedesca, compreso Schäuble, davanti ai settori populisti di destra del parlamento, come una totale sottomissione del governo greco alla logica di austerità della troika. Al punto che né il governo tedesco, né la destra ellenica manifestavano l’esigenza di nuove elezioni in Grecia, di cui ha invece urgente bisogno il centro-destra di Syriza per non perdere il consenso popolare, nel momento in cui il peso dei tagli della politica di austerità si faranno pesantemente sentire. Tanto più che per conquistarsi il sostegno del governo tedesco e della destra greca, la maggioranza di Syriza non ha esitato a tradurre in legge precedenti impegni presi dai passati governi di tagliare le pensioni minime, già al di sotto della soglia di povertà, e di svendere il settore pubblico a partire da ben 14 aeroporti ceduti proprio ai tedeschi.
Tale tragedia greca si è riprodotta in forma farsesca nello sconclusionato panorama della sinistra italiana. La componente maggioritaria di quest’ultima ha difeso a spada tratta tutti i cedimenti, comprese le vere e proprie abiure, della maggioranza di Syriza, i cui principali esponenti hanno giustificato il ritorno alle urne proprio perché, come ha ribadito da ultimo il ministro degli interni, fedelissimo di Tsipras, «Syriza, in questa fase, è chiamata ad attuare un programma per il quale non è stata eletta» [3]. L’aspetto davvero imbarazzante è la giustificazione apportata da chi si candida nel nostro paese a seguire le orme di Tsipras, che avrebbe avuto il merito di svelare la natura liberista e non democratica dell’Unione europea. Siamo davvero alla scoperta dell’acqua calda, scritta nero su bianco su tutti i trattati firmati in sede Ue, almeno dal Trattato di Lisbona (2007) in poi. Senza dimenticare che lo stesso Parlamento europeo, per statuto, non ha alcun potere effettivo, essendo un organo meramente consultivo [4].
In tal modo i vertici dell’ala maggioritaria della sinistra radicale italiana finiscono per svelare un altro enigma, che rischia di essere ancora un segreto di Pulcinella – considerato che la maggior parte di essi ha avuto incarichi di rilievo nei due governi Prodi – ossia la natura della sinistra di governo che intendono ricostruire. Una sinistra che rischia di ripercorrere il cammino non solo dei diversi governi socialdemocratici europei – spesso appoggiati dagli (euro)comunisti – che a livello nazionale e locale non hanno fatto altro che gestire la crisi per conto di chi la aveva provocata e la sfruttava a proprio fine per rilanciare l’accumulazione di capitali ai danni di chi la aveva subita. Sarebbe, dunque, più sensato sostenere, che la breve parabola del governo greco dimostra per l’ennesima volta, se ce ne fosse bisogno, quanto sottolineava già Gramsci ormai circa un secolo fa, ossia che la socialdemocrazia dalla destra del movimento dei lavoratori è divenuta l’ala sinistra dello schieramento borghese ed è, dunque, indispensabile che i comunisti sviluppino lo spirito di scissione. Non a caso lo stesso Lenin considerava preferibile un’affermazione elettorale dei riformisti, proprio perché governando avrebbero mostrato alle masse il loro vero volto.
Alla luce dell’ennesimo fallimento delle politiche riformiste e socialdemocratiche i comunisti dovrebbero ripartire proprio dallo spirito di scissione nei confronti di chi si candida a governare la crisi e le politiche di austerità per conto dei poteri forti, garantendo il contenimento del conflitto sociale. Tale scissione dovrebbe invece favorire la ricomposizione di un ampio fronte antiliberista volto a contrastare tali tentativi di anestetizzare la lotta di classe quale unico antidoto alla crisi. A tale scopo però il fronte ampio antiliberista, per non ripercorrere la tragica parabola conclusasi con la scissione di Syriza, dovrà essere egemonizzato dalle forze anticapitaliste. Tale ricompattamento delle forze impegnate sul fronte sociale nella lotta al capitalismo passa per il ricompattamento politico delle forze comuniste, che individuano nella transizione al socialismo l’unica alternativa progressista alla crisi del capitalismo.
Certo in paesi dove attualmente la coscienza di classe è più sviluppata come la Grecia tale obiettivo appare maggiormente praticabile, nonostante le oggettive difficoltà a ricostruire un’unità di azione fra le principali forze rivoluzionarie, dalla sinistra di Syriza, ai comunisti greci del KKE, ad Antarsya. Da questo punto di vista un primo segnale importante viene dal lancio di Unità popolare che raggruppa diversi settori della sinistra di classe, a partire dagli esponenti della Piattaforma di sinistra che hanno rotto con Tsipras. In Italia il percorso della ricomposizione comunista quale presupposto per il tentativo delle forze anticapitaliste di egemonizzare un ampio schieramento antiliberista contro ogni forma di governance della crisi, appare più lungo e accidentato. Vale, tuttavia, la pena di fare un tentativo in questo senso, anche perché fra breve potrebbe essere troppo tardi [5].
Note
[1] «Il particolarismo, il privilegio e l’eccellenza, sono qualcosa di così profondamente personale, che il concetto e la comprensione della necessità sono sempre troppo deboli per operare sull’azione stessa; concetto e comprensione attirano una tale diffidenza su di sé, da doversi giustificare con la violenza affinché l’uomo si sottometta loro» (G. W. F. Hegel, Werke, I: 581).
[2] Inoltre la gestione della tragedia dell’immigrazione è stata gestita nel peggior modo possibile, rinchiudendo in uno stadio i disperati, fuggiti dalle guerre di aggressione prodotte proprio dalla Nato e dalla destra israeliana, e lasciandoli poi caricare violentemente dalla polizia. Al punto da far levare le proteste non solo delle organizzazioni umanitarie, ma paradossalmente della stessa Unione Europea.
[3] Dichiarazione di Nikos Voutsis riportata da Il manifesto del 21/8/2015 pag. 2, quotidiano non certo prevenuto nei confronti del governo greco.
[4] La contraddittorietà di tale posizione appare, nel modo più evidente, dal fatto che tale merito potrebbe essere riconosciuto a qualsiasi altro governo socialdemocratico che si è dichiarato costretto ad applicare le misure di austerità imposte dalla troika. A tale proposito non stupisce l’identità di proposte per risolvere, in questo delicato frangente, la scarsa democraticità dell’Ue, formulate da Tsipras e da Pittella, presidente del gruppo dei socialisti e democratici a Bruxelles, secondo cui la realizzazione delle politiche economiche ultra-liberiste imposte dalla troika e accettate dal Parlamento greco dovrebbero essere sottoposte al controllo anche dell’Europarlamento. In tal modo verrebbe alla luce un nuovo clamoroso segreto di Pulcinella: il Parlamento europeo è dominato da posizioni liberiste e anti-democratiche.
[5] Tanto più che se tale tentativo non sarà fatto o dovesse fallire, non ci sarebbe altra strada che puntare a costruire – secondo le indicazioni fornite dai classici del marxismo (Marx, Engels, Lenin ecc.) per i paesi in cui i comunisti sono troppo deboli per fare parte per sé – una frazione comunista all’interno di un più ampio contenitore politico guidato da forze riformiste e democratiche, peraltro in via di ricostruzione nel nostro paese.