La democrazia rappresentativa è generalmente considerata una conquista storica ascrivibile all’ascesa della borghesia nella sua fase rivoluzionaria. Eppure tale categoria politica è dotata di una doppia natura: una natura teorica, nata nelle riflessioni filosofiche del liberalismo inglese e francese e riassumibile nella definizione datane da Benjamin Constant – che la distingue dalla “democrazia diretta” espressione della “libertà degli antichi” – e una natura real-politica, la cui concretizzazione non è stata posta in atto dalle forze politiche espresse dalla borghesia, come pretendono le letture apologetiche della storia del liberalismo [1]. Essa è stata piuttosto una realizzazione ottenuta in seguito alla spinta propulsiva “dal basso” (ovvero dal movimento organizzato delle classi subalterne) da parte dei movimenti rivoluzionari del XX secolo.
A titolo di esempio basti pensare al fatto che in Italia il suffragio universale maschile e femminile venne introdotto solo in seguito alla sconfitta del nazi-fascismo nella seconda guerra mondiale, alla caduta della monarchia e all’avanzata dei partiti di massa protagonisti della Resistenza, grazie alla cui lotta si era prodotto un bilanciamento nei rapporti di forza tra le classi sociali. Tale spinta era inoltre ovviamente ispirata a un orizzonte di allargamento della base sociale della democrazia tale da ampliarla rispetto alla mera presenza di istituzioni rappresentative, sulla base dell’esempio dei Soviet nella Russia rivoluzionaria o dei consigli di fabbrica nel corso del “biennio rosso”. Oltre a ciò era ben chiaro ai movimenti social-comunisti che a una democrazia formale e istituzionale debbano essere affiancati quei diritti sociali che soli danno sostanza alla democrazia e senza i quali essa rimane lettera morta.
Pur essendo restrittiva rispetto all’orizzonte ideale della democrazia consiliare, la democrazia rappresentativa ha costituito nella seconda metà del secolo breve la cornice entro cui sono state formalizzate tutte le maggiori conquiste, in termini di diritti sociali e tutele del lavoro dipendente, delle classi subalterne occidentali, basti pensare allo Statuto dei lavoratori, ottenuto all’apice dell’ascesa delle organizzazioni delle classi dominate.
Non è un caso quindi che, a partire dagli anni ’80, con il nuovo rovesciamento dei rapporti di forza a livello nazionale e internazionale e con la restaurazione neo-liberale che ne è conseguita, all’attacco contro i diritti sociali e contro l’intervento regolatore dello Stato nell’economia è stato affiancato il graduale svuotamento delle stesse istituzioni rappresentative. In sintesi, sono quattro i piani attraverso cui si è prodotto tale risultato:
1) Legge elettorale maggioritaria: con il passaggio dal proporzionale puro all’attribuzione di quote di seggi – a seconda dei vari paesi più o meno ampie – attraverso il maggioritario si è ottenuta la transizione a una forma di bonapartismo carismatico [2], caratterizzata da contese elettorali in cui elemento decisivo, piuttosto che il radicamento di un partito o la credibilità del candidato presso gli elettori, risulta essere la capacità di “bucare lo schermo”, ovvero di ricorrere a slogan di immediato effetto attraverso tecniche persuasive mutuate dal linguaggio televisivo e pubblicitario [3].
2) Delegificazione: con tale termine si intende il processo attraverso cui il ricorso alla decretazione d’urgenza diviene sempre più frequente fino a sottrarre all’intervento della legislazione ordinaria interi settori, provocando in questo modo il trasferimento della sede del potere decisionale dal parlamento all’esecutivo, reso sempre più comitato d’affari delle classi dominanti.
3) Istituzioni sovra-nazionali: abbiamo assistito negli ultimi decenni al trasferimento di importanti competenze all’Unione Europea, in cui non solo il potere decisionale è esercitato per lo più da istituzioni irresponsabili verso i cittadini, ma in cui per giunta la politica economica e monetaria è nelle mani di un’istituzione di carattere privato (la Banca Centrale Europea).
4) Monopartitismo competitivo [4]: definizione che descrive il sostanziale appiattimento dei partiti di centro-destra e di centro-sinistra verso le medesime posizioni ultra-liberiste al di là di mere distinzioni di facciata. In Italia abbiamo infatti assistito a partire dal pacchetto Treu fino al Jobs Act a una sequela di misure univoche volte alla precarizzazione del lavoro dipendente con la cancellazione dei diritti sociali che erano stati frutto delle decennali conquiste del movimento operaio.
All’interno di tale quadro sommario va considerata ciò che da noi è stata definita deriva sondocratica, ovvero la sovraesposizione mediatica dei sondaggi di voto che inducono implicitamente gli elettori-spettatori a votare per quei partiti apparentemente più quotati a raggiungere la maggioranza relativa e a “vincere” le elezioni, tralasciando il fatto che tale vittoria è sempre più un illusione se rimane nel quadro di una politica che rinuncia alla sua funzione regolatrice delle dinamiche socio-economiche. È lo stesso Nando Pagnoncelli, amministratore delegato della Ipsos-Italia e autore di uno dei sondaggi più seguiti, a sottolineare il rischio “che i sondaggi e le ricerche di mercato divengano mezzo di persuasione più che di spunto, che finiscano per creare quelle opinioni che avrebbero dovuto esclusivamente misurare”.
Pressoché superfluo è evidenziare che a usufruire principalmente di questo ausilio sono proprio le forze politiche responsabili del regresso sociale vissuto dal nostro paese. Il richiamo al “voto utile”, reclamato da una parte e dall’altra come sostegno alla stabilità e spacciato come argine “moderato” agli “opposti estremismi” [5], è pienamente funzionale al mantenimento dello status quo. Ciò vale per il Pd come per LeU, che annovera tra le sue fila personaggi compromessi con i precedenti governi, insieme ai quali fino a ieri hanno votato ogni misura anti-popolare da essi proposta.
Contro tali mistificazioni, è necessario reclamare a gran voce che l’unico voto veramente “utile” è il voto a chi non solo rappresenta ma vive in prima persona i nostri interessi di classe, di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e pensionati. L’unico voto veramente “utile” è il voto a chi vuole dare voce alle lotte perché quelle lotte porta avanti ogni giorno nel proprio contesto sociale. L’unico voto veramente “utile” è il voto a chi vuole il Potere al Popolo!
Note:
[1] Si osservi che ancora tra il 1875 e il 1917, ovvero nell’arco di tempo che segue l’epoca definita da Eric J. Hobsbawm il “trionfo della borghesia”, in tutti i maggiori paesi del mondo liberale e capitalistico il suffragio rimane rigidamente ancorato a criteri censitari con l’esclusione totale delle donne. Il primo grande paese in cui il diritto di voto viene esteso universalmente è la Russia sovietica.
[2] Cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; L. Canfora, Democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004.
[3] In Italia tale processo è stato ancor più profondo che altrove in seguito all’avvento di Forza Italia nel 1994.
[4] D. Losurdo, [1993], pp.292-295.
[5] C’è da sottolineare che in realtà l’unico reale bersaglio risulta essere la sinistra, dal momento in cui l’estremismo di destra e filo-fascista è già stato inglobato nella coalizione detta di centro-destra.