Sabato 14 gennaio, nell’ultimo giorno utile, si è riunito il Consiglio dei Ministri per approvare il decreto legislativo che istituzionalizza il “sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni”. Una svolta complessa che sarà trattata in tre articoli: il primo riguardante il paradigma teorico, il secondo i contenuti della legge, il terzo la commistione pubblico-privato.
Il decreto approvato rappresenta la risposta della classe dominante ai mutamenti socio-economici occorsi negli ultimi decenni che toccano profondamente il modo di riproduzione della forza-lavoro. Da un lato, aumenta il bisogno di servizi socio-assistenziali diretti alla famiglia: per la struttura mononucleare o monoparentale, per la crescente necessità che entrambi i genitori hanno di lavorare anche quando la prole è appena nata, per la crescente flessibilità oraria imposta dal padronato indipendentemente dall’età dei figli, per la scarsa incidenza e usabilità dei congedi, ecc. Tutto ciò impone di trovare una sistemazione a quasi tutti i bambini fin dai tre mesi di vita e impone anche alle scuole di ogni ordine e grado una crescente attenzione alla conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura dei fanciulli. Dall’altro lato, il perdurare della crisi inasprisce la concorrenza ed il successo si gioca sulla combinazione tra abbattimento salariale, sviluppo tecnologico e promozione di capacità, conoscenze e abilità in grado di posizionare l’individuo e la società sulla fascia alta della divisione internazionale del lavoro, e permettergli di conquistare/mantenere la supremazia succhiando il plusvalore altrove prodotto. A questa situazione la classe dominante risponde trasformando i servizi socio-assistenziali, educativi e scolastici destinati alle madri lavoratrici e alla formazione della futura cittadinanza, in veri e propri investimenti in “capitale umano”.
Questa risposta, tuttavia, non consente il superamento dell’apparente dicotomia tra le attività più propriamente assistenziali rivolte alla famiglia (in cui la cura del bambino non è il fine ma il mezzo per permettere ai genitori di lavorare) e quelle educative (dove il bambino è il fine dell’azione). Il loro antagonismo, infatti, non è immanente ma generato dall’organizzazione del lavoro attualmente dominante. Solo eliminando la natura salariata del lavoro e l’isolamento della famiglia dalla società è possibile sviluppare insieme ed armonicamente il lato assistenziale del servizio educativo e il lato educativo dell’assistenza alla famiglia [1].
La trasformazione in atto, invece, va in tutt’altra direzione e a guidarla vi sono due logiche apparentemente opposte. La prima è quella dei tagli indiscriminati, che lungi dal rappresentare la diretta conseguenza dello sviluppo delle forze produttive che abbassa i costi a parità di prestazioni, serve unicamente a dirottare le risorse pubbliche altrove, col conseguente depauperamento quali-quantitativo del servizio. La seconda è quella della trasformazione del servizio da spesa che deve essere programmaticamente ridotta ad investimento che deve essere valorizzato. Una riorganizzazione complessiva del settore, dunque, non certo pensata per venire incontro all’improcrastinabile esigenza di universalizzare il servizio; per eliminare le disparità di trattamento; per diminuire gli oneri che le giovani coppie patiscono dalla precarietà di orari e di guadagni; per garantire un diritto allo studio che oramai, volendo aggiornare una parola d’ordine passata alla storia, comincia a tre mesi. Una riorganizzazione, al contrario, pensata coerentemente all’esigenza di riannodare il filo dell’accumulazione perduta, attraverso il taglio alle voci di bilancio dedicate alla gestione pubblica di asili e scuole e l’aumento degli incentivi alla gestione privata da parte dei piccoli e grandi gruppi cooperativi ed imprenditoriali.
Quello attuale, però, non è il primo grande momento di svolta nel settore, come già evidenziato nell’ottimo articolo di Antonia Sani. Come sottolineato dalla compagna, il primo progetto di integrazione zero-sei, sebbene in chiave assistenzialistica, fu proprio l’Onmi, “l’opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia”, istituita dal fascismo con la legge del 10 dicembre 1925, n. 2277. L’Opera segna il passaggio da forme di beneficenza privata a favore di madri e fanciulli bisognosi, al tentativo di generalizzare l’assistenzialismo attraverso un organismo pubblico parastatale. Fino ad allora, infatti, l’iniziativa era lasciata agli industriali e ai preti che accoglievano per lo più i figli di madri lavoratrici (dunque povere) direttamente in fabbrica oppure nei pressi di ospedali, chiese o scuole. E con l’Onmi l’assistenza alle famiglie povere acquista nuovi “fascistissimi” compiti, come quello di perfezionare e sviluppare le condizioni fisiche più favorevoli al potenziamento della “razza”, di favorire e premiare la natalità, di educare la donna alla maternità e all’obbedienza. Gli approcci assistenziali e pedagogici anti-autoritari che pure già si erano sviluppati in Italia e all’estero vennero banditi (si pensi all’approccio Montessoriano o al lavoro condotto tra il 1921 e il 1925 da Vera Schmidt e di Sabina Spielrein nell’asilo sperimentale di Mosca).
Per vincere la battaglia demografica, infatti, non c’era bisogno di promuovere l’emancipazione della donna né adeguate condizioni di socialità tra bambini, ma unicamente mitigare alcuni dei peggiori effetti che l’industrializzazione capitalista produce su di essi e che avevano assunto una dimensione tale da minare la stabilità e le velleità di potenza del regime. Tuttavia, l'attività dell'Opera aveva carattere temporaneo e non stabile, integrativo e non sostitutivo, giacché non si voleva che gli individui rinunciassero “alla lotta per l'esistenza” o “ai doveri che incombono ai genitori verso i figli o alla famiglia verso i propri componenti”. Inoltre, nello statuto dell’Onmi non vi era traccia di interventi educativi, ma l’impegno era tutto proteso verso l’assistenza igienico-sanitaria, la vigilanza, la custodia e per di più limitato unicamente alle famiglie più bisognose.
Nel secondo dopoguerra la situazione cambia radicalmente e si creano le condizioni per la seconda svolta nel settore. Col procedere dello sviluppo imperialistico, la stragrande maggioranza dei bambini si affranca progressivamente dal lavoro, le malattie infettive vengono debellate o circoscritte, la mortalità infantile quasi azzerata, grande e crescente è la richiesta di manodopera femminile, la campagna decade a beneficio delle città, la famiglia allargata lascia progressivamente il posto a quella mononucleare. Tutto ciò, da un lato consente l’emergere di bisogni che trovano voce nei grandi movimenti di emancipazione, e dall’altro lo sviluppo delle condizioni economiche e politiche per soddisfarli. Tra i tanti, la trasformazione dei servizi dedicati all’infanzia, le cui avvisaglie si hanno già nel 1950, con la legge 860 per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri (poi ampliata dalla 1204 nel 1971). Ma è solo con i movimenti che in Italia emergono nel ‘68 che si arriva al superamento dell’Onmi e alla seconda grande trasformazione dei servizi dedicati all’infanzia.
La legge del 1950, infatti, prevedeva l’istituzione di camere di allattamento o di asili nido direttamente nelle aziende che occupavano almeno trenta donne coniugate, lasciando prive di tutelare le forme di lavoro che non fossero di tipo dipendente, né permetteva di sanzionare chi non rispettasse questo nuovo diritto acquisito dalla lavoratrice-madre, consentendo così limitazioni e violazioni di ogni tipo. Pur con tutti i suoi limiti, però, questa norma ebbe il merito di rovesciare per la prima volta la logica con la quale si era intervenuti fino ad allora: non più un intervento delle autorità a tutela degli interessi delle classi dominanti ma una legge frutto delle mobilitazioni politico-sindacali degli sfruttati che erano riuscite a strappare anche l’obbligo di impiegare “personale in possesso dei requisiti didattici per l’assistenza e l’educazione della prima infanzia”.
Dal 1966, anno in cui Franca Viola, stuprata, dice NO al matrimonio riparatore, è un susseguirsi di sconvolgimenti epocali per il nostro Paese. Non solo riguardo la cura dei più piccoli, ovviamente. Profondi cambiamenti che hanno investito i luoghi di lavoro, la società e le famiglie nella struttura, nei ruoli, nei comportamenti e nelle aspettative, determinando l'emergere di nuovi bisogni relativamente alla vita e all’educazione dei bambini. Ma ancora una volta, il cambiamento si concretizza solo grazie alla mobilitazione. Ma se con la l. 444 del 1968 si avvia un progetto di statalizzazione della scuola materna fortemente criticato in quanto sanciva la copertura del bisogno di scuole pubbliche attraverso la presenza delle scuole private (vedi ancora articolo di Antonia Sani, nda), con la 1044/1971 si prevede che gli asili diventino finalmente un “servizio sociale di interesse pubblico” (Art. 1) finalizzato ad “assicurare una adeguata assistenza alla famiglia e facilitare l'accesso della donna al lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale” (Art. 2) nonché a “garantire l’assistenza sanitaria e psico-pedagogica del bambino” (Art. 6).
Strutture territoriali e aperte a tutti, indipendentemente dalla classe di appartenenza, dal bisogno o dalla condizione psico-fisica del bambino (senza discriminazione né ghettizzazione in classi differenziali). Servizi finanziati dallo Stato, disciplinati dalle regioni e gestiti dai comuni, con la partecipazione della famiglia e delle organizzazioni sociali presenti sul territorio e in cui si supera la divisione rigida dei ruoli e delle gerarchie tra educatrici, introducendo il concetto di gruppo educativo. Si possono così cominciare ad inserire interventi pedagogici rispondenti ai caratteri evolutivi della prima infanzia senza sconfessare il carattere socio-educativo che caratterizza gli asili nido e per il quale ancora oggi sono sottoposti a vigilanza del Ministero della Salute.
Ma la controffensiva padronale non poteva non influenzare anche i servizi dedicati agli infanti. Il contributo finanziario statale diminuisce fino quasi a scomparire già alla fine degli anni settanta; poi, la notte di capodanno del 1983, con decreto del Ministero dell’Interno, il servizio cessa di essere “di interesse pubblico” per diventare “a domanda individuale”, dunque posto in essere non per obbligo istituzionale ma in ragione della richiesta degli utenti. Primi tasselli di un mosaico che nei successivi vent’anni porterà i segni dell’evoluzione del conflitto di classe e dello strapotere padronale
Insospettabile alfiere del nuovo corso che si concretizzerà con la novella integrazione tra asili e materne, non è un pedagogo ma un economista ben considerato dall’asinistra, James Joseph Heckman, premio Nobel e studioso del legame tra investimenti sull’educazione dei bambini, anche molto piccoli, e crescita economica. Nella nuova narrazione dominante, le capacità, le conoscenze e le abilità proprie dell’età adulta non sono più attributi del cittadino ma diventano “capitale umano” che si va scoprendo e formando fin dalla nascita. Per tanto, un ambiente adeguato e stimolante diviene fondamentale sia per promuovere comportamenti socialmente responsabili (che, in un’ottica meramente economica, vengono giudicati più convenienti rispetto ai costosi comportamenti anti-sociali e criminali, in quanto si ignora la funzionalità capitalistica di ampi strati del sottoproletariato), sia per promuovere capacità che permetterebbero di ottenere il successo economico tanto agognato (dal lavoratore, non dal suo sfruttatore!).
A differenza di altri economisti, però, Heckman rifiuta il determinismo genetico secondo il quale “le abilità cognitive sono determinate geneticamente e hanno un’importanza primaria nel modellare i risultati ottenuti in età adulta”, col risultato che su queste basi “le politiche pubbliche verso le persone disagiate non possono che essere di tipo compensativo”. Egli, al contrario, considera fondamentali anche le abilità non cognitive (quelle socio-emozionali, la salute fisica e mentale, la perseveranza, l’attenzione, la motivazione, l’autostima) e se è vero, come afferma sulla base di studi in materia, che “le espressioni genetiche sono fortemente influenzate dall’ambiente” e che “gli effetti dell’ambiente sull’espressione genetica possono essere ereditati”, allora “un’educazione di alta qualità fin dalla prima infanzia promuove lo sviluppo di abilità”, che a sua volta incrementa la produttività e lo sviluppo economico.
Per Heckman, dunque, le abilità contano più della classe sociale di appartenenza nel determinare il successo. Certamente “i bambini che nascono in ambienti svantaggiati ricevono meno stimoli e hanno meno risorse (economiche e cognitive) a disposizione rispetto ai figli delle classi agiate” e nota come “l’aumento del reddito aumenta le cure parentali e l’aumento delle cure parentali riduce i comportamenti anti-sociali”. Tuttavia, non vedendo come il reddito viene prodotto e distribuito, Heckman non può che preferire il contributo in natura (“conviene intervenire sulle cure parentali e non sul reddito”). E ancora, se riconosce che “le madri con un’istruzione universitaria dedicano più tempo all’educazione dei figli rispetto alle madri meno istruite”, e “passano più tempo a leggere ai bambini e meno tempo a guardare la televisione con loro”, tuttavia non lega l’istruzione alla classe sociale ma alle abilità. Per lui “i divari nel grado di scolarizzazione hanno più a che fare con i deficit di abilità che con le disponibilità economiche della famiglia” ed “è molto più importante, nel determinare lo svantaggio, la qualità dell’ambiente educativo piuttosto che le risorse finanziarie disponibili o la presenza/assenza dei genitori”.
Dunque, se le abilità rimangono determinate geneticamente ma i geni sono influenzabili dall’ambiente nel quale si vive, cambiando l’ambiente è possibile aumentare le abilità e dare maggiori opportunità di successo senza doversi preoccupare di cambiare le determinanti sociali dei comportamenti individuali. In questo modo, si cerca di cambiare l’ambiente familiare, scolastico, ecc. eternizzando la società che li ha prodotti. Questa operazione, tuttavia, non è in grado di assicurare alcun automatico vantaggio economico dal momento che il successo capitalisticamente inteso è determinato principalmente dalla situazione presente al momento in cui i bimbi saranno in grado di mettere a frutto come cittadini e lavoratori adulti le capacità, le conoscenze e le abilità scoperte, promosse e insegnate a partire dai primi mesi di vita. Se si calcola, come fa Heckman, il ritorno economico di questi interventi senza considerare che l’erogazione in età adulta delle capacità, delle conoscenze e delle abilità acquisite in parte dipendono da condizioni economiche non prevedibili e in parte dipendono dalle capacità, conoscenze e abilità medie che saranno presenti sul mercato (per cui se aumentano per tutti, il vantaggio competitivo si annulla) non si sta facendo scienza ma pura ideologia.
Pertanto, un approccio del genere non può che essere intrinsecamente conservatore sul piano sociale e smaccatamente competitivo su quello economico. Dopotutto, è lo stesso Heckman a riconoscere che “il peggioramento degli ambienti familiari porta a sollevare preoccupazioni circa la qualità del futuro della popolazione analoghe a quelle espresse dal movimento eugenetico un secolo fa. All'epoca la preoccupazione era espressa dicendo che le popolazioni geneticamente inferiori si riproducevano ad un tasso maggiore, diluendo la qualità complessiva della popolazione”. Ma oggi la questione, secondo l’economista premio Nobel, può essere posta in modo diverso. “Sempre più bambini americani stanno crescendo in ambienti sfavorevoli e questo avrà conseguenze negative per la società americana. La buona notizia in tutto questo è che l'ambiente può essere migliorato per promuovere la qualità dei bambini in un modo che si pensava impossibile dal punto di vista tradizionale del determinismo genetico. La letteratura recente suggerisce che i primi ambienti con cui il bambino entra in contatto influenzano fortemente l’espressione genetica e che la società non ha bisogno di assistere passivamente al proprio declino”.
Dunque, che fare? “Tutti i programmi proposti devono rispettare il primato della famiglia. Le proposte politiche devono essere culturalmente sensibili e riconoscere la diversità dei valori nella società americana. Strategie efficaci sono quelle che coinvolgono il settore privato per mobilitare risorse e produrre un menu di programmi tra cui i genitori possono scegliere”.
Come vedremo nel prossimo articolo, il sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni parte proprio da qui.
(segue)
Note:
[1] Sviluppare il “lato assistenziale del servizio educativo” non significa semplicemente accudire a scuola un bambino che sta male invece di chiamare i genitori (per la qual cosa sono esistite figure ad hoc negli asili e nelle materne prima che i tagli le eliminassero o riducessero), ma riconoscere la maggior facilità che il genitore ha nell’assistere una prole educata non in termini nozionistici, individualisti e meccanici ma in termini critici, collegiali e dialettici. Con l’espressione “lato educativo dell’assistenza alla famiglia”, invece, si intende l’insegnamento che può trarre il bambino dall’accudimento che riceve dagli educatori e dagli insegnanti anche in momenti di disagio (es. quando è malato) in ragione della necessità che i genitori hanno di dover partecipare alla vita sociale (ad es. perché devono lavorare).