Esiste un settore della società italiana – piccolo, in verità – il quale, fin dall’inizio dell’epidemia nel 2020, sostiene che sia in atto un tentativo di restringere le libertà individuali attraverso l’instaurazione di una “dittatura sanitaria” che prescinderebbe dalle effettive necessità legate al contenimento dell’infezione. Saremmo, dunque, in presenza di una strumentalizzazione del fenomeno epidemico a fini genericamente autoritari. La modesta entità di questa corrente di opinione, che non si è mai efficacemente organizzata in forma stabile, è facilmente desumibile da vari indicatori empirici.
Cercherò di elencarne alcuni:
- il cosiddetto lockdown del marzo-giugno 2020 è stato ampiamente rispettato in tutto il paese senza dar luogo a fenomeni significativi di protesta o di insubordinazione;
- l'obbligo delle mascherine al chiuso, successivamente esteso ai luoghi aperti, non ha incontrato opposizioni consistenti: anzi, è ancora esperienza comune incontrare persone, perlopiù anziane, che continuano a indossarle anche per la strada sebbene le relative ordinanze siano attualmente non più in vigore;
- la successiva istituzione delle zone (gialla, arancione, rossa ecc.) è stata tollerata, nonostante l’elevato costo economico per varie categorie e le pesanti limitazioni della vita quotidiana dei cittadini tutti, con un elevato grado di consenso o, se si preferisce, di acquiescenza. In ogni caso, anche questa misura non ha visto il formarsi di movimenti di protesta capaci di mettere in discussione le decisioni governative;
- le vaccinazioni: risulta, da fonti del ministero della Salute di oggi 27 settembre 2021, che si è sottoposto al ciclo vaccinale completo oltre il 77% della popolazione di età maggiore di dodici anni. Non sembra quindi sostenibile che esista nel paese una significativa contrarietà alla profilassi tramite i vaccini attualmente disponibili.
È chiaro che tali dati di fatto sono diversamente interpretabili: si può sostenere, per esempio, che si sia trattato, e che si tratti ancora, di un consenso ingenerato dalla paura o dal “terrorismo” psicologico; ma bisognerebbe allora seriamente domandarsi se tale paura sia del tutto irrazionale perché semplicemente indotta da una propaganda allarmistica o se invece non abbia delle ragioni concrete. Ora, è difficile pensare che l’infezione da Sars-Cov-2 sia innocua o, come alcuni eminenti infettivologi sostennero all’inizio, “poco più di un’influenza”. I dati numerici indicano, al contrario, che il pericolo è effettivo e, soprattutto per gli anziani, potenzialmente letale. Si può anche non credere ai numeri di infezioni e decessi diffusi da parte del governo italiano: ma in tal caso, poiché la situazione epidemica pare investire con pari o simile gravità tutte le regioni del globo, si dovrebbe immaginare una sorta di complotto internazionale il cui scopo, onestamente, sfugge.
Chiarisco che qui non si prenderanno in esame le questioni enormi che stanno alla base dello scatenarsi dell’epidemia e che dovrebbero costituire la fonte di preoccupazione più grande per l’immediato futuro. Quello che mi interessa, in questo breve scritto, è mettere in luce una contraddizione che investe lo Stato (e non solo quello italiano) e in cui si trovano coinvolti i cittadini stessi e soprattutto coloro che si collocano su posizioni critiche riguardo le misure di contrasto dell’epidemia sulla base di una loro sostanziale strumentalità.
Veniamo da decenni in cui, in forma esplicita e addirittura “gridata” all’inizio, e poi via via scivolata nel gran calderone del senso comune, la parola d’ordine dominante è stata: “più mercato e meno Stato”. Le conseguenze devastanti di questa ideologia le misuriamo tutti nella riduzione dei diritti dei lavoratori, nella privatizzazione di ampie aree dei servizi pubblici, nel taglio spesso selvaggio e distruttivo della sanità pubblica e via di seguito: non occorre dilungarsi su questo.
Ciò che invece va rilevato è quanto questa posizione ideologica – insieme ai suoi effetti materiali – abbia fatto breccia nella mentalità delle persone e nel loro modo di atteggiarsi rispetto al tema della libertà personale: che è il tema, per esempio, di quanti protestano contro il cosiddetto “Green Pass”. E insieme, va considerato come lo Stato medesimo abbia via via introiettato la propria marginalizzazione, fino a rivelarsi incapace di affrontare qualsiasi problema, se non sotto il segno dell’“emergenza”. È, né più né meno, che il riflesso del prevalere del mercato capitalistico, delle sue dinamiche e della sua irrazionale “filosofia”, su qualsiasi altra istituzione civile o politica e sulle tradizioni popolari, sebbene di segno diverso, che hanno improntato la società italiana dal secondo dopoguerra in poi. Insomma, la normalità è il mercato: tutto il resto non c'è o, se c'è, è sciagurata e imprevedibile “emergenza”.
A mio avviso è questa la ragione per cui, quando ci si è trovati davanti a un’emergenza vera e propria come l’epidemia, da un lato le istituzioni dello Stato si sono dimostrate del tutto incapaci di affrontarla perché smantellate e ormai considerate dei ferrivecchi (si pensi solo all’assenza di un piano sanitario contro le pandemie); dall’altro, quando la situazione si è rivelata in tutta la sua gravità, ha fatto l’unica cosa che a quanto pare è in grado di fare, e ha proclamato l’“emergenza nazionale” tuttora in vigore.
Ciò ha comportato, come sappiamo tutti, consistenti riduzioni della libertà personale, di movimento e di accesso a determinati consumi: ma nello stesso tempo, anche se in modo becero e spesso poliziesco, ha di nuovo fatto toccare con mano ai cittadini tutti che lo Stato ancora esisteva e che poteva imporsi; e questa volta, sebbene con tutti i limiti già citati, in nome dell’interesse generale – o, per lo meno, anche di questo- e non più soltanto come tutore della proprietà privata e dell’ordine pubblico a essa funzionale.
Si è trattato di un vero e proprio colpo sferrato al cuore della società di mercato da parte del suo stesso garante: e poiché la società civile, o quel che ne resta, si era rassegnata a una progressiva perdita di diritti e dignità che lasciava integra la sola libertà di consumare o di passeggiare, quando anche quest’ultima è stata violata si è sentita mancare l’aria. Ciononostante, una larga maggioranza ha compreso la serietà del problema e si è comportata razionalmente.
Detto ciò, bisogna affermare con chiarezza che, per quanto sia odioso e probabilmente inutile, il vero problema non è il Green Pass, ma ciò che avverrà dopo.
Una volta passata l’emergenza, che ha bene o male costretto lo Stato (e gli Stati) ad assumersi determinate responsabilità, le cose torneranno come “prima” e si sa già chi pagherà il prezzo più alto. Nulla è stato fatto per restaurare efficacemente il Servizio sanitario nazionale, ed è probabile che nulla verrà fatto; fra sindacati e Confindustria si sta stabilendo, sotto l’alto patrocinio di Draghi, una sorta di patto neocorporativo; l’Europa ricomincerà a battere cassa facendo marcia indietro dall’ammorbidimento e dalle concessioni a cui l’ha temporaneamente costretta l’epidemia. E l’elenco potrebbe continuare.
Alla fine, le restrizioni verranno tolte, scomparirà il Green Pass e le persone saranno finalmente libere dalla “dittatura sanitaria”: e di questo fantasma di libertà dovranno accontentarsi.