P. Sánchez è divenuto l’ennesima foglia di fico per rilanciare la “sinistra” riformista che, ormai da anni, si è fatta egemonizzare dal liberalismo. Al punto da riuscire, a sua volta, a egemonizzare quelle componenti della sinistra “radicale” (da Tsipras a “Il manifesto”) che non vedono l’ora di stringere nuovamente un’alleanza con i riformisti. Come al solito, all’atto pratico, anche i riformisti spagnoli hanno gettato la maschera mostrando, ancora una volta, di non rappresentare la componente moderata della sinistra, ovvero di chi si batte per i ceti subalterni, ma la componente più moderata della destra, ovvero di chi difende gli interessi della classe dominante.
In effetti, pur di non scontentare quest’ultima, il Partito socialista operaio spagnolo sta facendo di tutto per evitare di fare un governo con la sinistra di Unidos podemos, con il sempre più serio rischio di tornare a elezioni e riconsegnare il governo alle destre, riunitesi per la prima volta anche con la destra radicale di Vox. Tale attitudine, apparentemente suicida, è funzionale da una parte a continuare a dimostrarsi la forza più affidabile per i poteri forti del capitale finanziario nazionale, la confindustria spagnola, e internazionali a partire dalla Troika; dall’altra è funzionale a cercare di eliminare il concorrente che ha occupato la prateria lasciata scoperta a sinistra dal Partito socialista, ormai da troppo tempo divenuto una forza moderata.
La tattica è quella comune a tutti i riformisti, ormai stabilmente egemonizzati dai liberali, compresi ovviamente quelli italiani guidati da Zingaretti, ovvero sfruttare la crescita del populismo della destra radicale – fomentata dalle loro politiche liberali e prone ai poteri forti – per poi imporre il voto utile a impedire alla destra radicale di controllare anche il governo. Quindi, se strategicamente mirano a dimostrarsi più affidabili delle forze della destra dinanzi ai poteri forti – in quanto capaci di controllare parti significative del sindacato e delle masse popolari – tatticamente mirano a rafforzare in ogni modo il tipico bipolarismo borghese. Puntando a far sì che di nuovo alle elezioni si contrappongono – come di tradizione nei paesi liberali – due fazioni dello stesso partito dell’ordine costituito, quella liberal-conservatore e quella liberal-socialista (in Italia destra e sinistra storica e poi centrodestra e centrosinistra).
Infine Sánchez mira a minare l’unità della sinistra, da una parte a rompere l’unità d’azione faticosamente conquistata fra Izquierda Unida e Podemos, in quanto la prima sembra intenzionata a votare comunque per un monocolore di minoranza guidato dal capo del PSOE, mirando magari a condizionarlo dall’esterno, mentre la maggioranza di Podemos mira a un accordo di governo e ad alcuni ministri, per dare il proprio voto al governo a guida socialista. Infine, il PSOE mira a spaccare lo stesso Podemos, mirando alla scissione della sua ala destra ancora più governista e realista della maggioranza e più vicina ai nostri 5s.
Il Psoe mira, infine, a scaricare la colpa di una probabile vittoria delle destre alle prossime elezioni, puntando a far ricadere la responsabilità del mancato accordo – paradossalmente – su Podemos, che non avrebbero dato i propri voti a Sánchez per impedire il riformarsi di un governo conservatore e reazionario. Complice di tutto ciò è il pessimo sistema elettorale spagnolo, eredità avvelenata del passaggio non rivoluzionario dalla dittatura fascista a un sistema liberaldemocratico, che favorisce il bipolarismo e rende la vita quasi impossibile – dal punto di vista della rappresentanza parlamentare – alle forze realmente radicali e antisistema.
Inoltre Sánchez è contrario a creare un governo di centro-sinistra sul modello portoghese perché intenzionato a mantenere un equilibrio fra le spinte a sinistra di Unidos Podemos e le spinte a destra di Ciudadanos, con cui fa di tutto per mantenere buoni rapporti, per potersi così presentare come il giusto mezzo e cercare, a seconda dei casi, di trovare i voti necessari sia a destra che a sinistra, seguendo la propria vocazione centrista e scaricando sugli opposti estremismi i suoi sbilanciamenti da una parte o dall’altra e i suoi possibili fallimenti. Da questo punto di vista Sánchez non si distanzia realmente da Zingaretti – al di là dell’immagine e di alcuni aspetti formali – anche lui è in effetti il tipico rappresentante riformista del T.I.N.A., per cui in teoria vorrebbe anche fare politiche meno sbilanciate a favore delle classi dominanti ma, purtroppo, non ci sarebbero alternative allo status quo.
Del resto, il suo realismo da politicante, si è dimostrato nel modo più evidente nel garantire l’appoggio del Psoe all’elezione della deputata aristocratica della destra tedesca Ursula von der Leyen, spostando a destra la politica del Psoe che ai tempi del governo precedente di grande coalizione aveva assunto, praticamente unico fra i partiti socialdemocratici, un posizione di moderato dissenso. Mentre ora, in cambio di posti ottenuti dal suo paese nelle istituzioni europee – per altro occupati da personaggi decisamente moderati – ha votato per un governo ancora più sbilanciato a destra del precedente.
Infine il governo Sánchez ha finora rifiutato ogni accordo con Unidos Podemos, nonostante quest’ultimo abbia accettato le evidenti provocazioni socialiste, che hanno rifiutato di dare a Podemos i ministeri considerati chiave e hanno posto un veto sulla partecipazione al governo del massimo dirigente della sinistra radicale. Come se non bastasse, nonostante ora Podemos abbia proposto lo stesso accordo capestro – cui aveva dovuto rinunciare prima della pausa estiva – Sánchez sostiene di aver chiuso a qualsiasi trattativa per la formazione di un governo di centro-sinistra. Tra i motivi di questa completa chiusura, vi è la determinazione di Sánchez a non accettare nessuna mediazione sulla soluzione democratica che la sinistra propone per risolvere la questione dei popoli in cui forti sono le spinte autonomiste o indipendentiste, in primis quello catalano. In effetti, anche su questa decisiva questione il Psoe ha assunto una posizione chiaramente di destra, di totale e cieca chiusura, che non può che favorire un’ulteriore complicazione della situazione, oltre che imporre proprio al popolo dove al momento sono più forti le tendenze autonomiste e indipendentiste un governo centralista e antidemocratico.
Del resto, anche dal punto di vista della forma, Sánchez non sembra capace di coprire a sinistra le sue politiche socio-economiche di destra, con delle avanzate leggi sui diritti civili, come aveva fatto il suo predecessore Zapatero. Anzi, persino sulla questione della emigrazione verso l’Europa dai paesi del sud del mondo, ha assunto una posizione di pressoché totale chiusura che, al di là dei toni, poco si è distinta da quella vergognosa del governo Conte. Portando avanti – per altro a opera di una ministra donna (a ulteriore dimostrazione che la contraddizione essenziale è quella di classe e non di genere) – una politica di pesante attacco alle Ong, che provano a supplire alle posizione disumana assunta dall’UE nei confronti dei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo con imbarcazioni di fortuna.
Per altro il governo Sánchez ha abdicato a qualsiasi rivendicazione repubblicana, non ha messo in discussione la politica imperialista spagnola mantenendo l’occupazione delle due enclave in territorio marocchino, Ceuta e Melilla, non facendo mancare il proprio appoggio ai tentativi di rovesciamento del governo Maduro e confermando l’assoluta fedeltà alla Nato. Senza contare che a Sánchez nel PSOE non sono presenti reali alternative di sinistra, dato che i suoi principali avversari, dalla ex presidente dell’Andalusia alla vecchia guardia del partito, lo incalzano sempre da destra.
Purtroppo, se questo è lo sbandamento a destra anche della socialdemocrazia spagnola, al solito in parte dipende dalla incapacità della sinistra radicale di esercitare una qualche egemonia su settori consistenti dell’elettorato e dei militanti – soprattutto giovani – del Psoe, costringendolo a rompere con la destra, sulla quale si è – nei fatti – da troppo tempo appiattito, con il risultato di spostare ancora più su posizioni conservatrici o reazionarie le formazioni che hanno visto le loro posizioni tradizionali occupate, opportunisticamente, dai socialisti. Del resto, la crisi della sinistra “radicale” spagnola tende ad aggravarsi. Via via che è venuta meno la capacità di mobilitazione e anche la ex sinistra radicale ha puntato tutto sulla via parlamentare e istituzionale, anche i suoi consensi sono venuti progressivamente scemando. In particolare dopo lo stretto legame che si era istaurato con Tsipras quando, dopo la vittoria elettorale di Syriza, i sondaggi diedero per la prima volta Podemos come primo partito nelle intenzioni di voto in Spagna. Tanto che, in quel momento, i sondaggi davano per certo il superamento dei socialisti.
Com’era prevedibile, il fatto che Syriza abbia utilizzato la vittoria elettorale per garantire una sostanziale pace sociale – nonostante l’accettazione della terapia shock dei memorandum imposti dalla Troika – non poteva che influire in maniera fortemente negativa sulla popolarità di Podemos, che non essendo più radicale del partito di Tsipras, non dava più sufficientemente garanzie di essere in grado di sviluppare politiche sociali ed economiche di rottura con quelle liberali portate avanti tanto dal Partito popolare che dal Psoe. Tanto più che il suo populismo, certamente più di sinistra di quello del M5s – in quanto sorto dopo un’importante mobilitazione di piazza – contenendo anche elementi ambigui, ovvero antipolitici, ha dovuto cedere terreno a seguito del progressivo affermarsi di una forza altrettanto populista, ma di destra, come Ciudadanos.
Inoltre la posizione di Unidos Podemos sul duro scontro sull’indipendenza della Catalogna – questione che non poteva che assumere una centralità politica – è finita con l’apparire troppo super partes, finendo così per fargli perdere consensi sia fra i sostenitori dell’indipendenza che fra i loro avversari. Altrettanto poco felice è apparsa agli elettori l’alleanza fra Izquierda Unida e Podemos. L’unità, come spesso avviene, non è stata in grado di dare il giusto risalto alle differenze specifiche. Ciò ha comportato per IU una ulteriore perdita della sua identità comunista, mentre per Podemos la perdita di quell’alone di rinnovamento che aveva nei riguardi dei partiti tradizionali, tutti a quanto in crisi di popolarità anche nel loro elettorato. Non a caso il tradizionale bipolarismo è saltato, nonostante lo scudo del sistema elettorale che lo favorisce, con l’affermarsi di due nuove forze populiste, che nel caso di Ciudadanos sembrano poter divenire la principale forza di destra.
La cosa più allarmante è presumibilmente la vocazione sempre più apertamente governista e istituzionalista di Podemos, che per altro era iscritta nel suo stesso DNA populistico, per cui il partito di lotta e di opposizione era necessario nella fase iniziale per imporsi all’attenzione dei subalterni ma, poi, l’unico modo per cambiare realmente le cose sarebbe conquistare spazi di manovra nelle istituzioni. Ingenuamente i dirigenti e la maggioranza di Podemos sembrano ignorare la differenza fra governo e Stato e, quindi, non sembrano realmente coscienti che la grande borghesia che controlla lo Stato non lascerà mai, pacificamente, modificare seriamente i rapporti di produzione e di proprietà, ovvero mettere in discussione il loro potere reale e i loro enormi privilegi. Questo spiega le fortissime pressione della borghesia su Sánchez, affinché non lasci a Podemos la possibilità di incidere occupando posizioni importanti al governo. In caso contrario, si verrebbe a creare una sorta di dualismo di potere che la borghesia vede come fumo negli occhi, in quanto significherebbe mettere in discussione il suo ruolo di classe dominante.
Per altro, se i dirigenti di Podemos abbandonassero per un momento il loro populismo e si decidessero a fare propria una visione del mondo scientifica, autonoma e antagonista alla dominante, si renderebbero facilmente conto che ciò che conta per la gestione del potere sono i rapporti di forza fra le classi sociali e fra i partiti in grado di egemonizzarle. Dunque, se non saranno in grado di guidare dei movimenti reali di subalterni, con posizioni meno deboli di quelle a cui avevano voluto dare uno sbocco politico – che criticavano l’ideologia dominante essenzialmente dall’interno – non riusciranno a incidere realmente sugli assetti sociali, politici, economici e culturali.
D’altronde, se non si ha una cultura autonoma, una concezione politica, sociale ed economica realmente antagonista e, quindi, potenzialmente alternativa alla dominante, sarà sostanzialmente impossibile cambiare realmente in meglio le cose. La prospettiva oggettivamente riformista di Podemos è, in quanto tale, incapace realmente di praticare i propri obiettivi, dal momento che la classe dominante è pronta a fare concessioni solo quando ha paura di perdere il potere. Tanto più che tale posizioni è particolarmente impraticabile nella situazione attuale tanto che le forze tradizionalmente riformiste si sono votate al liberalismo, mentre quelle solo apparentemente radicali come Syriza – nonostante le pose radicalmente riformiste – al governo hanno portato avanti politiche ultraliberiste. Tanto più che, come proprio il caso greco esemplarmente dimostra, tali politiche non hanno possibilità di successo se non si procede a una rottura rivoluzionaria con l’impostazione strutturale neoliberista dell’Unione europea. Evidentemente una tale politica è in partenza impossibile se, come Podemos, si ha una posizione filoeuropeista e assolutamente contraria anche a minacciare una rottura con l’Ue.
Infine, come insegna la storia, i socialdemocratici sono stati in grado di ottenere riforme grazie a tre condizioni che oggi sono quasi del tutto venute a mancare. In primo luogo per la presenza di credibili forze rivoluzionarie che contendevano ai riformisti l’egemonia sulle masse popolari e, così, il padronato preferiva fare anche ampie concessioni ai secondi, pur di isolare e così poter reprimere i primi. Tali condizioni non esistono né a livello internazionale, né in Spagna, in cui da troppo tempo la maggioranza di coloro che si definiscono comunisti sono egemonizzati da forze socialdemocratiche. In secondo luogo il riformismo era reso possibile da una significativa crescita economica, che permetteva di concedere le briciole alle classi subordinate, affinché non mettessero in discussione il loro dominio. Oggi in una fase di profonda crisi e di caduta del tasso del profitto, vengono a mancare nei paesi a capitalismo avanzato anche le briciole precedentemente destinate alle riforme. In terzo luogo le riforme erano rese possibili dal dominio incontrastato delle potenze imperialiste, che potevano redistribuire una parte degli extraprofitti ottenuti mediante la rapina dei popoli oppressi per la creazione delle aristocrazie operaie, con il fine di isolare i rivoluzionari. Grazie alle grandi lotte del secolo scorso, da parte delle forze comuniste e antimperialiste, la situazione internazionale da questo punto di vista è migliorata e sono di conseguenza diminuiti anche gli extraprofitti precedentemente garantiti dal dominio pressoché incontrastato a livello internazionale dell’imperialismo.