Le prospettive di Rifondazione Comunista: Fronte antiliberista e anticapitalista di classe o “costituente della sinistra riformista”?
di Giovanni Bruno
In queste settimane stiamo assistendo al proliferare di microscissioni dal PD (Civati, Fassina) e dall’implosione di SEL che annuncia il proprio scioglimento per costituire una “sinistra” più grande (!) e forte (!?). È imbarazzante pensare che i cocci del centrosinistra che hanno affrontato le elezioni politiche in contrapposizione alla sinistra di alternativa (il PRC innanzitutto) siano la base da cui dovremmo ripartire per costituire una nuova, grande, sinistra alternativa al PD. Non è infatti solo il “renzismo” e il Partito della Nazione il nemico da battere, ma il Partito Democratico come gestore (peraltro fallimentare) delle dinamiche capitalistiche in chiave di liberismo tenue, moderatore degli aspetti più distruttivi del sistema. La sinistra riformista a cui molti pensano non è che un PD “di sinistra”, che Renzi avrebbe tradito: non può essere la “sinistra di governo” l’orizzonte strategico per i comunisti, ma una ”sinistra antisistema”.
Eppure, questi momenti di imbarazzo non impediscono a molti di pensare che occorra una “sinistra unita” e addirittura un “soggetto unico” di cui Civati, Fassina e Cofferati, o Vendola e Fratoianni, non solo siano gli ispiratori, ma ne siano i cardini. Inoltre, gli argomenti che vengono portati per convincere della necessità anche in Italia di un soggetto unico sono fragili e decontestualizzati: si fa riferimento ad alleanze (stabili, certo, ma composte da più partiti) come il Front de Gauche in Francia o Isquierda Unida in Spagna o il Bloco de Esquerda in Portogallo, oppure a partiti come la Linke in Germania o Syriza in Grecia, ma non si definisce mai il progetto che occorrerebbe in Italia. Senza un’analisi della nuova fisionomia di classe, un piano operativo per radicarsi nelle classi popolari e la costruzione di un blocco sociale alternativo al “demo-nazionalismo” neoliberista del PD renziano, diventa impraticabile qualsiasi proposta di sinistra unitaria, e tutte sono destinate a franare (come nei casi funesti della Sinistra Arcobaleno, della Federazione della Sinistra, di Rivoluzione Civile e così via). D’altronde, il progetto della “sinistra di governo” è già stato percorso in modo fallimentare da SEL ed il tentativo non ha fatto che indebolire Rifondazione Comunista e i movimenti antiliberisti che oggi si vorrebbe riunire nuovamente.
L’altra argomentazione è tesa a dimostrare che occorra unire la sinistra (addirittura in un unico soggetto, superando di fatto i partiti esistenti) perché i comunisti non sono autosufficienti (ma non lo pensavano neppure Marx o addirittura Lenin, almeno prima della presa del potere): è un’argomentazione pretestuosa, perché la necessità di un fronte unito contro il neoliberismo e le politiche di austerità e rigore fiscale è riconosciuta da tutti (soprattutto per le limitazioni all’espressione della rappresentanza politica che le leggi elettorali hanno introdotto producendo una sempre maggiore restrizione democratica).
Nella strategia del fronte, le forze politiche organizzate devono poter mantenere la propria identità politico-organizzativa e avere un ruolo riconosciuto: certamente dal movimento No Global in poi, le dinamiche sono cambiate e la mobilitazione ha acquisito forme più “liquide” e instabili di partecipazione. Non dimentichiamo inoltre la caduta di credibilità di Rifondazione Comunista per la partecipazione ai governi Prodi (in cui hanno votato provvedimenti che hanno introdotto la precarizzazione – pacchetto Treu – o il rifinanziamento alle missioni militari all’estero) o quella ancora più sciagurata dei Comunisti Italiani fuoriusciti per sostenere il governo D’Alema, corresponsabile dei bombardamenti sulla Jugoslavia.
Tuttavia, occorre chiarire quale sia la strada da intraprendere affinché i comunisti, che difendono la validità della propria analisi sul capitalismo e l’imperialismo e della prospettiva di una società social-comunista, possano partecipare ad un percorso unitario della sinistra proponendo avanzamenti programmatici e accumulazione di forze nella prospettiva anticapitalista: insomma, va chiarito cosa si possa veramente fare in Italia.
Il Segretario Ferrero, in un intervento ad una festa di Rifondazione in provincia di Pisa il 31 luglio, ha parlato della necessità di costituire un nuovo CLN contro il liberismo. Ciò significherebbe che non si costituisce un “soggetto unico” della sinistra, ma un fronte antiliberista. Cosa c’entra questo con la proposta di “costituente della sinistra”, con forti tratti riformistici, di cui vanno parlando Civati, Vendola e Fratoianni? Con le dovute proporzioni, il CLN era un fronte democratico unitario composto da partiti antifascisti: il CLN antiliberista dovrebbe dunque essere un fronte democratico antiliberista, non un soggetto unitario.
L’altro aspetto che deve essere messo in luce è il continuo mantra che “Rifondazione Comunista non si scioglie né ora né domani”: quale sarebbe però il ruolo di RC in un soggetto unico in cui vige il principio di “una testa, un voto”, e a cui viene delegata/ceduta la sovranità della rappresentanza politica? Facciamo tre ipotesi, che sono circolate nel partito (non posso dire che siano state discusse):
a) RC mantiene l’organizzazione come “partito sociale”, cioè delega la rappresentanza politica non presentandosi con il proprio simbolo e programma, ma si radica socialmente e porta le istanze sociali e di classe nel nuovo soggetto. In questo caso, si creerebbe una scissione profonda tra il livello sociale e quello politico, con una difficoltà crescente per i comunisti di imprimere un programma realmente alternativo a fronte di un ceto politico sempre più refrattario e tendenzialmente chiuso nel livello dell’eventuale istituzione rappresentativa in cui sia riuscito ad entrare. Inoltre, il PRC assumerebbe sempre più le caratteristiche di un’associazione politico-sociale, anziché di un partito che si pone il problema della conquista del potere;
b) RC diviene parte integrante del processo unitario della sinistra alternativa al PD, ma su posizioni riformiste e governiste, con un processo di cessione di sovranità progressivo attraverso il travaso degli iscritti di RC nel nuovo contenitore. Le conseguenze potrebbero essere due: da un punto di vista politico, si potrebbero creare le condizioni perché a livello territoriale e regionale le alleanze con il PD si ripristinino, su programmi di moderazione delle politiche neoliberiste. Per RC si tratterebbe di una lenta agonia, con la trasfusione (probabilmente solo parziale) del sangue dei compagni e compagne nel nuovo soggetto, con la fine dell’autonomia politico-culturale, oltre che organizzativa, dei comunisti, con RC che diventa un partito di opinione;
c) RC si scioglie formalmente dentro il processo costituente, magari sotto richiesta esplicita delle altri componenti, mantenendo solamente livelli di organizzazione minima sul piano territoriale, che di fatto disarticolerebbero il partito rendendolo solo una “cinghia di trasmissione” e una sorta di comitato elettorale del nuovo soggetto riformista, mentre i comunisti rimarrebbero semplicemente come “tendenza culturale” (come aveva a suo tempo prospettato Bertinotti).
Sono tutte ipotesi che non hanno niente a che vedere con un’auspicabile unità frontista, antiliberista e anticapitalista.
Per la costruzione di un fronte, dobbiamo partire dalla premessa che il riformismo è ormai impossibile come orizzonte strategico per qualsiasi forza di sinistra che non voglia condividere i principi del sistema capitalistico irrimediabilmente in crisi. Se ci si limita a ritenere ancora possibile frenare e invertire la direzione di marcia con l’abbandono dell’austerità, del rigore fiscale e con maggiori investimenti pubblici (necessari, ma non sufficienti) si rischia di non comprendere che le condizioni per un riformismo espansivo, come negli anni ’70 del XX secolo, sono veramente esauriti, non solo in teoria, ma nella pratica.
Non si tratta quindi solo di allentare i parametri fiscali degli Stati, come vorrebbe il liberal- democratico PD (ponte sospeso tra PSE e PPE), ma di riavviare la spesa sociale da parte dello Stato e degli enti locali a tutela delle fasce deboli e popolari. Rilanciando settori strategici come scuola, sanità, trasporti, previdenza, manutenzione e tutela del territorio, piuttosto che investire in costose, inutili e dannose opere faraoniche o spese militari incontrollabili.
In termini di classe, questo significherebbe restituire la ricchezza depredata dagli strati parassitari (speculatori, banchieri, agenzie finanziarie) ai settori popolari del proletariato e del ceto medio impoverito, rilanciando investimenti nei servizi e nuove forme di salario sociale. Sarebbe una politica tra il neo-keynesismo ed il riformismo socialdemocratico che non risolverebbe il problema alla radice (il ciclo capitalistico produrrebbe nuovamente nel giro di poco una nuova crisi, probabilmente ancora più profonda e devastante), ma che consentirebbe l’accumulo di forze sociali e l’organizzazione di soggetti politici per prospettare la messa in discussione degli attuali rapporti economico-sociali tra le classi ed il superamento della gestione privatistica e oligarchica della proprietà sociale, in chiave collettivistica.
Il compito di fase è infatti quello di costruire livelli di mobilitazione, vertenze e lotte: un conflitto sociale che consenta una convergenza tra soggetti sociali e politici con lo scopo di ripristinare livelli accettabili di democrazia, di mantenere livelli accettabili dei pubblici servizi a costi sopportabili e adeguati ai bisogni reali della popolazione.
Sono questi gli obiettivi di fase per una sinistra antiliberista che per i comunisti sono la condizione per accumulare forze anticapitaliste. Con l’obiettivo strategico di lottare per l’instaurazione di una società socialista, senza classi e sfruttamento.