L’ideologia coincide con la falsa coscienza diceva Marx (l’ideologia tedesca). Nel nostro caso, oggi, l’ideologia dominante è quella che finge di non essere tale, che nega tutte le ideologie trasformandosi essa stessa in ideologia. In nome di una lotta a senso unico contro le ideologie, divenuto senso comune nei fatti ma altamente ideologico nei Principi, tra cui l’ideologica c.d. “fine della storia”, si giunge ad es., per un verso, a calare attorno al referendum sulla riduzione dei parlamentare una cortina di silenzio tale da sembrare un complotto.
Un complotto trasversale “guidato”, in primis, dalla maggior parte dei giuristi, anche dai sedicenti difensori della costituzione, giuristi c.d. “democratici” e cattedratici, intellettuali e pennivendoli in genere (i politici obbediscono e seguono come le salmerie!). I quali, profittando del fatto che non c’è più la storia a guidarli, tra il feticismo (ad es. della “Costituzione più bella del mondo”) e il nichilismo costituzionali, hanno scelto l’ideologia del pragmatismo e il conseguente tatticismo, asserendo che la riduzione della rappresentanza popolare in Parlamento è ormai divenuto senso comune – da due decenni alimentato da loro stessi con i disegni di revisione della Parte II – per cui non vale neanche la pena di aprire un dibattito e/o chiamare il Paese a discuterne, promuovendo l’abituale referendum confermativo (che ora si avrà solo per iniziativa dei Senatori), dovuto in quanto nell’iter parlamentare, la riduzione dei Parlamentari (a 400 deputati, lo stesso numero a cui li ridusse il governo Mussolini, prima dell’introduzione del maggioritario!), non ha raggiunta la maggioranza dei due terzi prescritta dalla Costituzione.
L’ideologica assenza e “fine della storia” cosiddetta, consente falsificazioni altrimenti inspiegabili se non con la falsa coscienza.
Tralasciando la mala fede, il prevalere della falsa coscienza ideologica può cogliersi, anche, nella indicibile falsificazione – da parte di centri d’informazione e dei possessori di “capitale culturale” quale forma di potere inferiore solo al potere del “capitale economico” – persino dei dati più ovvi, sanciti nei testi di legge a loro disposizione; un falsificazione nella trasmissione generazionale delle informazioni che, nell’occultamento della storia, si verifica abitualmente ad opera degli apparati ideologici di stato e d’impresa, anche sotto il patrocinio di Rai storia. Come quando, venerdì 12, durante la terza parte della trasmissione titolata “storia dell’economia”, nel parlare degli anni ‘70, con l’ausilio di “professori” (sic) e documenti, alle ore 21,45 circa, nel riferire della Riforma Sanitaria (senza nominarla come conquista del movimento operaio nel campo della riforma dello stato su cui non a caso Salvatore d’Albergo, tra i costituzionalisti e i giuristi, fu il solo o quasi a comprenderne l’importanza e a dedica visi per tutta la vita!) e dell’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale, si arrivava ad asserire che “le USL” erano uno “strumento dipendente dalle Regioni”.
È evidente, a mio parere, che non è solo un caso di ignoranza, che comunque anche fosse solo quello, induce a chiedere come sia possibile che nella trasmissione generazionale delle informazioni si pervenga a livelli di menzogna tale da inficiare, nascondere, obliterare, ecc., quella che è stata la più eclatante novità e conquista del movimento di lotta per la prevenzione e la difesa della salute e dell’ambiente, cioè: le USL dei Comuni. Una riforma iniziata dall’interno dei luoghi di lavoro, con i libretti sanitari gestiti dal Consiglio di Fabbrica e le lotte operaie, anche quelle solo apparentemente spontanee e improvvisate, come, ad es., quelle dette a “gatto selvaggio”, che in verità presupponevano una profonda conoscenza del ciclo produttivo, che poi si estesero alla salute e all’ambiente nel territorio. Fino ad investire l’ente locale, facendo del Sindaco e dei Consigli comunali – ben prima dell’approvazione della legge – le autorità della salute e dell’ambiente di tutto il territorio, che comprende, appunto, luoghi di lavoro, luoghi di studio e luoghi di vita.
Sicché, la legge sanitaria del 1978 recepì e sancì che le USSL – a loro volta suddivise in Distretti di un massimo di 5.000 abitanti – erano la proiezione dell’ente locale, strumento tecnico-politico dei Comuni: cosa assolutamente nuova, inventato dal movimento di lotta(il marxismo non inventa nulla, copia forme di lotta e nuove istituzioni dal movimento di lotta, diceva Lenin) , di cui i giuristi non sapevano capacitarsi, non riuscendo a trovare nei loro vetusti testi qualcosa che vi corrispondesse. Sicché divennero i complici e i responsabili principali della sostituzione delle Unità Sanitarie Locali con Aziende o con Enti. Giuristi, nella maggior parte, che per inciso citiamo come principali responsabili del sabotaggio della prima e unica riforma di attuazione della Costituzione, riforma della amministrazione dello stato. Non è perciò un caso che non uno dei cultori di diritto pubblico (fatto salvo S. d’Albergo), si sia presentato a contestare in sede di attuazione il modello di riforma specificato nelle leggi regionali che rovesciavano la natura delle USL come strumento “tecnico-politico” dei Comuni.
Cultori del diritto pubblico e amministrativo che unitamente all’introduzione della Legge finanziaria –sostenuta anche da Napolitano della destra PCI – portarono ad una totale dissacrazione di una riforma che aveva il solo torto di essere rimasta, da un lato, isolata in mezzo ad un sistema normativo e istituzionale che risentiva addirittura della fase pre-costituzionale, e, dall’altro lato, contrastata al suo interno mediante una combinazione strategica di rinvii imperniati sulla “provvisorietà” del regime amministrativo di limitazioni finanziarie (legge finanziaria) scaricate sugli aventi diritto alla salute per farli rivoltare contro la riforma “fallita” (fatta fallire!), e quindi contro la democrazia già minata dagli scandali a ripetizione anche e specie in materia di amministrazione sanitaria.
Ora, se consideriamo che i componenti del direttivo delle USSL venivano eletti direttamente dal Consiglio comunale, e che proprio per questo si diede vita per anni ad una campagna giornalistica e politica contro quella che chiamavano “lottizzazione” da parte dei Consigli comunali che eleggevano gli organi USL; dopo decenni di tale campagna che aveva l’obbiettivo di screditare e sopprimere le USL quale strumento dei comuni (tanto che dalla loro soppressione, non si parla mai più di “lottizzazione” che nelle varie Authority, nelle municipalizzate, ecc., ha raggiunto livelli senza precedenti…), come è possibile che oggi si asserisca che le “USL erano delle Regioni” e senza che alcuno della trasmissione abbia notato il macroscopico “errore”?
Riteniamo, invece, che si tratta e di falsa coscienza, perché senza saperlo, con falsa coscienza, appunto, anche in tale trasmissione, delle USL hanno assunto la formula– su cui convenivano passivamente anche tanti giuristi c.d. “democratici” e vertici della CGIL (G. Cazzola e Ivan Cavicchi) e della “sinistra” – che era propria della controriforma sanitaria volta ad adottare “un nuovo assetto istituzionale e gestionale”: con il preciso e dichiarato obbiettivo di estromettere il Comune dal campo sanitario, cioè dalle attività nelle quali il ruolo del comune è politico e tecnico insieme. Gli autori di Rai storia, hanno attribuito alla Riforma ciò che era della “controriforma” volta a ricostituire una gestione burocratica e non democratica della salute, tramite una conclamata distinzione tra politica e amministrazione, si da restituire un primato alle burocrazie sia tecniche che amministrative, sulla politica.
Primato che anche con l’introduzione delle Regioni si voleva rovesciare, perché lungi dal ridimensionarla come questione particolare, la questione sanitaria si colloca nel contesto della problematica dello “stato sociale” e della riforma democratica dello stato (richiesta dalla Carta fin dal 1948). Il sabotaggio della riforma sanitaria è l’aspetto che segna con chiara evidenza un passaggio più complesso, da una svolta democratica e sociale ad una contro-svolta generale nel campo dello sviluppoe conomico e dello stato.
Questo è il punto che generalmente – da parte di tutti, economisti, giuristi, storici, politici e chi si impegna per la democrazia sociale e la Costituzione – le analisi di oggi non considerano: cioè che il rovesciamento di quella prima grande riforma democratico-sociale, corrispondeva ad un generale arretramento sia al centro che in sede regionale e che si è avuto, da allora, in tutti i campi. A partire dalla ambiguità che da allora ha pervaso i contenuti stessi di ogni strategia politica e di ogni alleanza – anche di “sinistra” divenendo “post-sinistra” o “a-sinistra” – per il prevalere di impostazioni assenti nei decenni precedenti il ‘78, quando le contrapposizioni e le alleanze avevano motivazioni non già ristrette alla pura occupazione del potere politico-amministrativo ma ben più responsabilmente si dislocavano nella ricerca di modelli complessi e articolati di società e di qualità della vita e del lavoro.
La riforma sanitaria era l’esito della superfetazione di un lungo e tormentato processo di lotte politiche e sociali, maturate anche a livello istituzionale con la più complessiva riforma regionale dello stato. Regionalizzazione dello stato che avva il segno della riforma “politica” prima ancora che “amministrativa”, e quindi mirava a “democratizzare” lo stato, ponendo in una prospettiva di sburocratizzazione le prestazioni di servizi e funzioni sociali come quelli sanitari ai cittadini, così che gli enti locali – e massimamente i comuni – erano destinati in base al disegno della Costituzione (artt.118 e 128) a divenire il nucleo di riferimento dei bisogni sociali sul territorio, ed anche il nucleo di base del “modello” di potere ascendente per realizzare la programmazione sanitaria, uguale a quello proposto per la programmazione economica democratica nazionale.
Dalle regioni alle USSL
Contro la neutralità della scienza e la neutralità della tecnica, le lotte operaie per il controllo sociale della produzione e dell’economia, della salute e dell’ambiente in fabbrica e poi nel territorio, spinsero, anche, ad una riforma regionalista che muoveva nel senso dell’originalità costituzionale di istituzioni sempre più dipendenti dalla società, proprio per incidere contemporaneamente sulle “due facce” con cui si presenta lo stato contemporaneo: quello di organizzatore della domanda sociale per governare lo sviluppo economico e la produzione delle risorse; quello di organizzatore di servizi fondamentali e funzioni pubbliche irrinunciabili.
Le regioni non sono state introdotte per “decentrare” le funzioni (come si pensa oggi, specie dopo la modifica del Titolo V), come può ritenere solo chi riesce a concepire come “discendente”, dall’alto in basso, le forme del potere (così che ora, ad es., il “decentramento” viene rivendicato dal Lombardo-veneto e dall’Emilia-Romagna). Affermando con gli statuti regionali – prima ancora che con l’art. 11 del DPR 616/77 – che le Regioni sono soggetti “autonomi” della programmazione economica nazionale (non “locale” o “regionale” che, stante la dimensione dell’economia, non possono che essere dipendenti da quella nazionale) si affermano principi e forme di un potere “ascendente” per indicede e cambiare il sistema di potere centrale.
In questo modo, la regionalizzazione si caratterizzava come una riforma “politica”, che cercando di democratizzare complessivamente lo stato e la Pubblica amministrazione, ha determinato le condizioni per la sburocratizzazione di tutte le prestazioni di servizio e funzioni che, come la sanità, erano destinate agli enti locali comunali, in base a quanto previsto dagli articoli 118 e 128 della Costituzione. Tutta l’impressionante legislazione di riforma degli anni ‘70, era volta alla “sburocratizzazione”.
Viceversa, la “controriforma” rivolta a rilanciare il primato della “tecnica” e degli interessi corporativi, nonché del “privato” sul “pubblico” in nome dell’aziendalismo e dell’economicismo (con modelli diversi, aziende o Enti, ma guidati dalla stessa concezione “neo-burocratica”), ristabiliva il primato delle burocrazie sulla politica, disponendo che le prestazione dei servizi sanitari cessavano di essere “funzione amministrativa” dell’ente locale, come coerentemente con la Costituzione disponeva la Legge di riforma n.833/78, per divenire “servizi pubblici” come quelli gestiti da aziende collegate con il Comune per finalità di tipo “industriale”, come appunto le aziende municipalizzate.
Oggi nessuno ricorda – tranne forse alcuni di noi – che l’attacco contro la strategia delle riforme sociali, per attuare la democrazia sociale prefigurata dalla Costituzione con il controllo sociale dell’economia, si è espresso in primo luogo nelle sedi del potere decentrato e locale, in cui ha manifestato i suoi danni più penetranti attraverso il preciso disegno, riuscito, di sconvolgere e sovvertire la riforma sanitaria che, dopo trent’anni di lotte sociali, era venuta alla fine del 1978, a introdurre con le USSL comunali, la prima e unica riforma amministrativa dello stato democratico.
Per pervenire a tale risultato, si fingeva e falsificava di non poter fare altro che riferimento a testi giuridici in cui si citano solo a due forme: cioè l’azienda e l’Ente: un vetero giuridicismo incapace di assumere come avrebbe dovuto (e come avrebbe suggerito e fatto un Santi Romano) l’innovazione giuridica di organismi tecnico-politici come le USSL (Socio Sanitarie), o USL (sanitarie), proiezione dell’ente elettivo comunale, prodotte dalla combinazione tra l’esperienza delle lotte sociali e le moderne teorie giuridiche democratiche della nostra Costituzione.
In base ad essa, la legge di riforma aveva inteso dare efficacia ed efficienza democratica alle funzioni amministrative, che lo stato si era assunto con i criteri nuovi di “una riforma che se attuata avrebbe comportato una rivoluzione sociale” (“Relazione della Commissione d’inchiesta del Senato” sulla riforma sanitaria), sabotata dalla maggior parte dei giuristi, dai vertici sindacali, Cgil compresa, dalla destra PCI, ed anche dalle Regioni c.d. “rosse” che hanno così negato anche l’attuazione di un potere ascendente – dal territorio e dall’ente locale comunale alle regioni – valido anche per la programmazione economica nazionale.
La prova della sopra detta falsificazione, è data dal fatto che mentre si riconosceva che la trasformazione delle USL in “azienda locale” non poteva, comunque, farle rientrare “di per sé nel modello speciale di cui al testo unico sulle aziende municipalizzate”, tuttavia si perseguiva l’obbiettivo di fare delle USL dei meccanismi operanti addirittura con criteri “di tipo privatistico” – come poi avvenne ed è tutt’ora – sul presupposto che le aziende industriali pertinenti al potere locale andavano adeguandosi a nuove esigenze “di carattere manageriale” e “imprenditoriale” attribuiti alla Pubblica Amministrazione.
Tale indicazione era parte di un disegno di aziendalizzazione più complessivo, che risale già alle elaborazioni dei teorici del centro sinistra degli anni ‘60, il cui intento sostanzialmente realizzato, era o rimane quello di trasformare tutto il potere pubblico in organismo “economico”, secondo cui i ministeri stessi dovrebbero assimilarsi ad “aziende”, le aziende come le ferrovie diventare “enti pubblici economici” e gli enti pubblici economici soggetti “privati”: sul presupposto che ogni apparato pubblico in quanto dotato di risorse finanziarie sia per ciò stesso un soggetto gestore equiparabile ai soggetti “del mercato”.
Si tratta, appunto, di una operazione teorica e politica fondata su premesse “ideologiche” – dell’ideologia accennata all’inizio - secondo le quali, nello specifico, il potere pubblico deve limitarsi – sia in Parlamento, sia nei Consigli Regionali, Provinciali e Comunali – a svolgere un ruolo “esterno” di indirizzo politico, cioè di enunciazione generica e non vincolante di obbiettivi, per altro, già prefigurati nella Costituzione e nelle leggi statali e regionali; mentre i soggetti pubblici gestionali come le Aziende e gli Enti, tutti elevati formalmente a soggetti di diritto pubblico, dovrebbero in piena autonomia manageriale perseguire obbiettivi “concreti”, che vanificano la natura politico-sociale dello stato e degli altri enti democratici della Repubblica delle autonomie.
Tale operazione andava e va denunciata – noi la denunciammo – perché la contrapposizione tra “democrazia” ed “efficienza” corrisponde alla storica contrapposizione tra “democrazia” e “tecnocrazia”, tradizionalmente fatta propria dai ceti conservatori, ma che da subito dopo l’approvazione della legge di Riforma sanitaria (dicembre ‘78) ad oggi, è stata e viene pericolosamente fatta propria anche da forze culturali e politiche un tempo riformatrici e poi divenute “decisioniste”. Che decisero che ormai bastava “gestire” – anche la sanità così come era – senza più “riformare” come invece era necessario per attuare una Legge quadro di riforma per la prevenzione della salute e dell’ambiente.
L’amministrazione pubblica persegue valori generali inconfondibili con gli interessi corporativi propri delle amministrazioni private, e le connessioni tra momento “politico” e momento “gestionale” non possono “spezzarsi” (separarsi), identificando ideologicamente il “pubblico” e il “privato” con un’operazione tanto artificiosa quanto è radicata la contrapposizione tra le due concezioni generali della società e dello Stato.
Se si comprende che l’impresa – nella sua forma tipica di società per azioni – esclude la democrazia nei rapporti tra soci e dipendenti, lo stesso può dirsi nella organizzazione pubblica, che assume la democraticità come condizione alternativa all’organizzazione privata, proprio per ottenere in sede di “gestione”, risultati di efficienza sociale, il cui costo è riconoscibile quantitativamente nelle forme di economicità pubblica diverse ed opposte dall’economicità privata.
Occorre allora, ancor più oggi una ripresa di coscienza collettiva sul significato della democrazia e sui fini sociali dello stato democratico (che è altro dello stato liberale-“democratico”!), per evitare che l’avvenuta trasformazione delle USL in “aziende”, possa continuare a tradursi – abusando delle attese, di cui narrano le cronache, tanto frustrate dei cittadini e dei lavoratori che vedono contrapporre salute e occupazione nei luoghi di lavoro alla salute e ambiente nel territorio, perché tradite da interessate deviazioni del potere pubblico – in alterazioni di valori sociali e istituzionali insieme: tanto più gravi in quanto il potere dominante nelle forme capitalistiche private, conduce un attacco e denuncia le inefficienze del potere pubblico, solo perché “pubblico”: sia che esso sia strutturato nelle assemblee elettive, negli esecutivi democratici, delle aziende di stato, nelle aziende municipalizzate, nelle partecipazioni statali, nelle partecipazioni locali e nelle amministrazioni come gli enti locali e come erano le USL che ne erano una articolazione funzionale e strutturale.
La svolta per la programmazione economica democratica dalle regioni a comuni e USSL.
Oggi, pochi ricordano che furono le lotte sociali di massa, dagli anni 68-69, a “sbloccare” la Costituzione, bloccata dai governi fin dalla sua approvazione, in nome della quale si sviluppavano le grandi lotte e la capacità della classe operaia di organizzarsi in modo autonomo, per il controllo sociale del potere d’impresa in fabbrica e nel territorio; ponendosi come interlocutore diretto dei Comuni, richiamandosi alla Carta del 48. Investendo l’ente locale come soggetto istituzionale di base di quel potere ascendente di cui le Regioni, rispetto al territorio e tramite il Comune, dovevano essere il collettore intermedio rispetto a quello nazionale.
Sicché, molti anni prima che si codificassero in Legge gli elementi centrali e fondamentali di base della riforma sanitaria, erano già operativi, a partire dalle fabbriche – ad es., la Montedison di Castellanza (VA), vera punta di diamante – e dai loro territori circostanti, come le aree del Sud-varesotto e sud-milanese, dove gli enti locali comunali svolgevano unitamente ai Consigli di Fabbrica la funzione sburocratizzata di Ente titolare della salute anche organizzando i Consigli di Zona (oltre che di Quartiere). Da ciò la Legge di Riforma sanitaria avrebbe tratto quella che è stata una vera e propria creazione e invenzione del movimento di lotta sociale e di massa, quali appunto le USSL (a loro volta ripartite, come detto, in Distretti di 5.000 abitanti al massimo), quale organismo tecnico-politico dei Comuni, di cui il Sindaco, autorità sanitaria del territorio, rispondeva alla assemblea elettiva, il Consiglio comunale.
Di questa realtà vigente ed operante da prima della metà degli anni ‘70 la Legge 382/75, e il conseguente Dpr 616/77, hanno costituito l’ordito istituzionale che ha consentito alla Legge 833/78 di costruire una “rete completa” di unità sanitarie come “complesso dei presìdi, degli Uffici e dei servizi dei Comuni”, i quali a loro volta “articolano le Unità sanitarie in Distretti sanitari di base”(art. 10).
In tal modo si è dato origine a nuovi organismi, appunto, come le unità locali di base, concepiti direttamente nel fuoco dell’esperienza della classe operaia e dei lavoratori in genere, la cui rete di base per la programmazione democratica regionale e nazionale della sanità, costituiva un circuito giuridico istituzionale della democrazia diretta e del potere ascendente dal territorio, che rifletteva e corrispondeva a quello stesso pensato e messo in opera per la programmazione economica democratica nazionale e per il controllo sociale della produzione e del potere d’impresa, sostenuti anche dalle rivendicazioni contenute nei Contratti/Riforma e per l’accesso alle informazioni per i piani d’impresa e dell’economia, con un ruolo dell’ente locale che come soggetto della programmazione nazionale si avvaleva del contributo degli organismi e delle assemblee di fabbrica, di Zona, di Quartiere, ecc., fungendo da collettore istituzionale dei bisogni e di un potere di indirizzo del territorio da trasmettere per via istituzionale ascendente a Province e Regioni e da queste al nazionale, per la formazione democratica del Piano economico nazionale, e volendo, per estensione, proiettabile anche a livello sovranazionale.
Donde che si può meglio comprendere come l’attacco non era solo contro la sanità ma contro l’idea e la strategia della programmazione democratica in generale, e segnatamente anche contro la programmazione economica, rispetto a cui la cosa importante è che quella nazionale venga determinata socialmente dal territorio, affinché il Piano economico non risulti “calato dall’alto”, ma dal basso come appunto era il sistema ordito e sancito con la Riforma per la prevenzione sanitaria e ambientale.
Per maggiori informazioni si legga: Il servizio sanitario tra riforma e controriforma
L’autore è stato membro del Comitato Nazionale per la difesa della Riforma sanitaria