Il PD che entra in una crisi che al momento appare irreversibile è una buona notizia. Lo è per la classe lavoratrice del nostro Paese, martoriata dalle politiche economiche e dalle riforme sul lavoro che il partito del dimissionario Matteo Renzi ha portato avanti in questi anni. Ma il PD che entra in crisi non è soltanto quello di Renzi. Entra in crisi il PD come coacervo di posizioni interclassiste, che nella sua supposta neutralità rispetto alla lotta tra le classi rafforza, di fatto, la posizione delle classi dominanti nel rapporto sociale di queste con quelle subalterne.
Il PD è il partito che è andato a braccetto di Marchionne che sanciva la fine delle “contrapposizioni tra capitale e lavoro” mentre tentava di cancellare la contrattazione collettiva nazionale per frantumare ulteriormente i lavoratori, porli in condizione di maggiore ricattabilità ed imporre, senza troppe resistenze, una organizzazione di fabbrica che costringe a ritmi e condizioni di lavoro ad alto tasso di sfruttamento dei lavoratori. Nelle fabbriche si procede da anni verso la “cosiddetta condensazione del tempo di lavoro”, cioè “un fenomeno grazie al quale ogni frazione di tempo viene riempita di lavoro più che in passato e cresce l'intensificazione del lavoro” (Marx). Un fenomeno che gli operai di qualunque stabilimento Fca e indotto possono testimoniare, raccontando la fatica del lavoro, l’alienante condizione della catena di montaggio sempre più accelerata, e insieme la stagnante situazione economica oltre un’esistenza precaria da cui non ci si riesce ad emancipare. E intanto Matteo Renzi, allora segretario del PD e presidente del consiglio sostenuto da tutto il suo partito, sfilava nella passerella di Melfi insieme a Marchionne, nascondendo le reali condizioni dei lavoratori dietro l’esaltazione delle scelte del finanziere italo-canadese.
E mentre Marchionne si esprimeva in quei termini per imporre un nuovo modello contrattuale dove a decidere è solo l’impresa, il governo guidato da Renzi, sostenuto anche da chi oggi promuove la scissione nel PD, si muoveva per superare la contrattazione nazionale, per sostenere l’arroganza di Confindustria e la sua volontà di imporre un nuovo modello contrattuale che sancisse una scala mobile al rovescio a beneficio delle imprese, un forte decentramento contrattuale e la limitazione del diritto di sciopero.
Come si è concretizzato, nei quotidiani rapporti reali nei luoghi di lavoro, quel superamento delle contrapposizioni tra imprese e lavoratori, tra capitale e lavoro affermato da Marchionne e condiviso dai governi sostenuti dal PD? Ad esempio con la riduzione delle cause di lavoro, che dal 2012 si sono ridotte di un terzo? Con la riduzione delle cause in materia di recesso del datore di lavoro o di contratti a termine, che nello stesso periodo hanno visto un calo di oltre due terzi? Anche in questo modo, secondo la visione adulatrice del PD che vede in questo caso lo smantellamento della “peculiarità negativa del nostro Paese, per cui fino a qualche anno fa ogni licenziamento generava quasi automaticamente una controversia” (Ichino). Non c’entrerebbe, quindi, l’abrogazione della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa; non c’entrerebbe la riduzione dell’indennizzo previsto al lavoratore ingiustamente licenziato; non c’entrerebbe la condizione di ricatto in cui si trovano spesso ridotti i lavoratori, per cui sono scoraggiati ad aprire un contenzioso con l’azienda. No, il problema, secondo il senatore del Pd, Pietro Ichino è che finora c’è stato un approccio negativo delle relazioni tra impresa e lavoratore che va superato.
Quell’approccio negativo che va superato anche secondo il ministro Poletti, che pochi giorni fa, parlando all’assemblea del PD, ha ammesso di essersi sentito spesso attaccato da chi sostiene che si occupi troppo di imprese. “Ma a me hanno insegnato che il lavoro ai cittadini lo danno proprio le imprese, che non sono nemiche dei lavoratori”, si è difeso il ministro del Lavoro. Eccolo di nuovo quell’interclassismo che Poletti esalta, ma che la minoranza del PD non smentisce, né ha smentito mentre si votata il Jobs act, la riforma Fornero e quella delle pensioni, la Buona scuola, lo Sblocca Italia; e ancora, che nemmeno la minoranza del PD smentisce, né ha smentito mentre si dava via libera all’utilizzo senza freni dei voucher, che secondo Poletti “vanno assolutamente cambiati” ma comunque rimarrebbero uno strumento per far emergere il lavoro nero. E poco importa se si tratta di un’affermazione negata dai fatti, tanto, come afferma il sempre più convinto intellettuale tradizionale del PD, Michele Serra non ci si può mica dividere sulla “disputa sui voucher”, visto che parliamo di “meno del due per cento del totale delle retribuzioni”. “Esiste al mondo un partito di massa disposto a spaccarsi su una questione del genere?”, domanda retoricamente Serra in un suo intervento su Repubblica.
E infatti il PD non si è spaccato prima e non si spaccherà ora sui voucher, né sul Jobs act, tanto meno sulla Buona scuola. Il PD non si è spaccato nemmeno sul referendum costituzionale, che avrebbe ridotto definitivamente l’Italia al cortile di casa della Troika. Il PD si spacca perché il suo interclassismo è ormai entrato in contraddizione con le condizioni reali delle classi sociali più deboli. Il PD perde consenso, perciò si spacca sul riposizionamento dei soggetti che lo compongono, oggi in lotta per una rendita di posizione, ma fino a ieri uniti nell’approvare leggi tra le peggiori e antipopolari degli ultimi 30 anni.
La crisi del PD è buona notizia, perché ad entrare in crisi è il partito politico che esprime maggiormente le strategie del capitalismo europeo e che con più convinzione si è fatto interprete delle politiche neoliberiste. Ma non si può sperare che un’eventuale rottura del PD determini di per sé ed automaticamente un processo politico favorevole per le classi sociali più deboli. Semmai, rende ancora più urgente la necessità di un soggetto politico di classe in grado di organizzare e dirigere i malcontenti e le istanze popolari verso un processo di trasformazione delle attuali condizioni di lavoro e di vita di quanti subiscono le politiche neoliberiste.