Fiat Europa et pereat mundus, questo potrebbe essere il motto del capo dello Stato, che pare abbandonare il suo laissez faire, anche dinanzi a provvedimenti palesemente incostituzionali, solo per richiamare i sacri vincoli ultraliberisti che “regolano” l’Unione europea. Vincoli necessari a impedire che la sovranità popolare possa provare a mettere in discussione che lo Stato liberal-democratico è della grande borghesia, a prescindere da chi lo governa e dal risultato delle elezioni.
La cieca fedeltà ai diktat dell’Ue, del resto, pare inossidabile, dal momento che l’intero arco parlamentare è soggiogato dall’egemonia del pensiero unico neoliberale, sorto sul dogma della fine delle (altre) ideologie. Tanto è vero che i programmi dei partiti hanno perso qualsiasi importanza nel confronto fra le forze (a)politiche per la formazione del governo. Tanto che il nuovo governo sarebbe già stato benedetto a priori dalla curia, dai sindacati, dalla sinistra radical e dai poteri forti europei. Questa altrimenti assurda unità di vedute si spiega solo con il prevalere incontrastato del pensiero unico, cui il possibile governo Pd, M5s e Leu sarebbe ancora più allineato del precedente. Sarà ora interessante vedere con quale credibilità sindacati confederali e sinistra radical potranno riprendere l’opposizione alla balcanizzazione dell’Italia in nome della secessione dei ricchi.
Inoltre, i punti più avanzati del contratto alla base del governo Conte, come la cancellazione del Jobs act e la quasi cancellazione della “buona scuola”, sono scomparsi dal decalogo grillino, mentre il Pd, da parte sua, ha subito chiarito che non solo non se ne parla proprio di riaprire il discorso sul Jobs act (per altro mai realmente riaperto, neanche da opposizione e sindacati durante il governo Conte). Anzi le modifiche introdotte dal governo Conte per eliminare i tratti più impopolari della “buona scuola” sono disconosciute dalla nuova responsabile scuola del Pd, che non solo ha rivendicato in pieno la più odiata e contrastata delle leggi del governo Renzi, ma ha rilanciato sostenendo la necessità di reintrodurre le gabbie salariali nelle scuole. Non a caso Il punto su cui avevano fatto leva i sindacati per far sì che l’autonomia differenziata non investisse la scuola. Anche in questo caso sarà interessante vedere come tutta la sinistra non rivoluzionaria e i sindacati confederali, incondizionatamente a favore dell’ipotesi di governo Pd-M5s, nel caso vada in porto, potranno portare avanti una credibile opposizione all’ennesima riedizione del “governo amico”.
Così tutto il dibattito sul possibile nuovo governo si è completamente incentrato sul problema delle poltrone, in nome delle quali tanto Pd che M5s sembrano intenzionati ad andare incontro a uno scontro all’ultimo sangue, al grido di “muoia Sansone con tutti i filistei”. Il che comporterebbe, fra l’altro, consegnare alla destra radicale un governo ancora più forte e poco propenso a fare prigionieri. Tale bagarre sulle poltrone e il silenzio assoluto sulle differenze programmatiche ha portato, entrambi i partiti, per uscire dall’imbarazzo, ad accusare la controparte di pensare solo alle poltrone e non ai programmi. Senza che nessuno, però, si senta in dovere di chiarire più di tanto su quali punti programmatici ci sarebbe disaccordo. L’unica indiscrezione filtrata è che mentre il Pd sarebbe intenzionato a fare, al solito, da tappetino alle politiche di austerity dell’Ue, i Cinque stelle – per salvare la faccia da ex sedicenti sovranisti – vorrebbero provare a fare un minimo di resistenza, giusto per vedersi concesso al momento della resa l’onore delle armi.
Ma anche con la destra radicale le differenze sono più formali che reali, tanto che i leghisti hanno subito detto di essere d’accordo su tutti e dieci i punti programmatici del M5s. Facendo poi notare che si trattava degli stessi punti presentati dai grillini per il contratto di governo con la Lega da cui sarebbe nato il (primo?) governo Conte. D’altra parte, anche su un punto su cui pareva esserci una possibile contraddizione fra Lega e M5s e potenzialmente fra grillini e Pd, ossia l’autonomia differenziata – per altro il provvedimento del precedente governo che più ha suscitato dissensi e contrarietà – è stato puntualmente rilanciato nel decalogo dei Cinque stelle. Così, alla faccia della tanto rivendicata discontinuità da parte del Pd, i pontieri incaricati della trattativa programmatica hanno fatto sapere che dal punto di vista programmatico non c’erano nodi sostanziali da sciogliere.
Dunque, come ormai avviene da anni gli schieramenti, apparentemente assolutamente contrapposti, non fanno che accusarsi costantemente di essersi copiati il programma (il che, a furia di copia e incolla sulla base del pensiero unico dominante e dei suoi mantra, spesso è letteralmente vero). Così i cinque punti proposti dal Pd, per segnare la necessaria discontinuità rispetto al governo Conte, in cui i “democratici” avrebbero dovuto rappresentare il ruolo dell’inflessibile opposizione, erano talmente genericamente ripresi dall’ideologia dominante che i grillini, tardi epigoni del qualunquismo, non hanno potuto che affermare che si trattava degli obiettivi che essi da sempre hanno rivendicato. Tra tanti volponi politicanti, talvolta, la imbarazzante ingenuità dei grillini fa quasi pena. Non avendo nessuna ideologia, non riuscendo nemmeno a definirsi rispetto alla più semplice e scontata dicotomia fra destra e sinistra, conservatori o progressisti, a favore delle classi dominanti o delle classi dominate, essi non possono che inconsapevolmente appropriarsi dell’ideologia dominante, credendo da vere mosche cocchiere del capitale di esserne loro gli artefici.
In realtà l’antipolitica, pensiero unico del M5s, è da sempre lo strumento degli oligarchi per mantenere il potere, come da tradizione, nelle loro mani, convincendo le masse che si tratta di qualcosa di in sé negativo, fonte di corruzione. Nella versione più moderna dello Stato minimo liberale le spese pubbliche non funzionali a difendere la persona e le proprietà dei possidenti sono in ultima istanza considerate faux frais della produzione. Anche l’ultima grande campagna antipolitica in realtà è stata lanciata dall’organo ufficioso della classe dominante, il “Corriere della sera”, attraverso due delle sue firme di punta; per essere poi ripresa e volgarizzata da un pagliaccio che su di essa ha costruito la sua fortuna “politica”. Del resto, dopo aver avuto a lungo come presidente un altro pagliaccio specializzato nell’intrattenere i marinai – che ha dato forma più di tutti alla Seconda repubblica – non ci si poteva aspettare di peggio. Purtroppo, come abbiamo potuto ancora una volta constatare, al peggio – se non si reagisce – non c’è mai fine.
Discorso analogo vale per l’altra parola magica che i grillini credono di aver partorito – che poi condensa tutto il senso della loro tragicomica parabola – ossia la sacrosanta critica alla democrazia rappresentativa, cui dovrebbe, però, sostituirsi il governo tecnico apolitico e apartitico. Da qui l’assurda impuntatura ad avanzare come seconda e ultima conditio sine qua non del rovesciamento dell’alleanza di governo la conferma di questo perfetto connubio tra il governo dell’uomo comune e del tecnico, incarnato da Conte. Quest’ultimo è stato improvvisamente promosso a grande statista, per aver fatto un discorso palesemente ridicolo al Senato per rassegnare le dimissioni, con l’unico intento di farsi confermare sulla poltrona incredibilmente occupata nel governo giallo-nero. Nel suo discorso, in effetti, non ha fatto altro che autodenunciarsi quale mero prestanome, rimproverando a Salvini tutto quello che avrebbe dovuto impedirgli impunemente di fare in quanto capo del governo. Per il resto non ha fatto altro che ripetere i mantra dell’ideologia dominante, buttati giù talmente a memoria da essere spesso esposti in modo del tutto insensato.
Qui possiamo limitarci a un unico emblematico esempio, riguardante il tema, a parole riconosciuto da tutti come decisivo, della scuola. Da mero uomo qualunque ha provato a mettere in fila i più scontati slogan dell’ideologia dominante, volta a dequalificare al massimo la scuola pubblica, per imporre una scuola privata generalmente di peggiore qualità. Eccolo dunque asserire che nella scuola non conta quello che si insegna, ma come lo si insegna. Involontariamente, Conte ha riassunto il senso del suo intervento, dove naturalmente non contava nulla quello che diceva, ma solo il modo in cui lo diceva, ovvero dandosi l’aria da serio e compassato statista (tecnico). Aggiungendo in conclusione, che la sola competenza su cui occorre spingere è la competenza digitale, presumibilmente uno dei pochi campi in cui gli alunni sarebbero molto più qualificati a insegnare dei loro professori. Ma del resto, secondo l’ideologia dominante, non ci sarà più bisogno di manodopera qualificata, dal momento che farebbero tutto le macchine. Per cui ci sarebbe bisogno unicamente di tecnici informatici.
D’altra parte sul principio che capo del governo debba essere un tecnico sono sostanzialmente, in piena consonanza con il pensiero unico, quasi tutti d’accordo. Basta considerare i nomi circolati, dove vi sono professionisti di diverse discipline, a cominciare da magistrati, mentre sono nei fatti del tutto assenti i politici. Del resto, dal momento che si tratta di applicare nel modo più pedissequo il dogma dell’austerità, nessun “politico” è disponibile a metterci in prima persona la faccia, a partire dai due principali leader del Pd. L’unica voce che si distacca dal coro, è il populismo della destra radicale, che appare così l’unica reale forza politica in campo.
Il suo leader è l’unico che continua a fare comizi pubblici. È l’unico che si appella alla sovranità popolare, ridotta nella liberal-democrazia al suffragio semi-universale – visto che esclude i lavoratori sprovvisti di documenti italiani. È l’unico che propone, in caso di rifiuto degli altri a dare voce alla sovranità popolare – più di una volta ogni cinque anni – un governo con un presidente politico, sebbene si tratti del più emblematico esempio dell’uomo comune al potere: Di Maio. Infine il suo partito è l’unico che, almeno a chiacchiere, sembra opporsi ai poteri forti esecutori dei dettami del pensiero unico, a partire dalla Troika. Peccato che rappresenti la forma più becera e primitiva di politico, ovvero il demagogo populista della destra radicale, che in realtà mira soltanto a estremizzare il pensiero unico, proponendosi come ultimo epigono del cesarismo o bonapartismo regressivo.
Tale grottesca situazione è resa possibile esclusivamente dalla completa passività dei subalterni, ridottisi a meri spettatori del teatrino della politica politicante. Così i mezzi di comunicazione di massa, ovvero la voce del padrone, non hanno mancato di sottolineare questa presunta ripresa di interesse degli “italiani” per la “politica”, dal momento che stanno vivendo questa crisi di governo come un sostituto dei mondiali o delle olimpiadi. Qualcosa a cui assistere comodamente in televisione, provando a godersi lo spettacolo di guitti del teatrino della (a)politica. La cosa davvero più allarmante è che tale passività è cara alla tradizione liberale tutta incentrata sul concetto di delega della politica a una ristretta cerchia di specialisti, per potersi così dedicare anima e corpo all’unica cosa davvero sacra, la ricerca del profitto personale (naturalmente per chi dispone dei capitali necessari, che gli consente di fare profitti a danno dei subalterni sfruttati).
Non a caso, dunque, la ramanzina di Conte a Salvini ha raggiunto l’apice, conquistandosi una ovazione da parte del Pd, quando gli ha rimproverato di continuare a fare appello alle masse, affinché scendano nelle piazze per far valere la loro volontà, del tutto bypassata dai professionisti e dilettanti (grillini) della politica politicante. Anche fra i punti presentati dal Pd – dopo l’ovvio principio della completa sottomissione al feticcio dell’Unione europea – non poteva mancare la rivendicazione che la politica si fa nel parlamento e non certo nelle strade e nelle piazze, tanto per mettere a tacere il populismo grillino che a ragione è l’unico a insistere sui limiti del principio liberale della delega e sulla necessità di una democrazia diretta, che poi declinano nel modo più demagogico. Del resto, se si lascia questa decisiva istanza ai dilettanti allo sbaraglio in rappresentanza del fantomatico uomo qualunque, senza qualità, non ci si poteva attendere nulla di meglio. La cosa paradossale è che anche la sinistra radical – ormai talmente minoritaria da non essere in grado di avere nemmeno una minima rappresentanza parlamentare, da usare come tribuna – è entrata pienamente nell’ottica della riduzione del politico a spettatore. Ecco così, per citare due casi e figure emblematiche, il segretario della principale forza che si definisce comunista e la direttrice dell’unico quotidiano che si definisce comunista sostenere, all’unisono, che in questa fase l’unica possibilità è quella di un accordo di palazzo, a prescindere dai contenuti, tra le forze parlamentari della palude, pur di impedire a Salvini di governare il paese. Eccoli, così, ridotti alla funzione tipica dello spettatore ai mondiali che si sente in diritto e in dovere di dare consigli all’allenatore su quale squadra far scendere in campo e con quale schemi farle portare a casa il risultato, ben sapendo di non avere nessuna possibilità che i propri “buoni consigli” siano seguiti da nessuno che ha, realmente, voce in capitolo.